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Durante la visione di un film infatti sembra a volte di poter assistere alla lotta tra un racconto e le immagini
che superano l’azione drammatica e si impongono al racconto stesso, “venendo fuori dallo schermo”:
organizzare (e comprimere) il visibile in una forma narrativa ci riporta al tema dell’imitazione e della
verosimiglianza. Con la fotografia e con il cinema, lo slancio di riproduzione del reale è un bisogno
psicologico ed è appagato grazie alla tecnica e alle capacità meccaniche della macchina: inquadrare un
oggetto significa dire in qualche modo che esiste. C’è infatti un intimo rapporto tra cinema e realtà.
Secondo Pasolini il cinema è “la lingua scritta della realtà”. L’immagine è il “doppio” cinematografico della
realtà, ma è “falso all’ennesima potenza” per dirla come Deleuze influenzato dalla critica nietzscheana. Il
concetto unisce i versanti del regime rappresentativo cinematografico, il visibile e il narrativo. Nel cinema si
uniscono le immagini visive (che da sole non significano) con la logica discorsiva che dà alle immagini una
forma significante: il processo narrativo suggerisce il rapporto tra la vita e la forma, tra il reale e la sua
riproduzione. Secondo Rancière, il cinema è una “favola contrastata”, in cui l’elemento visibile si manifesta
cinematograficamente solo lottando con il racconto ed emergendo da questo. Se il cinema appartiene
all’arte, allora la vista e l’azione devono essere in opposizione, ma soprattutto complementari.
0.3 - La modernità e il Novecento
•• Si è cercato di collocare il cinema in un già consolidato orizzonte delle arti. Secondo Canudo il cinema è
infatti la “settima arte”, che è “successiva”, “altra” rispetto alle arti precedenti. Il cinema tende a essere
specchio del proprio tempo. Come in ogni “novità rivoluzionaria”, anche la novità del cinema è stata vista
soprattutto per i suoi rischi piuttosto che per le sue qualità (come le lenti e gli attrezzi tecnologici sino all’età
di Galilei o come internet e i mezzi tecnologici odierni per alcuni, e-reader in primis). Giudizi negativi sono
stati dati da Gor’kij (“invenzione che logora i nervi” e crea dipendenza e addormenta la sensibilità dello
spettatore) e da Pirandello (“nemico che divora l’anima e la vita” rendendoci “servi del meccanismo”; un
“mostro, che doveva rimanere strumento ed è diventato padrone”). Tra i giudizi positivi, è stata riconosciuta
la capacità analitica del cinema in grado di osservare il mondo con occhio più acuto e penetrante.
Benjamin rivoluzione l’approccio all’arte e alla definizione dell’arte stessa, che cambia nel tempo e con il
tempo, ed è un potente strumento interpretativo della realtà contemporanea. Rientra dunque nella
“rivoluzione” dell’arte anche il cinema. Simmel descrive l’esperienza quotidiana dell’individuo come una
successione di “avventure”, di incontri separati non collegati in un percorso unitario, in cui l’uomo “a-storico”
vive solo nel presente e si percepisce come un soggetto discontinuo e plurale. Secondo Baudelaire lo choc
si ha proprio con il contatto con le grandi masse cittadine, infatti la “folla” della società moderna è un motivo
ricorrente del rapporto cinema-modernità, perché la folla ammira il cinema così come il cinema ammira la
folla (nel senso che molte volte la si rappresenta sullo schermo): il cinema infatti tende sempre al realismo.
La realtà che il cinema ci mostra è quella dell’epoca della modernità, nascosta ai nostri occhi prima
dell’invenzione della macchina da presa e da questa mostrata in maniera astrattiva, decontestualizzata. Da
una parte, il Novecento è visto come il “secolo della regia” (Albano), dall’altra il cinema è visto come
“l’occhio del Novecento” (Casetti). Il cinema non è solo arte (fine a se stessa), ma è anche medium,
strumento di comunicazione accessibile, che critica, mette in mostra i problemi e propone delle soluzioni,
ridefinendo il reale a cui si riferisce. In sintesi: modernità del cinema come novità, invenzione e innovazione
tecnica, con eventuali rischi, ma anche possibilità entusiasmanti (soprattutto in ambito artistico e
rappresentativo della realtà contemporanea), come raddoppiamento delle operazioni psichiche e come
riorganizzazione mediatica della realtà che ha in sé molte contraddizioni. Deleuze crede che il cinema si
distacchi dal “classico” per andare nel “moderno” quando si abbandona la forma narrativa classica per
lasciare emergere nel film “situazioni puramente ottiche e sonore”, offrendo autonomia all’immagine (in
seguito a cause sociali, economiche e politiche), abbandonando il rapporto “causa-effetto”. Bazin (è
francese, quindi: “Basèn”) confronta le due forme narrative: quella moderna neorealista pone allo
spettatore frammenti di realtà sconnessi, come saltando di pietra in pietra per attraversare un fiume (“La
dolce vita”), mentre quella classica pone i fatti che si incastrano tra loro nel corso della visione. De Gaetano
riconosce tre figure “del limite” nel cinema: il limite-forma, cioè l’inquadratura; il limite-forza, che crea un
rapporto dinamico con un’altra inquadratura con il montaggio; il limite-intervallo, che è il “tra” un’immagine e
un’altra, una frattura del pensiero. Secondo De Vincenti, il cinema è “moderno per se stesso”. Se la
commedia (che è un genere non moderno) viene resa con il cinema, è solo perché c’è stato un processo di
industrializzazione. Il vero cinema moderno restituisce il reale nella sua ambiguità, unita alla tensione
metalinguistica. Ciò ci fa avvicinare ancora di più il cinema con i meccanismi del pensiero.
0.4 - L’immagine digitale e il nuovo secolo
•• Il cinema è indubbiamente cambiato negli ultimi anni, soprattutto dall’avvento del digitale, che non
presuppone più che ci sia una realtà “vera” dietro le immagini, perché ci sono solo algoritmi in sistemi
binari. È cambiata anche la condotta dello spettatore, che non vede il film soltanto usando la sala
cinematografica e ciò comporta conseguenze sociali ed economiche, ma soprattutto estetiche e stilistiche
(si deve catturare l’attenzione in modo più rapido intensificando sollecitazioni e stimoli). L’immagine digitale
non è imitazione o rappresentazione di una realtà preesistente, né un’immagine originaria, ma la
traduzione di un processo matematico, che è causa di se stessa: possiamo quindi dire che tutto si presenta
come falso a priori. Con l’avvento del digitale, l’inquadratura non è più una porzione di spazio ritagliata
dalla macchina da presa, ma è come il riempimento di un quadro, come “pittura in movimento”. Non si
riesce più a stabilire il confine tra vero e falso, tra vicino e lontano. Nel cinema postmoderno si mescolano i
generi, i piani, il tempo (si abbandona il tempo lineare per avvicinarsi al tempo “labirintico”). Tarantino dice
che il cinema postmoderno vuole mostrare più che raccontare, in cui “l’immagine è l’unico senso
dell’immagine” (Bernardi). Posizione critica verso la tecnologia e la realtà virtuale è quella di Baudrillard,
secondo cui la simulazione virtuale produce un “eccesso di realtà” che uccide l’illusione, l’immaginazione e
l’arte stessa. Anche Virilio si scaglia contro il “fondamentalismo tecnoscientifico” secondo cui risulta
indesiderabile ciò che umano e si sta trasformando la realtà in “telerealtà”. Secondo Comolli (è francese),
tutto è troppo “mostrato” ed è proprio con il cinema che si può salvare “la zona d’ombra”, con il fuori campo,
l’imprevedibilità dell’azione, il vuoto intorno al quale è costruito il film e ciò che si nasconde è di più di ciò
che viene svelato. Montani crede che la tecnologia riduca la sensibilità isolando l’essere umano, ma il
cinema potrebbe mostrare il modo adatto per costruire “un’etica della forma”. Secondo Rodowick non è la
base materiale (pellicola o digitale) a terminare la pratica artistica, ma è la sua funzione sociale e le “regole
del fare” che ne sono a fondamento.
1 - Essenza del cinema e fotogenia: Jean Epstein (1897 - 1953)
•• Nei suoi scritti, Epstein vede la macchina da presa come una specie di essere pensante che permette
una nuova visione del mondo registrando nell’indifferenza dell’obiettivo ciò che l’occhio umano non vede.
Bonjour cinéma è il suo testo di esordio (1921), in cui si esalta il carattere di novità del cinema; infatti,
essenziale del cinema non è l’azione drammatica né la storia raccontata, quanto le proprietà delle
immagini, la loro “fotogenia”. La fotogenia è un “gusto delle cose” e l’obiettivo coglie aspetti impercettibili
per l’occhio umano, dunque lo spettatore vede nel film con uno sguardo “elevato al quadrato” e per questo
il cinema è “psichico”, “soprannaturale”, perché mostra la quintessenza degli oggetti. Il primo piano è
“l’anima del cinema”, “la chiave di volta”, è l’inquadratura che fa apparire la fotogenia attraverso il
movimento. Il primo piano, con l’impressione di vicinanza, rafforza il dramma e l’intimità. Esiste secondo
Epstein un misticismo del cinema, che è “arte spiritica”, perché registra il pensiero attraverso i corpi,
amplifica idee ed emozioni e costringe lo spettatore a credere nell’esistenza delle cose che vede.
•• Nello scritto Bonjour cinéma, Epstein afferma che il cinema, a differenza delle altre invenzioni (come
libro, ferrovia, auto…), non ha un antenato. Ovvero non è solo una novità, è proprio nuovo. Il cinema
inizialmente era “un ermafrodita di scienza e arte” e poi prevalse l’arte. “Il cinema è vero; una storia è una
menzogna”. “Il dramma è continuo come la vita” e la vita è puro disordine illogico; allora, a che serve
raccontare storie che presuppongono sempre eventi ordinati, una cronologia…? “Le pro