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DAVID HUME DEI SAGGI RITIRATI, ANALISI CRITICA
Appena dopo la stesura e la pubblicazione del Trattato sulla natura umana (1739 i primi due – 1740
il terzo) e conseguentemente al fallimento di questo, Hume sentiva la necessità di rivolgersi ad un
pubblico più ampio rispetto a quello interessato a puntigliose e profonde riflessioni filosofiche; da
questa necessità arrivarono i Saggi (Essays, Moral and Political; 1741 15 scritti, 1742 12 scritti).
Essi furono rimaneggiati e revisionati più e più volte, ora aggiungendo, ora togliendo parti e note,
ma anche rivedendo l’ordine stesso di “comparsa” dei saggi nell’opera. Arriverà addirittura
un’edizione postuma nel 1777. i saggi che in questo lavoro verranno analizzati appartengono alla
categoria di Saggi Ritirati.
SAGGIO TERZO – LA CONDIZIONE MEDIA DI VITA
L’intero saggio potrebbe essere descritto, a mio avviso, dal celebre assunto delle Satire oraziane “est
modus in rebus”. Hume qui si fa difensore e portatore del valore secondo cui la scelta moderata sia
sempre la più saggia e adeguata da prendere, tanto nelle dispute, quanto nelle valutazioni di
carattere personale.
La trattazione di Hume si apre con la morale di un apologo circa un piccolo ruscello; esso incontra
un piccolo fiumiciattolo, quest’ultimo lo apostrofa con parole di sdegno:
‹‹Fratello, ti trovi sempre nella stessa condizione, ancora piccolo e strisciante! Non ti vergogni di fronte a
me, che ero nella tua stessa condizione mentre ora sono divenuto un grande fiume , e in breve, purchè
continuino le amichevoli piogge che hanno favorito le mie rive e trascurato le tue, sarò in grado di
rivaleggiare con il Danubio e con il Reno?››. L’umile ruscello rispose: ‹‹ È vero, tu ora sei cresciuto a una
considerevole grandezza, ma credo che tu sarai anche divenuto torbido e melmoso; io mi accontento della
mia umile condizione e della mia purezza››.
Il breve racconto di Hume porta subito il suo lettore a capire verso quale conclusione l’autore
propenda; ciò è corroborato anche da un intento: persuadere i lettori che si trovano in una
condizione intermedia ad esserne soddisfatti. Questo fa emergere la natura morale ed etica del
filosofo, il quale cerca di “guidare” il suo spettatore verso un appagamento completo rispetto al
proprio status economico e sociale, mostrando come in altri luoghi ed in altri tempi non sempre (e
azzarderei un “quasi mai”!) ricchezze e condizioni agiate siano spesso sinonimo di benessere (fisico
ed economico) e purezza morale. La condizione intermedia diventa la più felice, a maggior ragione
se essa viene messa a confronto con i due estremi: i ricchi sono troppo immersi nel piacere e dunque
come tali risultano sempre corrotti e corruttibili, viceversa i poveri sono troppo impegnati a
provvedere alla necessità della loro vita. Chi si trova nella condizione intermedia, viceversa, può
esercitare le proprie virtù sia nei confronti dei propri superiori che in quelli dei propri inferiori: nel
primo caso il virtuoso esercita pazienza, rassegnazione, operosità ed onestà, nel secondo caso
generosità, umanità ed affabilità.
Un’altra grande virtù che ricorre tra gli eguali è quella dell’AMICIZIA. Anche qui il virtuoso per
eccellenza è rappresentato da colui che si trova in una condizione intermedia; infatti, a differenza
del ricco che stringe amicizie solo per convenienze (quasi sempre economiche) ed il povero, che
spesso vede la propria amicizia rifiutata proprio a causa della sua umile condizione, l’uomo virtuoso
può offrire e ricambiare favori, dunque l’amicizia che egli offre ai suoi simili (individui che si
trovano nella stessa condizione) è un puro do ut des in quanto raggiunge sia saggezza che abilità. Di
nuovo Hume propone un esempio per corroborare la sua tesi: chiunque pensi che i grandi re e le
grandi regine siano esempi di virtù e saggezza sbaglia:
Soffermiamoci infatti a considerare una qualsiasi stirpe o dinastia di sovrani ai quali basta la nascita per
avere diritto alla Corona – ad esempio la dinastia inglese, che non è di certo considerata la più brillante.
Dalla conquista al sovrano attuale si sono succeduti ventotto sovrani, tralasciando quelli che sono morti
minorenni […] otto di [questi grandi sovrani] sono stati ritenuti prìncipi di grandi capacità: il Conquistatore,
Enrico II, Edoardo I, Edoardo II, Enrico V, Enrico VII, Elisabetta e l’ultimo re Guglielmo. […] in breve,
saper governare sull’umanità, richiede molta virtù e giustizia, ma certo non delle capacità eccezionali. Un
certo papa di cui ho dimenticato il nome era solito dire: ‹‹Amici miei, divertiamoci perché il mondo si
governa da solo››.
Hume qui mette in evidenza due ordini di questioni: la prima credo sia ravvisabile in un ambito
puramente matematico, mettere infatti in luce che otto sovrani su ventotto si siano distinti per
particolare virtù, significa sottolineare come la media si alta: di fatti ogni tre sovrani circa, ve n’è
uno degno di nota per particolari virtù. L’altro aspetto che credo sia importante è dato dal fatto che,
a mio avviso, già nei saggi sia presente l’idea della materia che si “autoregola” (presentata nei
Dialoghi, ove però si fa riferimento all’opera divina e nella fattispecie viene mossa una critica nei
confronti del finalismo); in questo caso specifico non è la materia ad “autogovernarsi”, bensì il
mondo. Grandi generali e politici si possono trovare in tutte le epoche e in tutti i paesi; le qualità
richieste in lavori più strettamente manuali, come ad esempio l’artigianato o la medicina, secondo
Hume, non sono seconde ed inferiori a quelle politiche, tutt’altro: è per questo che la sua tesi
iniziale si rafforza, con ciò voglio mettere in luce come Hume voglia assegnare lo stesso livello di
dignità a qualsiasi lavoro compiuto da ogni individuo, per questo il lavoro di politico o re viene
visto alla stregua degli altri impieghi. L’unico discrimine che si attua tra l’uomo comune ed il
comandante è proprio la nascita dinastica cui si accennava in precedenza, e questa dipende solo dal
caso ( o fortuna qual dir si voglia), niente più.
Discorso diverso vale per i filosofi e i letterati, in questo caso sono i portatori dell’ingegno che, a
differenza della virtù, può essere riscontrato solo in pochi casi eccezionali; in particolare qui Hume
fa accenno a Milton (che citerà anche nei Dialoghi), ma anche a Newton e Galileo come esempi di
genialità e ingegno.
Finisce così la lunga digressione di Hume che, analiticamente, ritorna alla questione iniziale:
persuadere il lettore del fatto che la vera soddisfazione si trovi nella condizione di vita intermedia;
egli conclude facendo notare come tali esempi, sostenuti da dimostrazioni forti, siano in maniera
auto-evidente potenti per affermare ciò di cui sopra, dunque:
Dovrei ora abbandonare questa digressione e dimostrare che la condizione intermedia di vita è la più
favorevole non solo per la felicità, ma anche per la virtù e la saggezza; ma poiché gli argomenti a favore di
questa conclusione mi sembrano del tutto ovvi, mi asterrò dall’insistere su di essi.
SAGGIO QUINTO – L’AMORE E IL MATRIMONIO
In questi saggi di argomento vario, Hume vuole parlare anche della condizione del matrimonio; egli sa che
tale argomento può essere “spinoso” per il gentil sesso, poichè rappresenta uno status che ogni ragazza di
qualsiasi età cerca di raggiungere. Hume inoltre specifica che pe rlungo tempo aveva pensato di scriver eun
panegirico sul matrimonio, ma poi avrebbe dovuto accompagnarlo da una satira a fronte per permettere una
lettura più completa, perchè “si ritiene che la satira in molti casi contenga più verità dei panegirici” (SR,
555). Dal momento però che Hume può dire solo come viene visto il matrimonio da un uomo, decide di farsi
portatore di lamentele e critiche che spesso il suo sesso rivolge alle donne sposate.
Sicuramente, egli dice, la prima lamentela di qualsiasi uomo nei confronti della moglie riguarda l'innatezza
al comando di quest'ultima che fa sì che si creino molte dispute nell'ambiente casalingo e familiare; Hume
rintraccia una predizposizione particolare delle donne verso ciò in quanto esse, inconsciamente (si perdoni
l'uso anacronistico del termine) si sentono la parte debole -o quantomeno quella più vulnerabile- all'interno
di un rapporto amoroso. Proprio a questo proprosito egli propone l'esempio delle donne scite che, proprio a
causa della loro realtà di completo asservimento nei confronti degli uomini del loro villaggio, un giorno
decidono di ribellarsi, diventando così assetate di dominio e potere. Vale la pena citare per intero la vicenda:
Si narra che una volta tutte le donne scite cospirarono contro gli uomini, e mantennero il segreto tanto bene
che portarono a termine il loro piano prima che essi potessero averne sentore. Esse sorpresero gli uomini
ubriachi o addormentati; li legarono saldamente in catene e, convocata una solenne adunanza di tutte le
donne, discussero sulle misure da adottare per migliorare la loro condizione attuale ed evitare di cadere
nuovamente in schiavitù. Nessuno nell'assemblea fu favorevole a uccidere tutti gli uomini, malgrado le
offese precedentemente subìte, ed in seguito esse si sarebebro fatte vanto della loro indulgenza.
Concordarono perciò di strappare gli occhi di tutti i maschi e di rinunciare quindi per il futuro alla vanità per
la loro bellezza al fine di garantire la loro autorità. Esse pensarono che, non dovendo più dedicarsi agli abiti e
all'apparenza, si sarebebro liberate dalla schiavitù...
Hume dunque cerca di rintracciare le origini di tale ribellione e, inaspettatamente, sfoggia un mea
culpa applicabile al genere maschile; egli infatti sostiene che la colpa (se così si può chiamare)
derivante da questo desiderio sfrenato di dominio sia da rintracciare nell'atteggiamento stesso che
hanno gli uomini nei confronti del gentil sesso, perchè, come Hume fa notare "i tiranni producono i
ribelli" (SR, 557), dunque non sono altro che anni di soprusi e poca considerazione nei confronti
delle donne a creare situazioni simili (seppur quello che viene presentato è solo l'esempio estremo
di tale circostanza).
Ciò che Hume auspica è una sostanziale uguaglianza di base tra i due generi, ossia l'idea secondo
cui non vi sia pretesa alcuna di autorità nè dall'una, nè d