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INTRODUZIONE

Gli scritti di Ricciotto Canudo sono un esempio di necessità impellente di trovare al cinema una

collocazione all’interno del sistema delle arti per annunciarne la sua artisticità. Il cinema è stato

descritto come essere pensante, in grado di osservare il mondo con uno sguardo rivoluzionario,

grazie alle potenzialità analitiche della macchina da presa, infinitamente superiori a quelle

dell’essere umano (Jean Epstein); come mezzo che provoca nello spettatore un’inevitabile

sollecitazione del pensiero (Ejzenstejn); una macchina per pensare analoga allo spirito umano

(Edgar Morin); come esperienza innegabilmente simile alla vita psichica dell’uomo (Metz). Gilles

Deleuze a metà degli anni Ottanta descrive la relazione tra cinema e pensiero con due volumi

Immagine-movimento e Immagine-tempo. Il cinema e la filosofia vengono descritti come due

attività analoghe, animate dagli stessi intenti creativi: il cinema è creazione di immagini e di segni,

la filosofia invenzione di concetti. L’incrocio tra i due avviene quando ci si accorge che i due

devono risolvere con i propri strumenti lo stesso problema: ciò che emerge nel cinema è la sua

attitudine a rivelare la vita del pensiero, producendo visivamente nuovi concetti.

E’ evidente nel cinema il doppio regime di rappresentazione delle immagini cinematografiche: da

una parte la visibilità, i corpi, i volti, i gesti, gli spazi, resi percepibili in modo nuovo grazie all’occhio

penetrante e automatico della macchina da presa; dall’altra la narrazione, le azioni, le storie, le

concatenazioni di eventi; da una parte l’esaltazione del primo piano, della fisionomia, della

fotogenia; dall’altra il montaggio di pensiero sovietico. I due elementi, quello del visibile e quello del

racconto, non possono disgiungersi totalmente, essendo entrambi costituitivi del fenomeno

cinematografico.

Picciotto Canudo definisce il cinema come settima arte, evidenziandone il suo essere

cronologicamente successiva. La consapevolezza della novità si traduce nel rilievo dei rischi insiti

nel mezzo: il poeta Maksim Gor’kij ne parla come un’invenzione che logora i nervi, che produce

nello spettatore un senso di dipendenza. Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio Operatore

stigmatizzerà l’innovazione tecnica come un nemico che divora la nostra anima e la nostra vita,

rendendoci servi del meccanismo. Non tardano però a essere messe in luce anche le potenzialità

positive del dispositivo e la sua capacità di osservare il mondo con un occhio più lucido, acuto e

penetrante, di scoprire nuovi dettagli e sovvertire la realtà osservata.

La folla, la massa della società moderna, costituisce anch’essa un motivo ricorrente nel rapporto

cinema-modernità: sarà non soltanto il soggetto della nuova fruizione, ma al tempo stesso l’oggetto

della rappresentazione cinematografica.

Il cinema non è solo arte, ma anche medium, in un’epoca sempre più mediatica: è uno strumento

di comunicazione con una facoltà di rappresentazione, un’accessibilità da parte della società e una

capacità di sfruttamento della macchina tecnica e industriale.

Con il nuovo secolo e il digitale è cambiato il modo produttivo dell’immagine, non più costituita

secondo un procedimento analogico, come indice di un reale effettivamente esistente, ma sulla

base di un algoritmo a partire dal quale essa viene creata, senza la necessità di una realtà effettiva

che la preceda. I nuovi modi della visione sembrano portare con sé la necessità di catturare

l’attenzione in modo più rapido e di intensificare le sollecitazioni e gli stimoli. L’inquadratura del

cinema digitale non si caratterizza più come una porzione di spazio ritagliata dalla macchina da

presa, quanto come il riempimento di un quadro che annulla anche la nozione di fuori campo.

1) Nascita di una nuova arte: Ricciotto Canudo

Nato in Italia ma trasferitosi in Francia (1877-1923). Per primo aveva considerato il cinema un’arte.

Canudo viene ricordato per il suo discorso, che esalta la modernità, sulla natura artistica del

cinema e del suo posto che occupa all’interno di un tradizionale sistema delle arti. Il cinema viene

definito «arte plastica in movimento» perché in grado di realizzare una combinazione tra ritmi dello

spazio (arti plastiche) e del tempo (musica e poesia) creando nuove e più intense emozioni. La

modernità del fenomeno cinematografico si manifesta secondo Canudo in un aspetto simbolico e

un aspetto reale. Da un punto di vista simbolico, la velocità della rappresentazione, la rapidità dei

movimenti e dei gesti e una precisione mai raggiunta prima evidenziano la modernità del mezzo.

Anche la distruzione delle distanze è un’elemento simbolico che caratterizza la modernità del

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cinema: la possibilità di conoscere e vedere paesi lontani, uomini e abitudini differenti. L’aspetto

reale del cinematografo riguarda invece la sua capacità di raffigurare l’umanità, la sua psicologia e

le sue azioni, la vita umana nella sua interezza.

2) Essenza del cinema e fotogenia: Jean Epstein

Regista e teorico (1897-1953), uno degli esponenti più rappresentativi dell’Impressionismo

francese degli anni Venti. Il suo capolavoro è il film del 1928 La chute de la maison Usher (La

caduta della casa Usher), tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, in cui attraverso la tecnica del

ralenti vengono create atmosfere oniriche ed inquietanti. Uno dei nodi affrontati infatti nel suo

discorso teorico (nello scritto Bonjour cinéma, 1921) è la possibilità di variazione temporale propria

del cinema, attraverso ralenti e accelerazione. Altri scritti: L’intelligenza di una macchina (1946), Il

cinema del diavolo (1947). In questi testi la macchina da presa viene concepita come una sorta di

essere pensante le cui straordinarie capacità analitiche permettono una nuova e rivoluzionaria

visione del mondo, che sovverte la razionalità del pensiero tradizionale registrando nell’indifferenza

dell’obiettivo ciò che l’occhio umano non può vedere. Il punto di partenza del saggio Bonjour

cinéma è l’esaltazione del carattere di novità del cinema, per la cui comprensione secondo Epstein

è necessario pensare con parole nuove. L’essenziale del cinema non è l’azione drammatica, la

storia raccontata, quanto le proprietà visive delle immagini, la loro «fotogenia». Questo termine

ripreso dalla riflessione del teorico e regista Louis Delluc (1890-1924), designa quel particolare

aspetto dell’oggetto fotografato che può essere rivelato soltanto dall’obiettivo, e che rende l’oggetto

stesso carico di significato. La macchina da presa è in gradi di accrescere sensorialmente la realtà

rappresentata. Se l’obiettivo coglie aspetti impercettibili per l’occhio umano, lo spettatore vede nel

film quello che il cinema ha già visto, con uno sguardo elevato al quadrato. La fotogenia è un

valore che si misura in secondi, si tratta di una scintilla.

Per questo motivo secondo Epstein il cinema è psichico, soprannaturale: mostrando la

quintessenza degli oggetti, scegliendo, astraendo e poi trasformando, è in grado di mettere in

evidenza l’autentico ritmo del reale. Il primo piano viene definito da Epstein l’anima del cinema,

un’inquadratura che rende possibile l’apparire della fotogenia pura, attraverso le espressioni del

volto, l’oscillare delle teste, le esitazioni. Il primo piano, grazie all’impressione di vicinanza, rafforza

il dramma, crea intimità, guida l’attenzione e costringe lo spettatore ad una visione emozionata. Il

primo piano è il dramma in presa diretta, rafforza già solo per le dimensioni (volto ingigantito dieci

volte sarà dieci volte più toccante). Il primo piano modifica il dramma grazie all’impressione di

prossimità: il dolore è a portata di mano. Il primo piano limita e dirige l’attenzione.

Idea del primato della visione nel cinema si concretizza negli effetti prodotti sugli spettatori, colti da

una scarica di energia nervosa, come ipnotizzati dallo schermo e insensibili a tutto il resto. L’autore

afferma quindi il misticismo del cinema, arte spiritica che registra il pensiero attraverso i corpi,

amplifica le idee e le emozioni, nomina visivamente le cose costringendo lo spettatore a credere

nella loro esistenza.

3) Cineocchio e rivoluzione: Dziga Vertov

1896-1954. La sua attività registica, iniziata a partire dagli anni Dieci a Mosca, si fonda su una

concezione teorica del cinema fortemente politica, aderente ai principi rivoluzionari dell’Unione

Sovietica. Alla base del suo pensiero vi è la convinzione di dover costituire una radicale alternativa

rispetto alle realizzazioni cinematografiche precedenti, che si caratterizzavano essenzialmente

come film di finzione. L’autonomia del nuovo cinema non recitato, in opposizione al cinema recitao,

avrebbe dovuto prodursi portando alle estreme conseguenze le capacità della macchina da presa,

definita da Vertov un «cineocchio» in grado di mostrare l’invisibile, ovvero tutto ciò che l’occhio

umano da solo non può vedere. Sente fortemente l’esigenza di una cinematizzazione delle masse,

di fornire cioè un’educazione cinematografica agli operai e contadini dell’URSS. Tutto questo non

significa una passiva riproduttività o un generico documentarismo, ma si tratta piuttosto

dell’aspirazione a restituire la realtà nella sua completezza attraverso un principio costruttivo, una

riorganizzazione nella quale il processo di montaggio acquisisce un’importanza fondamentale.

Vertov sottolinea la rilevanza dell’intervallo, dello scarto tra due immagini in relazione come

principio compositivo di un film. L’idea di montaggio di Vertov come organizzazione del mondo

visibile è molto lontana da una concezione che ne evidenzia le finalità narrative, al centro invece

delle teorie di autori sovietici come Pudovkin e Kulesov. Nel 1924, la realizzazione insieme al

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gruppo dei Kinoki (i Cineocchi) di La vita colta sul fatto metteva in pratica questi principi. La realtà

della Russia del tempo veniva mostrata in una sorta di ripresa infinita dei luoghi, degli uomini, dei

volti, ripresa che già si offriva come interpretazione e ricostruzione della cinepresa, resa presente e

tangibile attraverso la visibilità di alcuni effetti (uso di mascherini, inversione delle scene). Vertov

realizzò poi L’uomo con la macchina da presa, nel 1929, film muto ricco di effetti e privo di

didascalie. Il testo I kinoki. Un ri

Dettagli
A.A. 2016-2017
6 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher martina.vigliotti di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia ed estetica del cinema e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM) o del prof Farinotti Luisella.