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Il cinema porta a compimento il processo avviato dalla fotografia aggiungendo alle immagini il loro
movimento e la loro durata. Ciò che viene mostrato non è una semplice riproduzione, ma una “impronta
digitale” della realtà. Bazin con “montaggio proibito” intende la necessità di mantenere l’unità spaziale
dell’avvenimento per evitare di trasformare la realtà “nella sua semplice rappresentazione immaginaria”,
come per esempio fa già la pittura. Bazin infatti apprezza i film del neorealismo italiano. Anche in questi film
però c’è estetica, come per esempio l’aderenza alla contemporaneità con riferimenti alla Resistenza e alla
Liberazione. L’attore non è più un divo, ma viene scelto per conformità fisica e spesso anche biologica… si
vuole ottenere una impressione di verità che ha come nucleo alcune “condizioni morali”, come l’adesione
“morale” di tutti gli interpreti alla sceneggiatura. I film sovietici degli anni venti celano una “scienza estetica”,
sono cioè più naturalistici che realistici (come La corazzata Potëmkin). La tecnica è potenza primaria del
cinema e è possibile scegliere se usarla a spese del realismo oppure al servizio del realismo (e ciò
comporta sempre il paradosso insito in ogni realismo, perché si crea non il reale, ma l’illusione di reale).
3.2 - Alleati e biciclette
•• Esempio straordinario della poetica della realtà è Paisà (1946) di Rossellini che ripercorre la liberazione
da sud a nord dell’Italia dal nazifascismo attraverso sei episodi distinti ma legati. Il primo è in Sicilia allo
sbarco degli anglo-americani (10 luglio 1943). Rossellini racconta anche alcuni episodi marginali rispetto a
quelli dell’avanzata degli alleati, e ciò per descrivere la realtà “autentica”. Bazin cataloga tutti i film in base
al loro realismo attraverso questo film, il più realista. Parte importante nella costruzione di questo stile è
data dall’improvvisazione, che si può paragonare allo schizzo nel disegno, una specie di “tratto
cinematografico”. Allo spettatore è lasciato il compito di colmare le lacune del racconto attraverso una
visione necessariamente attenta. Le scene sono in successione e non si avvicendano come i pezzi di un
puzzle ma devono essere connessi dallo spettatore come attraversando un fiume “saltando di pietra in
pietra”. “I fatti sono i fatti, la nostra immaginazione li utilizza, ma questi non hanno la funzione di servirla a
priori”. Paisà è un capolavoro perché predomina la realtà sullo spettacolo, il fatto sull’inquadratura. In più, la
successione delle immagini-fatto non avviene più secondo un nesso di causa-effetto, ma in modo
frammentario e lacunoso. Bazin commenta anche Ladri di biciclette (1948) di De Sica, spesso posto come
modello ideale del neorealismo. La storia si basa su una trama sottile: un operaio cerca la bicicletta che gli
è stata rubata e che gli è assolutamente necessaria per lavorare. Disoccupazione e povertà urbana sono
infatti elementi tipici dei film del neorealismo. In questo film non ci sono attori professionisti. Il film vuole
cogliere il “durante”, il presente che nasce nell’attimo stesso in cui lo si fotografa. Ladri di biciclette si
svolge sul “piano dell’accidentale puro”, è ricco di elementi casuali, incontri marginali o piccoli eventi. Ladri
di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente attori, niente messa in scena, niente più cinema.
O meglio, c’è l’illusione dell’assenza del cinema, l’impressione di realtà, risultati di una ricerca comunque
necessariamente estetica. Un film di propaganda cercherebbe di dimostrasti che l’operaio non può ritrovare
la sua bicicletta; De Sica si limita a mostrarci che l’operaio può non ritrovare la sua bicicletta.
3.3 - Il paradosso del pedinamento
•• Zavattini è stato sempre combattuto tra il desiderio di sperimentazione e l’adeguamento alle richieste
dell’industria cinematografica. È impossibile sistematizzare un pensiero tanto eterogeneo e sfuggente agli
schemi come il suo. Zavattini ha sempre cercato di far coincidere lo spettacolo con la realtà, eliminando il
confine tra arte ed esistenza. Le cose non sono raccontate “sul piano dell’intreccio”, ma su quello
“dell’esistenza”. Eliminare i confini tra arte e vita significa disciogliere l’arte, in cui tutti possono realizzare le
proprie potenzialità espressive senza rientrare in alcun ruolo: voler dare a tutti un senso di uguaglianza non
è mortificazione, ma esaltazione. Non c’è un “ma”… non c’è “Paolo soffre, ma la mia sofferenza è…”, c’è
invece “quest’uomo sta pentendo quello che patirei io in quella circostanza”. Il fulcro della riflessione di
Zavattini è il legame cinema-realtà, arte-vita, in cui importantissimi sono i fatti e l’attualità. I fatti qualsiasi,
ordinari devono essere non solo ripresi, ma si deve sostare su questi per coglierne la densità e la
ricchezza. Si deve mostrare un evento non come momento di passaggio, ma rappresentarlo per se stesso.
Il cinema deve rifiutare la spettacolarità e l’esigenza di un intreccio per arrivare a mostrare il fluire
dell’esistenza, creando la realtà nel momento dell’atto cinematografico. Il cinema non è registrazione o
riproduzione, non deve ripetere una storia già pensata, ma crearla strada facendo. La macchina non deve
fotografare quello che abbiamo pensato, ma quello che stiamo pensiero nell’atto stesso in cui vediamo. In
sintesi, il cinema viene inteso come pensiero in atto, infatti la macchina da presa non interviene “a
posteriori”, nel momento in cui la storia è già compiuta. Non c’è solo il guardare, ma anche il “camminare
guardando” e il “guardare camminando”. Il cinema è l’arte del “durante”, lo specchio che mostra il reale
nella sua immediatezza, mentre la letteratura è l’arte del “dopo”, che evoca un passato in cui la vita è già
spenta. IL cinema tende instancabilmente verso il reale e lo pedina nel suo svolgersi.
3.4 - Ancora in Italia, tra arte e realtà
•• Barbaro invece non crede nel contatto immediato del cinema con la vita reale. Barbaro dice che la realtà
tutti l’hanno sotto gli occhi e sono essi stessi realtà, quindi invece di andare al cinema potremmo starcene
tranquillamente alla finestra. Con l’arte si vuole esprimere un insegnamento che ogni artista desidera
comunicare al suo pubblico. L’opera d’arte è una visione del mondo in cui si fondono contenuto e forma.
Nel suo libro “Film: soggetto e sceneggiatura” (1939) è evidente l’influenza di Croce circa il concetto di
unità dell’arte. la macchina da presa non ha una sua autonomia espressiva (come pensa Vertov) ma sono
strumenti nelle mani dell’artista che li subordina alla propria “volontà creatrice”. Barbaro descrive l’opera
come risultato di una collaborazione tra pi personalità: l’attore cinematografico, a differenza dell’interprete
teatrale, è incluso nella realizzazione del film. Perché il film sia opera d’arte è necessaria un’originaria
attenzione alla realtà che però deve essere sempre trasfigurata attraverso le personalità in gioco
nell’opera. L’arte, però, secondo Barbaro, è più “immaginazione raziocinante” che “fantasia senza freno”.
Dello stesso parere è Chiarini, che inserisce il cinema nel novero delle arti e lo definisce realistico per la
sua vicinanza alla fotografia. Brandi invece esclude che il cinema sia un’arte e lo vede come un “surrogato
meccanico” dell’occhio. Chiarini smonta questa idea insistendo sul film come complesso di immagini e
suoni uniti dal montaggio, che svincola dal tempo e dallo spazio reali. Il cinema è, secondo Chiarini, una
“elaborazione creativa della realtà”. Nel libro “Estetica”, Lukács individua come caratteristica principale del
mezzo la capacità di produrre un doppio rispecchiamento del reale. Aristarco dice che il cinema è in grado
di mostrare “la realtà seconda” nascosta allo sguardo naturale dietro la banalità quotidiana, capacità che
può realizzarsi solo nell’elaborazione artistica. Si sente la necessità del rispecchiamento e di raccontare la
società. Della Volpe in “il verosimile filmico e altri scritti di estetica” (1954) vede nel cinema un
potenziamento della realtà. Nel film non è importante la fedeltà e l’esattezza della riproduzione, ma la sua
credibilità, la sua ragionevolezza. rivendicando una componente intellettuale dell’immagine contro l’idea di
Croce dell’arte come intuizione pura. Arnheim in “Film al Kunst” (1932) si è espresso contro il film sonoro a
favore di una concezione del cinema come arte essenzialmente visiva. Arnheim confuta l’accusa secondo
cui fotografia e cinema sarebbero soltanto riproduzioni meccaniche e non avrebbero quindi alcun legame
con l’arte. Il cinema è diverso dalla realtà perché nel film i solidi sono proiettati su una superficie piana e
nella realtà i cambiamenti di prospettiva di un oggetto che si estende in profondità sono compensati
inconsciamente, mentre nel cinema ciò non avviene (la superficie rettangolare di un tavolo diventa
trapezoidale se uno dei suoi bordi è in primo piano). Altra differenza è ovviamente l’assenza di colore, unità
alle regole di illuminazione che il fotografo deve rispettare se vuole rendere riconoscibile un oggetto. Altra
differenza: il campo visivo della realtà è potenzialmente infinito, mentre nell’immagine cinematografica i
limiti dello schermo si fanno sentire. Ancora, nel cinema c’è la possibilità di ingrandimento dei dettagli. Nella
vita il tempo è un flusso ininterrotto; nel film manca la continuità, sia spaziale sia temporale. Il film si
percepisce solo con la vista, mentre la realtà con tutti i sensi. Ciò impedisce un realismo completo.
Secondo Aristarco, sono “proprio le apparenti manchevolezze del cinema che gli consentono possibilità
creative. Queste manchevolezze si identificano con i mezzi artistici della macchina da presa e del film”.
3.5 - Tecnica e modernità
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