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Don Giovanni si rivela, pertanto, un seduttore sui generis, ovvero un’energia desiderante che si lascia sedurre dalle stesse
donne che seduce. Nella sua inesauribile espansione, la forza desiderante che è Don Giovanni si riversa in ogni donna che
incontra senza tuttavia trovare in nessuna di loro qualcosa che possa vincolarla e contenerla.
Kierkegaard conclude che la figura di Don Giovanni è una natura essenzialmente musicale, trovando nell’omonima opera di
Mozart la sua più perfetta espressione. Pura potenza del desiderio che tutto si riversa senza trovare nulla su cui soffermarsi,
Don Giovanni non ha una forma definita che possa trovare una sua determinazione spazio-temporale fissabile in un’immagine
scultorea o pittorica dai contorni precisi. Tanto meno nella sua immediatezza può trovare nella parola una sua adeguata
espressione.
La parola libera l’uomo dall’immediatezza che invece secondo Kierkegaard costituisce l’essenza stessa della musica. In
quest’ultima il suono non rimanda a nulla se non a se stesso, facendo consistere il proprio valore nella capacità di suscitare un
godimento immediato nell’istante stesso in cui presenta e si offre.
In tal senso Kierkegaard, pur abbracciando la tesi romantica della musica come arte caratteristica dell’era cristiana, la
trasforma in arte demoniaca e diabolica: ben lungi dall’essere deviazione dello spirito a Dio, essa è connessa con la sfera del
peccato e del proibito.
Se tale è Don Giovanni in quanto creatura musicale, cioè portavoce dell’immediatezza sensuale sgravata dal peso del ricorda,
della riflessione e della progettualità, diversa è la natura di Johannes, protagonista di un altro scritto contenuto in Aut-Aut:
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Diario di un seduttore. Scopo di Johannes non è l’appagamento di una sensualità mai doma, ma il desiderio, intellettuale e
cerebrale, di rendere la relazione “interessante”.
La seduzione di Johannes è pertanto, una seduzione mediata: egli ha bisogno di “tempo” per predisporre i suoi piani, anzi, egli
fa del tempo stesso uno strumento di seduzione. Dosando abilmente e premeditatamente momenti di assoluta freddezza a
slanci di appassionato entusiasmo, egli mantiene la relazione nella dimensione del “flirt”, della delectio amorosa.
Il suo desiderio, proprio perché si appaga della sola idea senza mai tradursi in realtà, rimane indefinitivamente aperto.
Le contraddizione della vita estetica
L’esteta non può tuttavia nascondere a se stesso l’inconsistenza della propria vita che, frantumandosi in una molteplicità
insensata di desideri che si accendono e si spengono di momento in momento, si dissipa in infinite possibilità senza mai
abbracciarne veramente una. E infatti egli è condannato a involgersi in contraddizioni che rendono la sua vita un’”impossibilità
di vita”. Maestro della differenza capace di cogliere le più impercettibili sfumature nell’apparente banalità delle cose, l’esteta è
paradossalmente destinato a precipitare nell’indifferenza più totale. Se tutto può essere oggetto di esperienze appaganti
capaci di procurare quanto di meglio si possa desiderare, allora tutto finisce paradossalmente col diventare uguale, dal
momento che non c’è nulla che possa fare la differenza tra una cosa e l’altra. Lo rivela la vita di Don Giovanni e di Johannes,
per i quali le donne, agognate non per se stesse ma come semplice occasione del proprio desiderio (non importa se sensuale o
cerebrale), risultano annichilite nella loro specificità e nel loro intrinseco valore, rivelando così che tutte le donne sono uguali.
Da maestro della diffidenza l’esteta è destinato a cadere in uno stato d’animo di indifferenza totale nei confronti del mondo
che lo circonda.
L’esteta risulta prigioniero di una contraddizione paralizzante. Ovunque si giri, è destinato a incontrare il nulla in cui si risolve
la sua esistenza. Questo il rimprovero che l’uomo etico muove all’esteta: “Tu non aspiri a nulla, non desideri nulla. L’unica cosa
che potresti desiderare è una bacchetta magica che ti potesse dare tutto, e poi la useresti per pulirti la pipa”.
Il risultato di tutto ciò è la disperazione che, considera come la forma a priori della vita estetica, trova la sua contraddizione
essenziale nel fatto di “scegliere di non scegliere”.
La vita del malinconico è dunque un’esistenza all’insegna della noia, dalla quale cerca di uscire surrogando l’indifferenza con
eccitazione sempre più forti che di fatto rivelano una sensibilità malata, affetta da una vera e propria “isteria dello spirito”,
cioè dall’impossibilità di dare sfogo a questa sovraeccitazione dello spirito. Consapevole di questa interna contraddizione,
l’esteta ha due possibilità: o fare del vuoto e del nulla la sostanza stessa della propria esistenza, surrogando la disperazione
nella malinconia oppure vivere fino in fondo la propria disperazione identificando il senso dell’esistenza stessa con la propria
autodistruzione. In questo caso la malinconia trapasserebbe in disperatio dei, cioè nella disperazione che Dio possa mai
raccogliere in senso compiuto l’indefinito frantumarsi della sua vita. In tal modo si aprirebbe per l’esteta la via alla fede, che
rovescerebbe la vita estetica in vita religiosa. Ma questo passaggio può anche non verificarsi mai. In questo senso l’esteta può
essere definito da Kierkegaard come un uomo religioso mancato.
6.9 Nietsche: l’arte come suprema finzione e volontà di apparenza
6.9.1 Filosofia come arte e giustificazione estetica dell’esistenza
Tutta l’opera di Friedrich Nietzsche dai primi scritti filosofici e, in particolare, dalla Nascita della tragedia (1872) fino ai
Frammenti postumi legati al progetto di un’opera sulla Volontà di potenza, ruota attorno al problema dell’arte come chiave di
un nuovo modo di intendere la filosofia. Solo l’arte, in quanto finzione e, dunque, capacità di dar forma ad un mondo
apparente, può rendere sopportabile l’esistenza in un’epoca, quella del nichilismo, in cui i valori della metafisica platonico-
cristiana sono tramontati, rivelandosi fondati sul nulla. L’arte offre una “giustificazione estetica dell’esistenza”, senza dover
ricorrere alla menzogna di un mondo trascendente, come, invece, pretendono di fare la metafisica e la religione.
Quella di Nietzsche non è più una semplice filosofia dell’arte, ma un tentativo grandioso e solitario, che avrà grande influenza
sulla cultura europea del primo 900, di risolvere tutta la filosofia in un’estetica, contrapponendo l’orizzonte dell’arte a quello
della conoscenza del vero e a quello dell’agire morale.
La volontà artistica, più ancora che l’arte, ovvero la ricerca di un “grande stile”, può contrastare, per Nietzsche, la decadenza
che segna la moderna civiltà europea come erede della metafisica platonica e della religione cristiana, opponendo un
nichilismo attivo, un nichilismo della salute e della forza, al nichilismo passivo della debolezza e della malattia. 65
6.9.2 La nascita della tragedia e la polarità tra apollineo e dionisiaco
Chiamato precocemente a insegnare Filologia classica a Basilea Nietzsche ha una formazione filologica più che filosofica.
Da questo intreccio di filologia e influenze schopenhaueriane e wagneriane ha origine la prima grande opere nietzscheana, La
nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872). Qui Nietzsche rinnova radicalmente l’immagine della grecità trasmessa
dal classicismo e sostanzialmente accettata dall’estetica di Hegel. Il mondo greco non appare più come quell’epoca
dell’armonia e dell’equilibrio tra individuo e cosmo che trova espressione nell’olimpica quiete della forma artistica. Al culmine
dell’arte classica, che Hegel aveva colto nella scultura greca come affermazione della razionalità dello spirito sul caos
originario, Nietzsche oppone il contrasto di forze e impulsi primordiali che trova espressione nell’olimpica quiete della forma
artistica. Al culmine dell’arte classica, che Hegel aveva colto nella scultura greca come affermazione della razionalità dello
spirito sul caos originario, Nietzsche oppone il contrasto di forze e impulsi primordiali che trova espressione nella tragedia
antica. L’imperturbabile serenità degli dei olimpici, non è che una vittoria momentanea che i Greci oppongono a un impulso
oscuro e caotico presente in tutta la loro cultura. Questo impulso è identificato da Nietzsce come dionisiaco. Dioniso, il dio
dell’ebbrezza e dei riti orgiastici, è il più giovane e, insieme, il più antico degli dèi. Il mondo apollineo è, così, un mondo di
sogno, di pure apparenze, sotto il quale scorre, come un flusso che tutto dissolve, l’impulso ad affermare la vita nella sua
caotica contraddittorietà. È dall’inconciliabile dialettica tra questi due impulsi, l’apollineo e il dionisiaco, che per Nietzsche ha
origine la tragedia greca. Questa origine è testimoniata dalla presenza del coro, che Nietzsche fa derivare dal coro dei Satiri,
cioè da quelle processioni dionisiache in cui i partecipanti si consegnavano all’estati dello spossessamento, trasformandosi in
“finti esseri naturali”. L’impulso dionisiaco, più che la verità, vuole l’apparenza e genera un mondo d’immagini. Lo spirito
tragico va dunque inteso, per Nietzsche, nella capacità di affermare il gioco tra i due impulsi che ne stanno all’origine; nella
tragedia greca siamo di fronte a un “coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini”. Lo
spirito originario della tragedia muore per “suicidio”, con Euripide. Ma Euripide, per Nietzsche non è che una maschera di
Socrate. La fine della tragedia si ha, così, con l’avvento di una visione razionale del mondo, con l’affermarsi di un impulso alla
conoscenza che riconduce il fenomeno a un mondo più vero, quello delle idee e, in particolare, dell’idea del bene.
6.9.3 Gaia scienza e arte come volontà di apparenza
Anche nella seconda fase della filosofia nietzscheana, il cosiddetto periodo illuministico, che va da Umano, troppo umano alla
Gaia scienza, risulta decisiva l’opposizione tra una filosofia come conoscenza razionale della verità, quale è promessa da
Socrate, e una filosofia che si risolve nella volontà d’apparenza propria della creazione artistica come suprema finzione. In
questo periodo si consuma il distacco di Nietzsche dai suoi maestri: Schopenhauer e Wagner. Del primo egli critica la
concezione ancora me