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Danto mira ad una posizione non istituzionalista ed essenzialista, egli vuole trovare una definizione
che coglie l’artisticità universale delle opere, a prescindere da quando sono state o saranno create.
E’ quindi contrario alle teorie di Weitz il quale sostiene che l’arte è un concetto aperto, e quelle di
Dickie che invece formulò la cosiddetta teoria istituzionale dell’arte. Riteneva che è un’opera d’arte
ciò che il Mondo dell’Arte, formato da curatori, collezionisti, critici e artisti, la decreta tale.
L’arte, oltre ad essere un significato che prende corpo, è anche un “sogno ad occhi aperti”. Platone,
nel “De Republica” accosta il sogno all’arte, dal momento che entrambe non sono reali, ma solo
apparenze. Arte moderna è affine al sogno e tutti possono giovarne.
Questo è un passo avanti che Danto compie nella sua riflessione filosofica. L’arte è accostata al
sogno ad occhi aperti per spiegarne l’universalità poiché sia l’arte che il sogno possono essere
condivisi da tutti.
Capolavoro artistico è la volta della Cappella Sistina di Michelangelo. Danto si sofferma sul
restauro terminato nel 1994 che ha scatenato non poche controversie.
Il restauro fu coordinato da Carlo Pietrangeli, Fabrizio Mancinelli e Gianluigi Colalucci, i quali
credevano che togliendo gli spessi strati scuri di colla animale, nero fumo e sporcizia avrebbero
ravvivato l’aspetto dell’intera volta e riportato alla luce l’opera com’era ai tempi di Michelangelo.
Oppositori del restauro, James Beck come capostipite, sostenevano invece che un restauro troppo
avventato avrebbe rovinato l’opera di Michelangelo e avrebbe di conseguenza portato ad una
perdita del significato primitivo dell’autore stesso, poiché un’opera è strettamente legata al
materiale di cui è fatta.
Danto fu fortemente influenzato dalle idee di James Beck. Egli ritiene che il virtuosismo cromatico
che tanto hanno elogiato i critici d’arte dopo il restauro non aveva alcuna importanza ai fini della
pittura michelangiolesca; piuttosto l’autore aveva voluto dare molto valore e significato alle figure
in sé. Nel 1500 la vivacità cromatica non era il fine della realizzazione delle opere d’arte, infatti né
Vasari né Condivi ne parlano. Al contrario le tinte quasi impercettibili erano i colori all’ultima
moda. Probabilmente gli strati di nero fumo e colla animale erano stati aggiunti successivamente da
Michelangelo stesso e dai suoi collaboratori per creare un gioco di luci e ombre come se le figure
volessero scappare dalla tela e diventare vita. Come nel caso di Giona, che sembra stia per scappare
dalle tenebre.
Le tonalità cupe descritte virtuosamente da Picasso e Cocteau possono essere valutate come patina
di sporco o come dettagli metafisici della condizione umana voluti dall’artista stesso. Il restauro del
’94, ritenuto eccessivamente radicale da Beck e dai suoi sostenitori, potrebbe aver compromesso per
sempre il significato e l’intento originale di Michelangelo.
Danto prende come esempio i Prigioni; sei sculture destinate alla tomba di Giulio II. Solamente due
furono terminate e sono conservate oggi al Louvre, le altre quattro non furono mai portate a termine
e si trovano ora a Firenze accanto al David.
Un restauratore potrebbe grattar via la patina superficiale, lasciando il marmo luminoso così come
lo videro i contemporanei di Michelangelo oppure potrebbe finire di scolpire la pietra intatta,
liberando l’intera figura secondo l’intenzione di Michelangelo. Nel primo caso non avremmo una
perdita di significato, togliendo invece il “non-finito”, perderemo per sempre un significato di
inestimabile valore.
Per restaurare un’opera bisogna essenzialmente interpretarla e non rapportarsi ad essa in maniera
oggettiva e riduzionista. Essendo l’arte un significato che prende corpo, un’opera d’arte è di
conseguenza strettamente legata al materiale con cui è stata realizzata.
La volta è composta da nove immagini. L’ordine della sequenza è: “la separazione della luce dalle
ombre”, “la creazione della Terra dalle acque”, “la creazione di Adamo”, “la creazione di Eva”,
“il peccato originale e cacciata dal paradiso terrestre”, “Sacrificio di Noé”, “Diluvio Universale”
e “Ebbrezza di Noé”. I primi tre ritraggono scene cosmologiche, governate da un principio
antropico, con l’arrivo della donna la storia comincia, per terminare con la caduta del genere
umano.
Danto dà una lettura in stampo femminista, ma non tutti i critici condividono. Molti infatti pensano
che l’avvento della donna abbia causato la caduta del genere umano.
Inoltre secondo Danto l’intera storia sottolinea l’ineluttabile debolezza dell’essere umano. Lo stesso
Noé, il prescelto, si è rivelato essere un uomo debole. In chiave neoplatonica l’uso di chiaro-scuro
serviva proprio a conferire una tonalità emotiva all’intera rappresentazione, andata per sempre
perduta a causa del recente restauro.
Nel terzo capitolo Danto analizza il corpo filosoficamente inteso e il corpo rappresentato dagli
artisti.
La nostra condizione di esseri in carne ed ossa ha avuto un ruolo cruciale nella tradizione artistica.
La religione cristiana è stata molto vicino al mondo artistico, poiché quest’ultimo poteva dare corpo
ad un concetto astratto come l’Incarnazione.
Così le opere d’arte hanno accorciato le distanze tra il mondo divino e quello umano, dal momento
che attraverso l’arte possiamo sentire il dolore, la sofferenza e l’amore senza percepire differenze
tra il nostro mondo e quello divino. Tutti iniziamo nello stesso modo, nella stessa condizione
radicalmente indifesa come tutti i neonati del mondo.
La scena del Bambin Gesù in braccio a Maria è una delle scene più comuni dell’arte occidentale.
Nella religione cristiana, il corpo riveste una centralità assoluta, dal momento che nel giorno del
Giudizio Universale risorgeremo ricongiungendoci ai nostri corpi.
La filosofia, invece, studia il corpo solo sotto un’accezione prettamente meccanicistica, dando
invece più importanza all’anima. L’anima, per i filosofi, è indipendente dal corpo.
Per Danto il corpo ha un’importanza assoluta sia nell’arte che nella filosofia. Attraverso il corpo,
infatti, possiamo provare emozioni, dolore, passioni, sofferenze… Il corpo è il soggetto dell’arte ed
è strettamente legato all’anima. Ogni essere umano e in generale ogni essere vivente prova
determinate sensazioni di fronte a qualcosa che mai nessuno potrà descrivere perché noi sappiamo
ciò che sentiamo, ma la sensazione dell’altro resta avvolta nel mistero.
Kant nella Critica della facoltà di Giudizio disse “la vita, senza il sentimento dell’organo corporeo,
sarebbe semplicemente coscienza della propria essenza, ma non sentimento del malessere o del
benessere”.
Nel quarto capitolo Danto rilegge il cammino che la fotografia ha dovuto attraversare prima di
acquisire lo status di arte e affronta la complicata relazione tra fotografia e pittura.
Nel 1839 Henry Fox Talbot e Louis Daguerre inventarono il primo dagherrotipo. Da qui si accese
un lungo confronto tra pittura e fotografia che terminò soltanto nel 1930, quando alla fotografia fu
garantito lo statuto di arte.
Nel 1859, al Salon in Francia ci fu la prima mostra di fotografie; nel 1930 la Albright- Knox Art
Gallery acquistò le fotografie di Stieglitz; nel 1940 il Museum of Modern Art aprì una sezione
dedicata alla fotografia. Il processo di riconoscimento della fotografia come forma d’arte è stato
lungo e controverso. Il filosofo Kennick nel 1958 diceva che le fotografie sono “opere d’arte di
dubbia natura”.
Ma è stata proprio la fotografia ad innescare il Modernismo.
I pittori del ‘900 usavano le fotografie come parametri di verità visiva (da non confondere con la
verità ottica!). Ad esempio Degas riprese la collezione fotografica di Muybridge “the horse in
motion”, per ritrarre il movimento dei cavalli in corsa. H.Talbot diceva che la fotografia era come
una “matita della natura”, infatti per mezzo di questa era possibile riprodurre fedelmente ciò che la
matita e il pennello non arrivano a fare.
Quindi la fotografia, a partire dalla sua invenzione fino al suo completo riconoscimento con forma
d’arte, fu usata come medium dell’arte stessa.
La fotografia, però, mostra i limiti dell’occhio umano, infatti mostra una verità visiva che non
corrisponde alla percezione stereotipata dell’occhio umano. Per questo gli artisti usavano le
fotografie come parametro di verità visiva.
Possiamo dire che ha stravolto il modo di vedere lo spazio pittorico; appiattisce le forme creando
immagini distorte.
Manet viene considerato da Greenberg il primo pittore del Modernismo. Esempio lampante è il
quadro “l’esecuzione dell’Imperatore Massimiliano”. L’artista si ispirò evidentemente a
Fucilazioni del 3 maggio 1808 di Francisco Goya, ma stravolgendo completamente il modo di
analizzare lo spazio pittorico.
Manet realizzò cinque versioni dell’esecuzione dal 1867 al 1869. Poiché furono vietate fotografie
dalle autorità messicane, Manet, con pennello e matita, cercò di ritrarre la scena come se
impugnasse la macchina fotografica. L’artista, dice Danto, è come se imitasse l’immagine
fotografica, dipingendo come se la realtà visiva fosse il prodotto dei processi fotografici dell’epoca.
Manet fu profondamente influenzato da Nadar, con il quale si conobbe nel 1874 durante la prima
mostra impressionista. Quanto Nadar fu importante nello scenario artistico dell’epoca lo dimostrà
Daumier, il quale realizzò una caricatura di Nadar su una mongolfiera. La rappresentazione si
chiama Nadar innalza la fotografia alle vette dell’arte.
Così Greenberg ne “la pittura modernista” del 1960 scrive che il Modernismo è caratterizzato dal
trionfo della piattezza sull’illusione della profondità, culminato nella vittoria della bidimensionalità
sulla tridimensionalità. E così i pittori del Modernismo si rapportarono ai propri quadri
Si può accettare la superiorità della fotografia nel cogliere la verità visiva, ma si potrebbe
controbattere che la pittura può creare una sua verità. Delaroche, pittore dell’Ottocento di arte
storica, ad esempio, realizzò l’Esecuzione di Lady Jane Grey modificando l&rsq