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Tutti noi prima di imparare a parlare siamo capaci di vedere volti e cose, di ascoltare voci e rumori, così come siamo capaci di
impaurirci, di arrabbiarci e di gioire. Con il linguaggio, seguendo questa tesi, noi perderemmo la nostra innocenza percettiva,
quella fase dello sviluppo della nostra sensibilità e della nostra intelligenza in cui, senza saperlo, giochiamo semplicemente con
gli oggetti del mondo. La percezione è, in quest’ottica, scoperta e gioco. E l’arte, secondo una tradizione che trova la sua
origine in Schiller e la sua formulazione più radicale in Nietzsche, sarebbe un ricordare attivamente la dimensione di giocosa
innocenza percettiva, di ingenuità dell’infanzia per acquisire una sorta di seconda innocenza. Tuttavia, il mito dell’innocenza
percettiva ha un prezzo troppo alto: quello di rescindere ogni connessione tra l’esperienza estetica in senso specifico e la
dimensione estetica di ogni esperienza.
Bisogna tentare, perciò, un’altra via di soluzione del problema. È forse necessario pensare insieme i limiti del linguaggio e i
limiti dell’estetico, come limiti di due strati o dimensioni della nostra esperienza solitamente fusi.
Il circolo tra percezione e linguaggio, tra estetico e linguistico sposta il problema su un altro fronte, quello del rapporto tra
originarietà e derivatezza.
La dimensione linguistica implica quella estetica mentre non sempre può dirsi l’inverso. Una parola a una proposizione attende
di essere percepita, e molto del suo senso dipende proprio dal come viene percepita, e dal come viene detta.
Dobbiamo allora concludere che come l’ambito sensoriale è più vasto di quello percettivo, così quello dell’estetico-percettivo
nel suo complesso è più vasto di quello linguistico-concettuale: il linguaggio-mondo non coincide con il mondo così come lo
percepisco. Dal punto di vista dell’esperienza questi mondi si confondono, ma, appunto, solo perché hanno proprio
nell’esperienza la ragione della loro distinzione.
Lo strato o dimensione estetica dell’esperienza coincide, allora, con il “come”, ovvero con la qualità/modalità di relazione con
una parte del mondo.
Torniamo ora sul “far attenzione” implicato nel punto di vista estetico e nel giudizio che ne consegue. L’attenzione qui deve
essere disposta a lasciarsi attrarre da ciò che vede. È un’attenzione sulla soglia dello stupore. L’attitudine estetica, in quanto
attitudine attenzionale, si precisa nella disposizione allo stupore. Per questo l’attenzione può anche venir ridestata. Anziché
rinnovare l’antica polemica tra oggettivismo e soggettivismo, molto più fecondo appare il sostenere che si tratta di una
relazione, dell’instaurarsi di un legame libero da altri vincoli. In esso si tematizza l’estetico come strato primario
dell’esperienza: l’anteriorità dell’estetico sul concettuale, il suo fondersi, sempre pronto a disarticolarsi, con il linguistico.
1.3 d
Senza questo strato “estetico” dell’esperienza non vi sarebbe niente da conosce e riconoscere nell’atto percettivo e, al fondo,
non vi sarebbe niente da dire.
L’altro da me in questo caso non mi è estraneo o indifferente, tantomeno mi è ostile: richiama a sé l’attenzione.
Nell’esperienza implicata nel punto di vista estetico si innesca così un sottile contrappunto tra interno ed esterno.
L’esperienza estetica è sì sempre esperienza di qualcosa; tuttavia, nella misura in cui è esperienza di qualcosa in un senso
puramente estetico è anche esperienza del modo in cui solitamente faccio esperienza. Nella modalità di un risveglio
dell’attitudine attenzionale, si acutizza la dimensione dell’accorgersi propria di ogni percepire. 5
Nel giudizio estetico che ne deriva, si mostra gratitudine verso ciò che è esterno rispetto al soggetto dell’esperienza: verso la
sua alterità.
Nell’esperienza estetica, in questo impegno in prima persona che implica un diretto provare, emerge un nodo irriducibile di
ogni esteriorità: un limite critico di ogni nostro esser parte di un ambiente, del nostro essere in un mondo.
È il limite dell’esser disposti all’attenzione (dell’attitudine attenzionale), perché qualcosa possa esser accolto anche sono
esclamativamente. L’esclamazione, il tono dello stupore, si presenta qui come l’origine di ogni giudizio estetico, ciò che
determina l’apertura del punto di vista. In questo limite critico che si può esprimere solo tramite le aperture percettive del
nostro corpo, emerge la soggettività: l’irriducibile ad altro, ciò che è solo sé, ma è sé appunto in virtù di questo scambio, di
questa buona congiunzione con l’altro che si celebra percettivamente.
In quest’irriducibilità del soggetto dall’esperienza estetica, in questa insostituibilità non solo della prima persona ma della sua
singolarità corporea, sta il presupposto del punto di vista estetico come punto di vista soggettivo che non può essere confuso
né con un mero opinare né con l’impersonalità (o la sostituibilità) di un “sapere che”. Nel carattere inconfondibile si può
cogliere la genesi estetica della soggettività come limite corporeo di un linguaggio-mondo.
A partire dall’esperienza estetica, infatti, dove si tematizza l’originarietà di ogni esperire fuori dal mito di un’innocenza
percettiva o di una forma pura dell’esperienza, ci si può interrogare su cosa significa essere un soggetto. Se il carattere
dell’estetico si può riassumere nella vitalità di una relazione tematicamente percettiva con l’altro da noi, il suo limite non è
altro che il nodo della soggettività. Ma l’unico modo per cercare di analizzarlo, di comprenderlo, senza illudersi di scioglierlo,
resta proprio ciò in cui ogni esperienza estetica si annuncia, ciò di cui essa primariamente consiste e ciò su cui continua ad
insistere: la percezione.
Capitolo secondo: il nodo della percezione
2.1 Il campo dell’esperienza e la vita percettiva
2.1 a
Le singole proposizioni hanno possibilità d’essere intese e proferite perché appartengono ad un campo linguistico, ad una
sfera del linguaggio che parlante ed ascoltante condividono. Questa sfera o campo, però, non può appartenere ad una sola
persona, ad un singolo soggetto. Un linguaggio assolutamente soggettivo, privato, non sarebbe tale, non sarebbe un
linguaggio.
“Campo” è inteso qui come una regione di senso, come uno spazio dinamico a più livelli in cui i singoli accadimenti percettivi
acquistano significato.
Almeno due sensi del termine “campo” si intrecciano, dunque, nella nozione di campo dell’esperienza. Quello di un terreno
pronto ad essere arato, dotato di stratificazioni della memoria, e quello di uno spazio dinamico, dove una molteplicità di forze
interagiscono formando il campo stesso. Nel primo senso il campo non sarebbe tale senza un substrato (un humus) dal quale
qualcosa di vivente può svilupparsi. Nel secondo senso, l’immagine del campo non presuppone alcun costituente o substrato
precedente alla sua esistenza: la sua fisicità risiede nelle forze che lo definiscono.
Il campo dell’esperienza è insomma antecedente alla divisione tra le tracce degli input e output sensoral-percettivi e il loro
senso, vale a dire è antecedente all’essere le percezioni esperienza per un soggetto. Proprio per quest’anteriorità del campo
rispetto alla distinzione, per la presupposizione necessaria della sua unitarietà, il campo dell’esperienza non è solo al di là della
divisione tra soggetto e oggetto ma è anche al di qua dell’identità soggettiva: del suo confine. Quello che accade nel campo
percettivo accade anzitutto nel modo impersonale, neutro, del “Si”. Accade ad un corpo che solo in virtù di questo accadere,
successivamente, diviene il mio corpo. Lo scambio con ciò che è altro da me, quello scambio che mi trasforma, è anteriore a
“me”. Nella percezione è l’inizio: l’inizio del nostro mondo e del nostro essere soggetti appartenenti ad un mondo.
Nel momento, però, in cui si dà tale inizio, il terreno è ipso facto campo percettivo e, dunque, campo dell’esperienza. La
memoria di questa contemporaneità di campo ed evento resta nel fatto che il nostro percepire quotidiano è qualcosa di
intimamente plurale: un multiplo, una molteplicità di impressioni, quello che James chiama un “flusso”.
2.1 b
Campo ed evento percettivo, nel loro complicarsi, nel loro co-originarsi, si inscrivono in un corpo vivente. Inscrivendosi in esso,
lo segnano, lo tracciano. Ma lo segnano e lo tracciano solo perché l’evento multiplo del percepire è relazione con altro, traccia
di un’alterità oscura alla quale ognuno inizialmente appartiene. 6
Prima che spettatori, in questo dramma dell’alterità dell’ambiente che ci avvolge, noi siamo attori. Attori certamente dotati di
un punto di vista. Ma il nostro campo visivo è quello dell’esperienza, da esso noi non siamo mai fuori.
La semplice conseguenza di tutto ciò è che possiamo riflettere la nostra esperienza soltanto dentro di essa, al suo interno, e vi
stiamo dentro solo in virtù della vita percettiva che ci contraddistingue e nello stesso tempo ci accomuna a molti altri esseri
viventi.
La percezione è anzitutto l’unità di stimolo sensoriale e risposta, di input e output. Troppo spesso, però, si modella ogni nostra
riflessone sulla nostra vita percettiva sul canone di quella visiva. Eppure in certe fasi e momenti della nostra esistenza non è
questa la modalità dominante del percepire, e comunque non resta quella esclusiva. Ovviamente c’è un motivo che giustifica
questo nostro privilegiare la visione. Nell’atto visivo è chiara l’unità tra relazione e distanza.
La vista, ripetono sovente Platone e Aristotele, è il più nobile ed eccellente tra tutti i nostri sensi, il più simile a
quell’intelligenza che può affermarsi solo nella distanza da ogni senso determinato, senza però poter mai negare il vincolo con
ognuno di essi e con il sentire generico.
2.1 c
In una riflessione sulle modalità percettive all’origine di ogni esperienza, dunque, non possiamo assumere il primato
dell’osservativo e, con esso, il primato di un atteggiamento epistemico. Significherebbe trascurare che la dimensione estetica
dell’esperienza precede sempre la specializza