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I motivi per i quali una determinata attività viene affidata a professionisti e non è realizzata direttamente dalle persone alle quali
necessitano i risultati che l’attività può produrre, possono essere:
funzionale divisione del lavoro, nel caso in cui le competenze richieste siano acquisibili solo attraverso una formazione
• specifica;
produrre beni e servizi in maggiore quantità e minori tempi e costi.
•
Anche l’educazione è sottoposta a dinamiche di affidamento, delega o realizzazione in proprio.
La delega educativa è prevista e legittimata quando la complessità degli scopi educativi rende necessario l’intervento di operatori
specializzati.
Vi sono però alcune dimensioni, in particolare quella familiare, che non sono, in linea di massima, affidabili ad altri. Questo perché
sono attività insite nel ruolo di genitori e considerate quindi “naturali”.
La famiglia non delega molti aspetti della propria potenzialità educativa perché è ritenuta e si ritiene, per il solo fatto di essere tale, in
possesso del sapere necessario all’educazione.
La capacità di ben educare sarebbe connaturata alla posizione che si occupa in famiglia (genitore, nonno, nonna). Quindi la capacità di
educare potrebbe essere considerata naturalmente presente nelle persone come potenzialità. Si trasformerebbe in atto quando il ruolo
lo richiede (esempio diventando genitori). La conseguenza logica è che il sapere necessario per educare acquisterebbe per il solo fatto
di essere stati, a propria volta, educati.
La domanda che ci si pone è: la capacità di educare dell’educatore professionale è naturale o deriva da un’intensa opera di
professionalizzazione?
La risposta alla precedente domanda darebbe vita a due immagini di educatore:
un educatore ‘caldo’, genitoriale, emotivamente coinvolto, intuitivo, unico;
• un educatore ‘freddo’, tecnicista, distaccato, riproducibile in serie.
•
L’educatore professionale dovrebbe essere un mix degli aspetti migliori presenti nelle due figure descritte sopra.
Il lavoro educativo, in quanto attività professionale, è in sé altro rispetto a qualsiasi pratica educativa non professionale. Ad esempio:
“Un educatore non potrà mai essere “amico” di un educando?”; “le componenti di affettività presenti in una comunità per minori non
potranno mai replicare quelle familiari?”.
Le caratteristiche della relazione educativa/professionale sono:
essere all’interno di un contratto pubblico;
• prevedere un compenso economico;
• essere costruita ad hoc, ossia artificialmente, in funzione degli scopi auspicati;
• essere un servizio connotato da riconoscibilità e intenzionalità.
•
La capacità di essere in relazione educativa professionale dipende sia da una disposizione vocazionale, sia da una solida preparazione
di base, sia da costanti pratiche di aggiornamento che dotino l’educatore di idonei strumenti disciplinari e metodologici.
Formare gli educatori: la prassi e la teoria
L’educatore professionale deve essere professionalizzato. In questo senso si pongono tre problemi:
individuare le istituzioni che devono formare gli educatori; Tali istituzioni sono le università.
• individuare gli obiettivi formativi.
• come deve essere impostata la formazione.
•
Rispetto agli ultimi due punti, gli obiettivi e la modalità della formazione non sono definibili se non nelle loro linee generali. Ciò
perché essi dipendono dalle impostazioni diverse dei vari indirizzi individuabili nel campo educativo (socio-sanitario, formatore degli
adulti, operatori per l’infanzia, ecc).
Un aspetto importante nel dibattito sulla formazione degli educatori riguarda il rapporto tra la pratica e la teoria.
Il primato della formazione pratica su quella teorica, nasce dalla convinzione che la professione dell’educatore sia una professione
“plastica” e che non si possa acquisire sapere se non facendo prassi. Si manifesta però il rischio che si sottovaluti la padronanza della
teoria che è invece indispensabile.
Il primato della teoria sulla pratica, nasce perché il pensiero sull’educazione è stato considerato di pertinenza disciplinare della
filosofia. In questa posizione c’è il rischio che si sopravvaluti ciò che è intellettuale e che si pensi che la padronanza del pensiero
educativo renda di per sé capaci di educare.
In realtà gli elementi formativi teorici e pratici devono essere integrati.
Infatti nell’operatività dell’educatore, il generale (l’astratto) serve a leggere il particolare (il caso concreto e contestualizzato) che a
sua volta contribuisce a ridefinire il generale.
Cap.2: L’irriducibile pluralità delle esperienze educative
Le categorie dell’educazione
Nel corso della loro esistenza i soggetti individuali e collettivi sono esposti a una molteplicità di esperienze educative. Alcune di
queste esperienze hanno obiettivi comuni considerabili tra loro coerenti. Altre presentano obiettivi diversi ma tra loro compatibili.
Altre, infine, presentano intenzioni e obiettivi tra loro conflittuali e antagonisti.
Le esperienze educative hanno peso diverso e concorrono in misura differente alla formazione.
La “formatività” delle esperienze educative è solo parzialmente quantificabile nel corso del loro realizzarsi.
I risultati sono sondabili e valutabili soprattutto dai soggetti destinatari, solo retrospettivamente quando le esperienze sono rievocate e
ricostruite nel tentativo di comprendere ciò che hanno o non hanno determinato.
Siccome, come si è detto, le esperienze educative sono complesse, incerte e poliformi, non è possibile classificarle e ordinarle.
Si può invece tentare di individuare alcuni addensati relativamente omogenei di accadimenti educativi, indicando gli elementi che li
distinguono, sempre consapevoli della fragilità dei loro confini.
La prima possibile tripartizione distingue tra:
1.1. Esperienze formali (che possono essere fatte coincidere con l’esperienza scolastica) che hanno le seguenti caratteristiche:
Sono fortemente intenzionali ed organizzate;
• Si svolgono in luoghi e tempi regolati da norme nazionali e locali;
• Sono in parte obbligatorie, in quanto i soggetti coinvolti lo sono senza aver posto nessuna domanda formativa;
• Fanno conseguire e rilasciano un titolo di studio.
•
1.2. Esperienze non formali (sono esterne all’istituzione scolastica)
Sono dotate di intenzionalità, progetto e contratto;
• Perseguono l’obiettivo di far apprendere conoscenze, abilità e competenze che riguardano diversi ambiti della vita dei
• soggetti;
Rientrano in questa categoria: l’università della terza età, i corsi di lingua, di educazione motoria, ecc.
•
La principale differenza tra le esperienze formali e quelle non formali, è che le prime rappresentano un investimento collettivo
finalizzato a fornire alle giovani generazioni gli strumenti per raggiungere la condizione adulta. Inoltre, sempre le prime, sono
parzialmente obbligatorie.
1.3. Esperienze informali (in questa categoria rientrano tutte le esperienze che non rientrano nelle due precedenti aree)
Riguardano la complessità della vita quotidiana e dell’esistenza dei soggetti;
• Non hanno un progetto e una intenzionalità chiari;
• Non si “dichiarano” educative a non sono percepite come tali dai soggetti coinvolti;
• Sono le esperienze che cambiano, fanno maturare e capire;
• Sono comunque educative;
• Esempi: incontro con figure considerate mentori (cioè maestri), con prodotti artistici, culturali, avvenimenti pubblici, ecc.
•
Questa ripartizione delle esperienze educative rispetto al loro livello di formalizzazione serve a tre scopi:
1. a ricostruire quanti e quali interventi educativi i soggetti incontrano nella loro vita;
2. a ridimensionare l’eccessivo peso educativo della scuola;
3. a sottolineare, da un lato, l’importanza che riveste l’azione professionale degli educatori extra-scolastici e, dall’altra,
l’importanza delle pratiche educative non formali in una società, come l’attuale, nella quale è necessario un continuo
aggiornamento.
Un seconda ripartizione delle esperienze educative si basa sul loro grado di intenzionalità:
2.1. Esperienze intenzionali
Si dichiarano “educative” e sono considerate tali dai “produttori” e dalla maggior parte dei “consumatori”
• In esse c’è sempre la presenza di un soggetto (persona, gruppo, comunità) che ha lo scopo di “educare l’altro”
• Sono esperienze intenzionali la scuola, la formazione aziendale, i corsi di vario tipo
• Rientrano anche le esperienze (esempio l’esperienza carceraria) nelle quali il soggetto destinatario non ne riconosce la
• componente educativa
2.2. Esperienze non dichiaratamente intenzionali
Sono esperienze educative che tendono a modificare o a instaurare comportamenti nei destinatari senza che ciò sia
• direttamente esplicitato
La gestione e l’articolazione dell’intervento sono solo dei promotori
• Può succedere che “il bene” perseguito dai produttori, non sia quello dei destinatari, ma il loro
• Esempi: le campagne pubblicitarie, l’organizzazione di spazi di incontro all’interno delle città, ecc.
•
2.3. Esperienze non intenzionali
Non hanno una progettualità educativa né esplicita né celata
• Se ci sono i produttori non sono consapevoli di essere produttori di esperienze educative
• I risultati educativi possono essere prodotti anche da eventi
• Esempi: rapporti interpersonali, esperienze piacevoli e non, esperienze collettive coinvolgenti le catastrofi naturali
• In queste esperienze il margine di controllabilità pedagogica è ristretto o nullo. In qualsiasi esperienza educativa
• interagiscono più ripartizioni, quindi anche nelle esperienze più istituzionalizzate sono presenti aree non regolate da
intenzionalità, che possono risultare più formative rispetto agli aspetti intenzionali.
La mappa delle esperienze educative
La vita dei soggetti è costellata da esperienze educative che non si possono ridurre ad un elenco in quanto sono molto complesse.
L’elencazione che segue ha lo scopo di prospettare una griglia (non esaustiva) che serva a orientare nella ricerca e nell’analisi delle
storie di formazione di qualsiasi soggetto. Le esperienze avvengono in particolari ambienti:
A) La famiglia : La famiglia è un’ esperienza multiforme e complessa che