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La Germania guglielmina di Simmel non era più il paese industrialmente arretrato che aveva conosciuto

Semper. Al contrario era ormai attraversata dalla modernità e dai fenomeni a essa connessi: urbanizzazione,

diffusione della domanda di beni di consumo e forti mutamente delle classi sociali. La sua riflessione ha

avuto il merito di immettere l’interrogazione sull’oggetto in un paesaggio più ampio, coniugando la domanda

sull’estetico con una revisione dell’antropologia urbana, rendendo così la sua opera precorritrice di molte

intuizioni future. Simmel è uno dei primi pensatori a collegare l’oggetto a una dimensione nella quale

l’estetico non è ricavabile esclusivamente da dinamiche funzionali o percettive. L’esteticità dell’oggetto

industriale si dà in qualcosa che riposa unicamente nel soggetto, nell’avventore della fiera: il divertimento.

Divertendosi, l’uomo metropolitano riscatta momentaneamente la sua alienazione quotidiana. Lo spazio

della fiera diventa una città nella città, lo spazio stesso della modernità in miniatura che rifiuta innanzitutto

nella sua struttura architettonica lo stile della monumentalità proprio per assecondare tratti di transitorietà

della produzione industriale. Simmel mostra anche come i rapporti fra utile (funzionale) e bello (estetico)

cambino in seno al mercato e registra come l’appeal dell’oggetto sia di fatto una strategia di marketing.

Simmel ritornò sulla natura dell’oggetto industriale con il saggio “Il problema dello stile” (1908) uno scritto

da affiancare al più famoso “Ansa del vaso” (1911). Lo stile diveniva il principio con il quale identificare

l’oggetto dell’arte applicata essendo un “principio di generalità”. Ogni volta che l’oggetto dell’arte applicata

confonde il mezzo con il fine sconfessa il suo carattere riproducibile e in sostanza nega la sua vera identità

estetica. L’oggetto è una compenetrazione di “realtà materiale” e “forma artistica”. Simmel è alla ricerca

di un nuovo principio estetico generativo che si emancipi dai vincoli, sempre parziali, della bellezza e

dell’utilità. Fenomeno pervasivo e ineludibile della realtà industriale, la moda diventa la poetica stessa della

metropoli e il codice della produzione seriale. Il circolo che la moda configura è la temporalità della quale la

merce compie la sua parabola esistenziale.

Thorstein Veblen.

La riflessione del sociologo americano è quasi un corollario a quanto argomentato dagli autori fin qui citati.

Nella sua opera capitale “La teoria della classe agiata” (1899) possiamo infatti rinvenire un’illustrazione

decisiva dei nessi ormai definitivi tra produzione industriale e genesi del gusto sociale. Veblen tematizza il

vincolo, sempre più saldo, tra ricchezza finanziaria e gusto estetico, definendo l’oggetto come mezzo di

esibizione di status. La constatazione di fondo di Veblen è che la società borghese nella sua rincorsa alla

rispettabilità e onorabilità sociale abbia trasposto queste categorie etiche anche alla propria idea di bellezza.

E la bellezza, per la borghesia, si rende visibile in primo luogo negli oggetti; ne consegue che la bellezza di

un oggetto non dipende da criteri estetici, ma da valutazioni economiche. La secondarietà, se non l’assoluta

marginalità, del calore d’uso è espressa da Veblen in un famoso esempio nel quale un cucchiaio d’argento è

accostato a un cucchiaio prodotto industrialmente. “L’oggetto di lusso soddisfa il nostro gusto, il nostro

senso estetico, mentre quello fatto a macchina con metallo vile, non ha nessun utile ufficio tranne

una bruta utilità”. Ogni classe sociale attiva un suo consumo onorifico dell’estetico, una sua esibizione che

non è condivisa da altri ceti. La bellezza finanziaria non riflette pertanto un gusto trasversale, ma trova senso

solo all’interno di determinati gruppi sociali. Nasce una cultura profonda del rifiuto del cheap and nasty,

della diffidenza verso il prodotto a buon mercato che, seppur adatto allo scopo, viene spesso scartato

perché assunto come brutto e volgare. È indubbia la preferenza di Veblen per il prodotto industriale a basso

costo che ha al proprio centro il valore d’uso. Il lavoro a mano, più costoso e dispendioso, è per Veblen

“un’esaltazione del difettoso” che sconfessa la maggior precisione e affidabilità del prodotto industriale.

L’estetica, abbandonati i confini della produzione artigianale e l’idea di un prodotto bello ma per pochi,

incontra la nuova parola guida: progetto. L’estetica del design, diventa una quesione non più ideologica, ma

tecnica: teoria operativa.

Hermann Muthesius.

Ne “L’importanza delle arti applicate” (1907), appurato il dato storico che “l’arte industriale moderna a

insieme un’importanza artistica, culturale ed economica”, Muthesius individua nella necessità di

rinvenire una formula estetica autonoma il passo ulteriore da compiere. Ciò significa rifiutare i modelli artistici

del passato che rappresentano per l’arte applicata soltanto un rivestimento esteriore, un riferimento vuoto.

Questa istanza trovano soddisfazione nella cooperazione di tre principi formativi che delimitano la specificità

produttiva delle arti applicate: l’oggetto è conformato allo scopo, alla natura del suo materiale e alla struttura

corrispondente al materiale stesso. La fedeltà progettuale e operativa a questi tre principi rappresenta agli

occhi di Muthesius una difesa dalle minacce che la dimensione affettiva non disciplinata può produrre.

Allineandosi, come è stato notato da Maldonado, alle posizioni di Veblen, la critica allo stile del passato di

Muthesius diveniva di fatto un attacco al ceto borghese che trovava nell’esibizione dell’oggetto di lusso la

propria identità estetica e, conseguentemente, sociale. L’oggetto esibito, tradendo la sua essenza

funzionale, si tramutava in una strategia di affermazione ideologica: il gusto come pratica politica in senso

lato. Per Muthesius l’antidoto per questa epidemia di bassa estetizzazione fu quello di rinvenire nel

funzionalismo estetico dell’oggetto industriale un “compito pedagogico” capace di trasformare l’arte

applicata in “uno strumento di educazione culturale”.

Joseph Angust Lux.

Un primo sostegno alle tesi di Muthesius è leggibile in “Estetica dell’ingegneria” (1910) di Lux. La tecnica

si prospetta come l’orizzonte ontologico decisivo, se non esclusivo, della contemporaneità, un dominio che

necessita anche di una sua riformulazione estetica: gli oggetti della tecnica devono trovare un loro stile. Con

questa prospettiva Lux criticava, in linea con Muthesius, l’atteggiamento diffuso nell’Ottocento di elaborare

un’estetica ornamentale sul modello degli stili del passato. “La forma artistica deve essere inventata ex

novo sulla base di nuovi elementi. Questo è il problema che tutti siamo impegnati a risolvere”. Per

Lux l’architetto del presente e ancor più del futuro era l’ingegnere. Questo comportava che la dimensione

estetica del progetto coincideva in toto con la funzionalità tecnica dell’oggetto. Lo stile funzionale non è la

sconfessione di un gusto elaborato antropologicamente, ma l’espressione autentica di esigenze

profondamente umane. Sono pertanto le istanze pratiche della modernità a dettare lo sviluppo estetico e

formale dei prodotti tecnico-industriali.

Peter Behrens.

Se Lux rappresenta l’estremizzazione del funzionalismo estetico auspicato da Muthesius, Behrens ne

documenta la problematicità, sviluppando un complesso programma di identità e differenza, collaborazione e

autonomia reciproche, tra arte e tecnica, come reciterà il suo saggio fondamentale “Arte e tecnica (1910).

Figura cardine della storia del design, Behrens registra nella produzione industriale un’ideologia formale

sostanzialmente immatura nella quale l’estetico è frutto o di gusti anacronistici o di strategie di risparmio

economico. Ma Behrens segnala anche un altro malinteso, più sottile e pernicioso, proprio perché si

accredita come nuova soluzione estetica: l’ingegnerizzazione dell’estetico. Nell’argomentazione di Behrens

vengono a smascherarsi i due grandi fraintendimenti estetici che hanno definito la produzione industriale fino

a quel momento: se si vede nell’arte il nucleo centrale allora il prodotto tenderà a un’estetizzazione che ha

nei modelli passati i suoi riferimenti formali, se lo si ravvede nella tecnica si delineerà appunto una deriva

funzionalistica. Superare dialetticamente le unilateralità dell’architetto-artista e dell’ingengere-tecnico è la

finalità stessa della produzione industriale. Gli oggetti comuni diventano la verifica di questa esigenza

simbiotica che ha come suo esito finale la configurazione estetica di ciò che Behrens chiama “ornamento

geometrico”.

Walter Gropius.

È da questo sfondo, accennato a grandi linee, che emerge la problematica figura di Gropius con la fase più

mitizzata dell’epopea del Bauhaus (1919-1928). Per il giovane Gropius si trattava di definire uno stile

d’epoca, un accordo tra esigenze formali e nuovi contenuti pratico-tecnici. La soluzione non si discosta di

molto dalle opzioni di Muthesius e Behrens: ancora una volta il funzionalismo sembra il farmaco capace di

curare la malattia dell’anacronismo stilistico. Il moderno architetto è colui che cerca, trova ed elabora i

contenuti della materia, del tempo e dello spazio attraverso “un’esperienza interiore” e ne definisce le

forme tramite “un’esasperazione poetica”. I moderni mezzi di trasporto, per esempio, esprimono questa

capacità divenendo essi stessi simboli del movimento tecnologico. Le ondivaghe proposte di Gropius di

questi anni trovano un’ulteriore tappa, o un punto di frattura come sostengono molti studiosi, nel

“Programma del Bauhaus statale di Weimar” (1919). È un manifesto di intenti nel quale vengono a

riunificarsi disordinatamente due tradizioni: le belle arti e le arti applicate. Alla “forma organica” risponde

ora l’idea di “opera d’arte unitaria” nella quale cadono le barriere “tra l’arte monumentale e l’arte

decorativa”. Emerge con nettezza il ruolo decisivo del laboratorio, dell’officina. Il Bauhaus nega l’arte come

dimensione contemplativa e opta per un’arte del fare e ciò comporta che l’arte divenga una questione

eminentemente tecnica.

Dettagli
A.A. 2014-2015
16 pagine
36 download
SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-FIL/04 Estetica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher matteogambassi di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Estetica e semiotica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Firenze o del prof Mecacci Andrea.