III CAP – MODELLI DI ETICA DELLA COMUNICAZIONE
Comunicare è creare uno spazio comune, questo significato è sottinteso a tutti i modelli!
1) la natura dell’uomo e la comunicazione;
2) il modello dialogico;
3) il modello retorico di riferimento all’audience;
4) il criterio dell’utilità individuale e collettiva;
5) la comunità della comunicazione.
1) la natura dell’uomo e la comunicazione;
Platone e Aristotele ritengono fondamentale partire dalla concezione dell’essere umano per stabilire
una connessione con l’etica della comunicazione, pertanto se l’uomo è considerato “cattivo” per
natura avremo per esempio il politico che mente senza scrupoli pur di ottenere il consenso della
massa, se al contrario l’uomo è considerato “buono” per natura, allora tenderà a salvaguardare gli
interessi altrui.. Socrate parla invece di un’etica della comunicazione fondata sul senso di giustizia
(per cui è meglio essere puniti e morire piuttosto che dire il falso). A questo modello si contrappone
l’idea giudaico-cristiana che mette in discussione luna natura umana stabilita “a priori” poiché Dio
con le sue richieste va decisamente contro le tendenze umane volte all’appagamento di sé o delle
esigenze altrui. Il limite del modello sta nell’incapacità di definire il collegamento tra le motivazioni
e l’agire concreto.
2) il dialogo come modello etico di comunicazione (modello dialogico);
Per Buber pensare = comunicare > dialogo.
Il dialogo unisce il mondo, gli uomini e Dio, quando si dialoga in modo corretto non si trasmettono
solo informazioni ma si crea uno spazio di condivisione d’esperienze in grado di trasformare gli
attori coinvolti. Essi partono dall’assunto che la propria posizione non è immodificabile o assoluta,
il rischio quindi è di perdere la propria identità e cambiare magari idea sulla vita e su se stessi,
nonostante ciò il dialogo presuppone apertura e fiducia verso l’altro; un conto è riferirsi all’altro
come partner “dando del tu”, diverso è “dare dell’esso”, riducendolo a un oggetto.
Il limite del modello sta nell’incapacità di fornire una motivazione adeguata a scegliere il dialogo,
Buber e i teorici del dialogo avanzano 2 tesi:
- Dio si rivolge all’uomo con la parola
- È la natura dell’uomo
La prima tesi non può essere accettata in quanto non tutti condividono una prospettiva della vita di
tipo religioso, mentre con la seconda si ritorna al precedente modello e quindi alla difficoltà di
scoprire e legittimare la natura dell’uomo che è fondamentalmente insondabile, contraddittoria
perchè imperfetta e di cui ci è concesso scrutarne soltanto una piccola parte!
3) il modello retorico di riferimento all’audience
Rispetto al primo modello dove l’attenzione è focalizzata su colui che si esprime e sul modo in cui
lo fa (natura buona/cattiva), in questo caso ci si concentra sul pubblico. Si tratta di un modello
molto in voga al giorno d’oggi, insegnanti, scrittori, oratori e politici per esempio adattano il loro
linguaggio in base a chi si trovano di fronte, per esempio un pubblico colto o del settore oppure
profano, adulti o minori. Per Aristotele una buona retorica consiste nel fornire all’interlocutore
consigli e informazioni che gli permettano di prendere una decisione ponderata, inoltre è
subordinata al senso etico e di giustizia, pertanto è chiaro che va sempre detta la verità, anche se
scomoda o contraria a ciò che il pubblico si aspetta; una cattiva retorica invece punta alla
soddisfazione del pubblico senza tener conto di criteri morali perché l’unico scopo è persuadere.
Questo rischio si evidenzia nel caso di leader politici o per es in altri movimenti di tipo settario in
cui vi è una figura centrale a cui affidarsi incondizionatamente.
4) il criterio dell’utilità individuale e collettiva;
La tesi di fondo dell’utilitarismo è la seguente: tutti gli uomini sono spinti ad agire dal
perseguimento dell’utile, il che significa che ognuno cerca la felicità a modo suo! L’idea primaria
come sempre è quella di definire dei criteri morali che abbiano validità universale, in questo caso a
partire da ciò che rende felice un individuo e scoprendo i meccanismi per soddisfare il maggior
numero di altre persone, il più a lungo possibile. Mill parla a proposito di “utile collettivo”, nel testo
si cita anche “l’utile sociale” con riferimento ad Howell che sostiene la necessità di collaborare
attivamente all’articolazione del processo comunicativo. Sono sotto gli occhi di tutti i conflitti tra
società, culture, religioni e gruppi per quanto riguarda la definizione di ciò che è utile, ciascuno si
ritiene depositario della verità e può benissimo utilizzare la comunicazione per manipolare le
coscienze o mentire. Il tutto si risolve quindi in qualcosa d’ideale ed astratto, non solo, risorge per
l’ennesima volta il problema della motivazione, cioè perché devo agire in base al criterio dell’utile,
che come abbiamo visto non può essere oggettivo, quando invece potrei anche agire in maniera
disinteressata e senza calcoli. Bisogna tornare al primo modello se s’intende dare una risposta,
quindi all’esplorazione della natura umana nelle sue svariate sfaccettature.
5) la comunità della comunicazione.
Per Apel (v. paragrafo forme di etica) ogni parlante fa parte di una “comunità illimitata della
comunicazione”, se s’individuano e si mettono in atto i principi morali insiti nel processo
comunicativo (solidarietà, giustizia e co-responsabilità) si parla di etica nella comunicazione,
altrimenti se si fa riferimento alle regole del processo comunicativo (ad es alternanza dei turni di
parola in una conversazione tra amici) di etica della comunicazione.
Apel sostiene che “non si può non comunicare”, questo è il primo assioma della pragmatica della
comunicazione (Watzlawick), già il solo fatto di negare quest’asserzione, significa dover trovare
una contro-argomentazione a sostegno della propria tesi.
Il problema per la legittimazione di questo modello sta nella difficoltà di giustificare l’effettiva
assunzione dei criteri morali impliciti nella comunicazione, infatti spesso il linguaggio è sia organo
d’intesa che di ostacolo e Apel tenta di risolvere la questione con una scissione dell’etica del
discorso in una parte A (ideale) e una parte B (reale), assumendo che l’individuo e la comunità sono
soggetti all’obbligo di comunicare secondo dei principi morali, poi però fa appello alla
responsabilità di ciascuno dicendo che si può optare per un comportamento comunicativo etico, il
che è auspicabile oltre che possibile.
IV CAP – L’ETICA DELLA COMUNICAZIONE OGGI
L’etica della comunicazione si basa sulla capacità di comprendere, scegliere e giustificare ciò che è
“buono” sul piano comunicativo, nel presente capitolo si parlerà di etica con riferimento ai mass-
media (internet, televisione e giornalismo), al marketing pubblicitario e a professioni comunicative
come quella per esempio di medico, politico o di mediatore interculturale.
Etica della parola, della scrittura e delle professioni comunicative
Chi parla e chi scrive vuole essere creduto e lasciare un segno della sua esistenza, nel caso della
scrittura la possibilità di un confronto diretto tra colui che si esprime e colui che legge il testo viene
meno, il segno scritto infatti è più neutro rispetto al segno verbale, è di tutti e di nessuno, può finire
nelle mani di chiunque ed essere interpretato in modi diversi, mentre un discorso a voce è qualcosa
di più immediato, di diretto e pertanto coinvolge maggiormente. In ogni caso è necessaria da parte
di colui che legge o ascolta un’apertura a priori e di conseguenza una disposizione a credere,
altrimenti non è possibile instaurare una comunicazione.
Per quanto riguarda la comunicazione pubblica e istituzionale, il comunicatore fa da tramite tra le
istituzioni e il cittadino, accade con il mediatore culturale che ha il compito di promuovere una
convivenza civile e rispettosa tra differenti tradizioni religiose e culturali, oppure in ambito bio-
sanitario con la relazione medico-paziente: il paziente è considerato un alleato nella terapia e nel
processo di guarigione e il medico è tenuto a dare comunicazioni schiette e prive di tecnicismi.
Infine, il marketing e la politica: il fine è di persuadere il consumatore o il cittadino (modello
retorico dell’audience), tuttavia è bene considerare che è fondamentale risultare credibili e non
perdere la fiducia del destinatario; qui emerge la valenza etica di tutte queste attività finora
menzionate e dal punto di vista dell’etica della comunicazione “verità” significa che quello che
viene detto, nel modo in cui viene detto, risulta funzionale alla creazione, al mantenimento e alla
promozione del processo comunicativo. Da un punto di vista concettuale, la “verità”
(corrispondenza tra ciò che dico e ciò che è) si distingue dalla “veridicità” (ciò che dico corrisponde
a ciò che penso), mentre se si considera la questione dal punto di vista filosofico, la verità pone un
bel dilemma di cui si è dibattuto per secoli, celebre è il dibattito “a distanza” tra B. Konstant (fine
700) e Kant: il primo si domanda se sia il caso di mentire qualora l’assassino che è ricercato è
nascosto in casa mia in quanto è mio amico, mentre per Kant non ci sono dubbi, la verità va sempre
detta ed è un principio incondizionato!
Etica del giornalismo: la questione dell’obiettività
Il giornalista non può essere obiettivo e quindi dire la verità, può invece fare appello alla veridicità,
questo perché inevitabilmente offre una prospettiva personale sulla realtà, ovvero un’interpretazione
soggettiva dei fatti. La responsabilità di un bravo giornalista consiste dunque nell’essere equo, cioè
nel promuovere il dibattito pubblico e il confronto d’idee su quanto riportato, mantenendosi fedele a
quelle regole condivise e stabilite dal suo Ordine professionale attraverso il codice deontologico al
quale ha deliberatamente scelto di aderire. Tutto ciò significa fare una “buona” informazione, essere
professionali ed etici. Diversamente accade di fare propaganda subordinando la correttezza
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