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Fujiyama di Hokusai. Entrambi sono rappresentazioni, ma il problema è stabilire per quale motivo
solo nel secondo caso si può parlare di un’opera d’arte. Secondo Goodman la differenza si colloca
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nel differente grado di «saturazione» , ovvero nella differente rilevanza di certi elementi pittorici
nei due casi, mentre altri elementi diventano contingenti se si considera un caso piuttosto che
l’altro. Per Danto, invece, ciò non è sufficiente, perché la differenza a suo parare non è di tipo
percettivo e dunque non può risiedere nelle componenti pittoriche. La differenza sarebbe una
Inoltre, l’opera d’arte si distingue dal mero oggetto reale perché possiede un titolo, mentre quest’ultimo
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non ne possiede alcuno. Il titolo è fondamentale perché costituisce un’indicazione di lettura per il fruitore.
Ibidem, p. 137.
20 Ibidem, p. 145.
21 N. Goodman, I linguaggi dell'arte, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 199.
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differenza di stile: mentre il diagramma non ha alcuno stile, il disegno di Hokusai ha uno stile ben
preciso, che può essere classificato come «stile diagrammatico». Entrambi, invece, possiedono
un’aboutness, sono a proposito di qualcosa e possono avere addirittura lo stesso contenuto. Il
contenuto dunque non è rilevante per stabilire ciò che distingue un’opera da una mera
rappresentazione, tanto che si possono considerare altri esempi a favore di ciò (come il caso di
indiscernibilità tra un racconto che utilizza uno stile giornalistico e un resoconto di cronaca, posto
che entrambi abbiano lo stesso contenuto).
L’opera d’arte possiede qualità che la mera rappresentazione non possiede, e queste
proprietà artistiche sono determinate cognitivamente, come abbiamo visto. Nel momento in cui
sappiamo che una rappresentazione è artistica, essa acquisisce nuove determinazioni che diventano
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parte della caratterizzazione intrinseca dell’oggetto, modificando la sua stessa struttura . Non sono
interpretazioni diverse dello stesso oggetto, ma veri e propri oggetti ontologicamente diversi,
sebbene siano indiscernibili. Il livello percettivo non è determinante secondo Danto, tanto che egli
sostiene che percezione e conoscenza operano su due livelli separati, al tal punto che i due piani
risultano impermeabili tra loro. Poiché si possono immaginare casi in cui due oggetti sono
totalmente indiscernibili dal punto di vista percettivo, la loro differenza deve situarsi su un livello
diverso e indipendente, di tipo cognitivo.
Inoltre la rappresentazione artistica è espressiva, secondo Danto, nel senso che utilizza la
forma non artistica per affermare qualcosa nei confronti di essa, mentre al contrario la
rappresentazione non artistica non afferma nulla di se stessa. Questo mette in luce l’importanza
dell’aspetto teorico nella prospettiva di Danto: ogni opera offre una teoria dell’arte, ci mostra il
mondo così come era concepito dall’autore. Il concetto di espressione è legato a quello di
rappresentazione, nel senso che quest’ultimo è sussunto al primo: rappresentare significa esprimere,
ciò che è primitivo e originario della rappresentazione è la sua capacità espressiva, non quella
denotativa – tutto il contrario di Goodman, che riconduce l’espressione ad una relazione
referenziale, più precisamente a un’esemplificazione metaforica. Al contempo, in Danto la nozione
di espressione è legata ad altri concetti fondamentali come metafora e retorica, oltre alla nozione di
stile di cui già abbiamo accennato. La funzione metaforica consente di spostare un ente su un livello
ontologico diverso da quello originario; la funzione retorica invece permette di utilizzare una forma
Danto arriva ad affermare che «ogni nuova interpretazione costituisce un’opera nuova» (La
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trasfigurazione del banale, p. 151). Questa affermazione è a dir poco problematica e si espone al rischio di
un’inflazionismo smodato, poiché per «opera nuova» non intende «un nuovo modo di vedere la stessa
opera», ma un oggetto ontologicamente diverso dal precedente. La visione nominalista di Goodman ha il
vantaggio di evitare questo scomodo problema. Allo stesso tempo, però, Danto afferma che «qualsiasi cosa
può essere considerata un dipinto, ma il dipinto non può essere interpretato in qualsiasi modo» (Ibidem, p.
158). Ciò significa che l’interpretazione ha dei limiti, non può essere completamente arbitraria.
non artistica per scopi artistici, così come la domanda retorica ha la forma della domanda, ma non la
funzione della domanda.
Richiamo, per ultimo, i limiti che emergono riguardo la teoria dell’arte come imitazione alla
luce delle considerazioni fatte. Se si sostiene che l’opera d’arte sia una rappresentazione trasparente
della realtà, ovvero che ci mostri la realtà così come essa è, allora l’oggetto rappresentante e
l’oggetto rappresentato non soltanto sono identici, ma esemplificano gli stessi predicati. Ciò tuttavia
è assurdo, perché si è mostrato che sebbene due oggetti siano indiscernibili, essi possono
esemplificare qualità profondamente differenti. Questo avviene perché il linguaggio della
predicazione estetica è differente dal linguaggio descrittivo: il linguaggio proprio dell’arte è di tipo
valutativo, è un linguaggio dell’apprezzamente, e il suo uso descrittivo non è distinto dal suo uso
valutativo – mentre al contrario nel linguaggio comune distinguiamo i due livelli. Non si può
trattare un’opera d’arte in modo descrittivo e neutro, perché la considereremmo come una mera
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cosa; al contrario, se «qualcosa è un’opera d’arte non ci sono modi neutrali di vederla» . Inoltre, se
la rappresentazione è trasparente il medium svanisce, ma questo non può accadere, altrimenti non ci
sarebbe alcuna differenza tra arte e realtà: c’è sempre un aspetto opaco nell’arte e bisogna sapere
che un oggetto è un’opera d’arte per poterlo considerare come tale.
La prospettiva di Wollheim: rappresentazione come «vedere-in»
La posizione di Wollheim sul tema della rappresentazione è complessa e tenta di mantenere
i punti di forza delle teorie estetiche formulate da altri filosofi, tra cui Danto e Goodman, cercando
però allo stesso tempo di superarle. La nozione di rappresentazione è trattata diffusamente da
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Wollheim all’interno del suo scritto L’arte e i suoi oggetti , in cui sostiene che gli essere umani
hanno la capacità di vedere rappresentazioni e tale abilità, denominata «vedere rappresentazionale»,
sarebbe a suo avviso un caso particolare di «vedere-come», nell’accezione proposta da
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Wittgenstein : vedere x come y, dove x è il medium, la rappresentazione, e y è l’oggetto
rappresentato. Il punto fondamentale è che questa è una modalità percettiva, non cognitiva: noi
vediamo realmente la rappresentazione, non la inferiamo cognitivamente. E, allo stesso tempo, ciò
che vediamo non è qualcosa di meramente empirico, poiché vediamo di più di ciò che è meramente
dato ai sensi, come già hanno fatto notare filosofi come Gombrich, Danto e Goodman. Tuttavia,
Wollheim compie un passo ulteriore rispetto questi autori affermando che il vedere
R. Wollheim, Art and its objects, Cambridge University Press, 1980, trad. it. a cura di Giovanni Matteucci,
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L'arte e i suoi oggetti, Christian Marinotti ed., Milano 2013. p. 145.
R. Wollheim, L'arte e i suoi oggetti, Christian Marinotti ed., Milano 2013, p. 28.
25 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1953), ed. it. a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1983, pp. 254-
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298.
rappresentazionale costituisce una competenza percettiva, la quale si forma attraverso la stessa
pratica della rappresentazione. Noi non solo abbiamo la capacità di vedere rappresentazioni, ma
siamo anche stati educati a farlo.
Wollheim focalizza la sua attenzione su una nozione fondamentale ripresa da Wittgenstein,
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ovvero la nozione di «uso» e di «forma di vita» : l’arte, così come il linguaggio , è una forma di
vita nella quale siamo immersi e dalla quale non possiamo prescindere, poiché costituisce una
pratica che si innerva tra tutte le altre prassi e convenzioni umane ormai radicate e diventate
trasparenti per noi. Lo stesso vale per la rappresentazione artistica e per la rappresentazione in
generale, in cui si intrecciano intimamente tra loro aspetti concettuali e pratici. In questo modo
Wollheim cerca di superare, attraverso la nozione di uso, la dicotomia tra connotazione e
denotazione e, più in generale, la contrapposizione tra intensionalismo ed estensionalismo. «Arte» è
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un concetto operativo, non teorico, e come tale non è definibile (come già aveva mostrato Weitz ,
citando anche in questo caso Wittgenstein): una definizione di arte non è possibile, perché la pratica
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artistica è «particolare» , nel senso che non può essere descritta a parole, è intraducibile e non può
essere parafrasata, altrimenti si perderebbe la particolarità dell’esperienza stessa. L’unico modo per
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comprendere l’arte è fare direttamente l’esperienza estetica e ripeterla in prima persona . Questo
aspetto esperienziale è fondamentale, perché ci mostra come sia impossibile ridurre l’esperienza
estetica all’aspetto meramente empirico o, viceversa, cognitivo. In particolar modo, l’aspetto teorico
subentra in un secondo momento, quando la pratica è già consolidata, e in ciò si nota una prima
fondamentale differenza nei confronti di Danto, il quale considera preponderante l’aspetto cognitivo
e concettuale. Per Wollheim, invece, ciò che precede ogni apparato teorico è l’aspetto esperienziale
e percettivo, tanto che la comprensione stessa è da lui considerata come radicata in questo livello.
Torniamo ora a soffermarci sulla nozione di rappresentazione. In un saggio successivo del
1980 Wollheim riconsidera l’identificazione tra vedere rappresentazionale e vedere-come,
modificando la sua posizione e adducendo un nuovo concetto: il vedere rappresentazione non
R. Wollheim, L'arte e i suoi oggetti, Christian Marinotti ed., Milano 2013, p. 93.
27 Tuttavia per Wollheim non c’è un’identificazione tra arte e linguaggio. L’analogia può essere utile, ma i
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due campi presentano profonde diff