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GENERAL INTELLECT
L’estensione della cultura mediatica e la sua profonda integrazione nella vita quotidiana sono il
completamento di ciò che Marx ha definito “sussunzione reale” della società sotto il capitale. Il capitale
(pubblicità, brand, la serie tv, la musica etc.), viene socializzato sino a diventare parte dello stesso ambiente o
contesto bio-politico. La vita si evolve dentro il capitale. L’individuo (visto come debole e malleabile)
contemporaneo nasce e vive nel capitale, la sua soggettività viene socializzata a tal punto che egli diventa un
medium per la circolazione del valore. Ci sono state molte critiche alla teoria della “sussunzione reale”, che
provenivano da filosofi come Adorno, Baudrillard e Horkheimer, il loro punto di vista era piuttosto
apocalittico: alienazione, fine del soggetto, alle volte perfino fine del reale. Un approccio alternativo a questa
visione pessimistica era quello della scuola italiana dei post-operaisti, sviluppatasi nel dopoguerra. Anche
essa sottolineava la tendenza verso la socializzazione del capitale e al decentramento del processo produttivo.
Questa teoria ebbe una chiara formulazione negli anni 70, con gli studi sulle nuove fabbriche basate sul
sistema di produzione Toyota (toyotismo: principio cardine, organizzazione del lavoro fondata sull’auto-
organizzazione) e sui nuovi distretti industriali italiani, in via di sviluppo economico. E’ chiaro che
l’autorganizzazione della produzione richiedeva strumenti diversi da quelli su cui si basava il processo
produttivo taylorista. Furono messe all’opera le abilità comunicative e sociali degli operai nel creare un
mondo sociale comune. Negri (1988) parla di una nuova figura professionale “l’operaio sociale” che
utilizzava la propria abilità comunicativa per creare un contesto di sviluppo dinamico della produzione
materiale, quindi “l’operaio sociale” lavorava con una capacità comune di creare significati e legami sociali
attraverso la comunicazione. Così facendo, metteva in moto ciò che Marx ha racchiuso in un concetto caro ai
post-operaisti italiani: “general intellect”. Con questa espressione Marx fa riferimento alla forza produttiva
che si sviluppa all’interno del capitale. Nel taylorismo, gli operai venivano spinti a comportarsi come
“momenti” di un processo produttivo non creato da loro, esso faceva della limitazione dell’interazione tra gli
operai all’interno della fabbrica il suo punto di forza. Marx però, allo stesso tempo afferma che la disciplina
capitalista non è solo repressiva ma anche produttiva. Nasce una nuova soggettività mediata dalle macchine e
dall’organizzazione complessiva della fabbrica. Marx sviluppa questa linea di pensiero sino a un passaggio
citato dai post-operaisti, denominato poi “frammenti sulle macchine”, e qui egli introduce il concetto di
“general intellect”. Con questa espressione sembra riferirsi all’enorme forza produttiva divenuta proprietà del
capitale industriale su scala allargata, rappresentato dalle macchine. Ma aggiunge che le macchine sono
“organi del cervello umano”, “capacità scientifica oggettivata”. Si tratta di un “sapere sociale generale”. La
base della creazione della ricchezza non è più il frutto del lavoro altrui, quanto “l’appropriazione della
produttività generale dell’operaio”, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua
esistenza di corpo sociale. Il “general intellect” è un effetto emergente dell’interazione sociale, che va oltre il
controllo diretto del singolo individuo. Si evolve dalle capacità umane di base per intessere reazioni sociali
man mano che tali capacità sono mediate dalle macchine. Il “general intellect” è una risorsa produttiva
disponibile se rimane inscritta nell’ambiente stesso del processo produttivo. Ciò che affermano i post-
operaisti, tra cui Paolo Virno è che per Marx il “generale intellect” è un “capitale fisso”, mentre esso si
presenta come lavoro vivo, la connessione tra sapere e produzione non si esaurisce nel sistema delle
macchine ma deve articolarsi tramite soggetti concreti, esso include anche quelle forme di sapere che
strutturano le comunicazioni sociali e che incoraggiano l’attività di lavoro dell’intellettualità di massa. Il
presupposto del “general intellect” per Virno è una socialità liberata dalla società industriale con nuove
forme di interazione meno gerarchizzate nate da controculture degli anni 60 e 70. Un’altra possibilità valida
è la cultura mediatica che per la maggior parte è liberamente accessibile e deve esserlo, perché il suo valore
sta nell’attenzione che riesce a catturare. Il “general intellect” della cultura mediatica viene sfruttato dal
marketing come forza produttiva. I consumatori usano la cultura mediatica come risorsa produttiva
sfruttando competenze, reti di significati all’interno di essa, come una sorta di linguaggio attraverso il quale
danno un senso al comune prodotto della loro azione.
MEDIATIZZAZIONE E CONSUMO
I beni di marca sono commodities esperienziali. Secondo il marketing, il fulcro del loro valore sta nelle
esperienze che permettono di vivere. Essi non offrono esperienze preconfezionate ma consentono la
produzione di un’esperienza o forme di valore d’uso immateriali come identità o la comunità. Le marche
sfruttano la produttività dei consumatori per la co-produzione del loro valore. Il valore di un brand dipende
dal fatto che il consumatore trasferisce una parte di se e del suo mondo di vita nel prodotto, diventa lui
stesso, parte dell’esperienza di essere insieme ai prodotti, questa capacità del consumatore è collegata alla
mediatizzazione del consumo. I beni e la cultura mediatica sono strumenti dei consumatori nella
rappresentazione quotidiana dell’identità, appartenenza a una comunità etc. Dunque per i consumatori la
cultura mediatica è un’infrastruttura produttiva al servizio della costruzione di un mondo sociale comune. Gli
individui di tutte le società si sono sempre serviti dei beni per rappresentare o intessere specifiche relazioni
sociali. La differenza che si può ricavare dagli studi degli antropologi tra beni “non moderni” e “moderni” è
che i primi erano usati per riprodurre forme di socialità già esistenti mentre i secondi producono nuove forme
di socialità. I beni di consumo moderni sono mediatizzati, connessi cioè, alla rete intertestuale di significati,
simboli, immagini e pratiche discorsive creati dai media come la tv, la radio, le riviste, internet etc. In certa
misura si può affermare che tutta la comunicazione umana è mediatizzata, visto che si basa su un medium (il
linguaggio in tutte le sue forme) che trasforma o distorce il messaggio dell’emittente. In questa prospettiva la
comunicazione è la produzione di un elemento comune, nuove e condiviso. Dato che non possono capirsi tra
loro in modo diretto, gli individui devono dare vita a un mondo comune intellegibile, ciò necessita di
pratiche discorsive dotate di senso. Come ha dimostrato Niklas Luhmann (1990) la caratteristica distintiva
del senso è quella di trattenere come possibilità ciò che è stato negato. La comunicazione umana produce un
orizzonte di virtualità implicando che le cose, poiché sono ciò che sono, potrebbero anche essere diverse.
Tale virtualità è reale ma non tangibile, è reale nella sua potenzialità. La cultura mediatica allarga questo
orizzonte di virtualità collegando tra loro processi comunicativi diversi, e facendoli sviluppare in un
ambiente comune. Gabriel Tarde ha sottolineato questo fenomeno teorizzando la comparsa di una nuova
soggettività umana, specifica dell’età dei mass media “il pubblico” cioè l’interconnessione delle razionalità
delle singole menti, che agiscono in maniera congiunta. Il pubblico istituzionalizza un processo di
produzione collettiva (opinione pubblica, valore-utilità, bellezza e verità) e i risultati sono al di là del diretto
controllo del singolo\gruppo di agenti. Alcuni suoi membri possono essere ovviamente più autorevoli di altri,
con forme di ricezione innovative e imitative. Habermas nel (1971) riprende e sviluppa questa teoria,
andando anche oltre e affermando che la mediatizzazione della comunicazione sociale tende a vanificare
l’autonomia della ragione, anche se in effetti tale mediatizzazione è stata resa possibile proprio dalla
comparsa di un pubblico borghese basato sulla rete mediatica. In base alle riflessioni di Tarde e a un
interpretazione non convenzionale delle teorie di Habermas, si potrebbe pensare alla cultura mediatica come
a una rete di pubblici, grazie alla quale il risultato di una produttività socializzata si rende disponibile al
singolo individuo o piccolo gruppo, e crea un orizzonte comune dotato di significato (un general intellect) da
utilizzare come risorsa produttiva in particolari circostanze comunicative. La necessità di difendersi da
fantasticherie (cinema, videogiochi) costituisce un importante fondamento logico alla base delle richieste di
regolamentazione dei mass media. In quest’ottica è possibile rielaborare anche il concetto di “anomia” di
Durkheim, definendolo come il rischio di essere coinvolti eccessivamente nei pericoli moderni di una
immaginazione eccessiva, potenziata dai media. Nella sua accezione originaria l’anomia è la situazione per
cui l’individuo immagina di trovarsi in forme di vita che si spingono oltre ciò che è realisticamente possibile
o socialmente accettabile. Questo si verifica quando l’individuo sfugge improvvisamente al controllo
esercitato dalle norme e aspettative implicite nel suo contesto sociale, come avviene nel caso di una rapida
mobilità sociale o divorzio. Durkheim ritiene che la natura moderna dell’anomia sia connessa alla mobilità
della vita moderna, mentre altri studiosi affermano che in quanto particolare stato d’animo dovrebbe essere
collegata anche alla vita irreale proposta dai mass media e dalla cultura dei consumi. Gli storici collegano
l’estensione dei pubblici alla diffusione dei beni di consumo. Tuttavia è stato lo sviluppo della stampa a
segnare il primo passo verso una cultura dei consumi, poiché ha avuto la funzione di unificare e
generalizzare le preferenze delle persone e ha unificato il commercio grazie all’espansione del capitalismo.
E’ attraverso la connessione dei beni con la cultura mediatica che questi si appropriano dell’orizzonte di
virtualità che