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Ma la dualità non si risolve nella sola differenza strutturale tra i due sistemi, piuttosto in una visione
di compresenza e alternanza di due veri e propri paradigmi dell’esperienza conoscitiva; coesistere
nella logica del “tra”, nella ricerca di quella icasticità connaturata al rapporto diretto uomo/mondo.
Nell’attuale orizzonte tecnologico la logica inglobante e pervasiva del sistema di rappresentazione
digitale e dello spazio informativo da esso generato ha proficuamente messo in risalto la necessaria
compresenza, l’evidente commistione e interazione di due tipologie conoscitive, analogico e
digitale, appunto, intese come due modelli di inerzia percettiva, due accezioni di calviniana
“esattezza” nel rapporto uomo/mondo. Analogico è realtà dura e cruda, digitale è realtà mediata e
ricostruita. Ed assistiamo alla ricerca di icasticità del digitale, di completa esattezza nella
rappresentazione del reale.
4. Visibilità
Quella sulla visibilità è forse la lezione che meglio esprime la poetica di Calvino, in rapporto ai due
concetti chiave: la fantasia e l’immaginazione; d’altronde Calvino è uno degli autori più “visuali”
della letteratura italiana. Lo stesso scrittore distingue due tipi di processi immaginativi: “quello che
parte dalla parola e arriva all’immagine, e quello che parte dall’immagine e arriva all’espressione
verbale”. Da un lato l’immaginazione come strumento di conoscenza, immaginare per conoscere,
dall’altro l’immaginazione come contatto col mondo, immaginare per comunicare.
Un ulteriore aspetto dell’immaginazione è quello del “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò
che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere.” E con l’avvento della cosiddetta
realtà virtuale, abbiamo il palcoscenico per eccellenza dell’immaginazione perseguita per vie
tecnologiche, l’immagine digitale.
La strategia della visibilità messa in atto da Calvino è la risposta al bombardamento delle immagini
tipico della società di massa: “Quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si
usa chiamare la “civiltà dell’immagine?” Il potere di evocare immagini in ‘assenza’ continuerà a
svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?”
La parola scritta può assumere la forma di un “involucro immaginoso” ad annunciare quel trionfo
del significante sul significato, della forma sul contenuto.
4.1 L’immagine digitale: simulacro o feticcio?
Il termine ‘immagine digitale’ provoca inevitabili ambiguità semantiche, anche perché viene
perlopiù utilizzata in antitesi all’immagine analogica.
Già Platone sulle pagine della Repubblica si può dire abbia avviato la discussione, chiedendosi che
cosa distinguesse l’immagine dalla realtà. Su tale quesito l’intera tradizione filosofica si è
confrontata nell’arco dei secoli; tra un richiamo fedele, icastico, mimetico nei confronti della realtà,
e un tipo di rappresentazione affidata a processi astrattivi, simulatori, illusori. Da una parte, quindi,
un rapporto mimetico speculare, ‘continuo’ con la realtà, nel tentativo di afferrarla in presa diretta;
dall’altra, il ricorso a modelli teorici e schemi astrattivi volti a creare l’illusione di realtà, una realtà
altra digitalizzata, ‘discontinua’. A partire da Cimabue e Giotto, hanno puntato al mimetismo
estremo, ovvero alla ricerca di nuove abilità per registrare immagini più fedeli possibili alla realtà,
ricerca culminata nei processi che hanno portato all’invenzione della fotografia e alle opere
concettuali tese all’esibizione diretta della realtà, prima fra tutte la pratica dadaista del ‘ready-
made’, inaugurata da Duchamp.
Sul secondo fronte sono riconducibili alla diversa tipologia rappresentativa sia i processi della
tradizione dell’illusione prospettica inaugurata dal Brunelleschi e da Leon Battista Alberti, sia, ad
esempio, la tradizione simulatoria legata alla pratica pittorica del trompe-l’oeil.
I due fronti si possono agevolmente accostare alle classificazioni proposte agli inizi del Novecento
da Kandinskij, il quale distinse, nel celebre saggio ‘Sulla questione della forma’, due poli formali
del rapporto con l’immagine: quello del “grande realismo” e quello della “grande astrazione”.
Quando un immagine elettronica è generata non per acquisizione diretta, non come traccia o calco
della realtà, ma come il frutto del trattamento elettromagnetico di per sé, si può a buon diritto
parlare di immagini di sintesi elaborata per via elettronica: essa è del tutto priva di supporto (non
c’è la tela, la carta sensibile né la pellicola) e si costituisce di punti luminosi ciascuno dei quali
sussiste per un infinitesimo di secondo per poi dissolversi nel nulla. Non più, dunque, un immagine
che dalla “calda” materia mondana, dall’inerzia sensoriale e percettiva nei confronti del reale,
ascende alla “fredda” concettosità razionale, tutt’altro. L’interesse scientifico, filosofico, artistico
sembra essersi rivolto con rinnovato vigore nella direzione opposta, verso una tipologia d’immagine
che pur nascendo concettualmente nei freddi strati dei modelli teorico-astrattivi di tipo logico-
matematico si è surriscaldata, orientandosi in via prioritaria a ricostruire, simulare, descrivere,
creare visivamente forme e processi in ossequio alla calda materialità mondana.
Il simulacro può essere talvolta definito “non un’immagine pittorica, che riproduce un prototipo
esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale.”
Una diversa sorte e un cammino opposto spettano invece alla nozione di feticcio. Il concetto di
feticcio e quello da esso derivato di feticismo sono invece da lungo tempo ben radicati nell’ampio
terreno teologico-religioso e nella tradizione di studi antropologici. Come il simulacro, anche il
feticcio ha in sé un richiamo a una realtà fittizia, falsa, sintetica, ingannevole, artificiale che
l’immagine post-elettronica, o digitale, secondo numerosi osservatori porta in nuce, la sua stessa
identità etimologica, traducibile come ‘artificiale’ lo dimostra. E, al pari del simulacro, si può dire
che anch’esso viva una dimensione autonoma, tautologica, un’identità autoreferenziale. Mentre
nella logica del simulacro l’immagine si offre come negazione della realtà, per sottrazione, per
differenza, per esclusione (è un fantasma, uno spettro: non è reale), e dunque si distacca dal mondo.
L’immagine-feticcio si dà come reale in sé, per afferenza, per inclusione (è presente, è reale).
Laddove la logica del simulacro si adagia sul modello culturale dell’assenza, quella del feticcio
richiama il modello culturale della presenza. In altri termini, se il simulacro tende a far scomparire
l’originale e a dissolvere il prototipo, il feticcio sostituisce il prototipo, è l’originale, si fa prototipo.
L’immagine sembra essersi definitivamente liberata del messaggio per mostrarsi in tutto e per tutto
in quanto medium; o in altri termini, abbia saputo svincolarsi dal regime dell’assenza
(rappresentazione) per farsi presenza(seduzione).
A dominare la scena oggi è l’immagine-feticcio, la feticizzazione dell’esperienza visiva: i
significanti occultano i significati. Ed è come dire, che il medium ha frantumato il messaggio
trasformandolo in feticcio.
4.2 Videomorfosi. Il video come forma simbolica
Il video ha assunto il ruolo di forma simbolica predominante nella cultura visiva contemporanea; la
forma simbolica più adatta a rappresentare un momento stilistico esemplare. Il video inteso come
dispositivo agente all’interno della cultura visiva contemporanea, si inserisce in quel rapporto di
reciproca mediazione che da sempre sussiste tra l’uomo e il mondo.
La forma video si trova dunque a svolgere un doppio ruolo nell’orizzonte culturale contemporaneo:
è al tempo stesso sia un mezzo tecnologico attraverso il quale poter registrare, accedere, conservare,
manipolare, trasmettere, condividere o semplicemente osservare l’insieme delle forme culturali del
nostro tempo. Ed è quanto ha dimostrato quella forma embrionale di videomorfosi che è il cinema;
fin dai suoi esordi e più in particolare durante la stagione delle Avanguardie storiche del primo
Novecento.
Il ruolo della video-arte oggi è quello di attuare un disvelamento mediatico, svelare cioè i
meccanismi simbolici di questo flusso percettivo, questo evento visivo, o videosfera, o videoscape
che dir si voglia. Le operazioni condotte nell’ambito della video-arte evidenziano quella necessità
tipicamente contemporanea di frammentazione visiva – più punti di vista – ovvero una
scomposizione dell’esperienza estetica in tante differenti unità portatrici di significato; frammenti
dunque, come pezzi di un mosaico. Con la videomorfosi non abbiamo più una cosa che diventa
immagine, ma un’immagine che diventa cosa. Il video si pone come esperienza visiva in sé, libero
dai vincoli della figurazione.
Accordiamo al video il ruolo di forma simbolica predominante del ciclo tecnologico-culturale
contemporaneo, alla video-arte spetta la funzione di connettere la dimensione simbolica a quella
materiale della cultura visiva attraverso forme e sperimentazioni sempre nuove che il mezzo di per
sé offre. Nasce da qui la felice espressione ‘video ergo sum’; un neologismo che suona quasi come:
Siamo ciò che vediamo.
5. Molteplicità
La rete, intesa come infinita trama di relazioni tra unità auto-sussistenti ma al tempo stesso integrate
tra loro.
L’intuizione che meglio esprime questa molteplicità è tutta racchiusa nella fortunata formula
calviniana de “l’iper-romanzo”, condotto tramite continui tentativi di ricerca espressiva per mettere
a frutto una vera e propria arte combinatoria che si adatti alla complessità del mondo. Ciò è
possibile uscendo dalla prospettiva limitata d’un io individuale e collocandosi all’interno di un io
collettivo.
La riflessione calviniana sulla letteratura si presenta come lo sforzo della parola scritta che tende a
superare i confini del territorio riconosciutole come proprio, collocandosi su orizzonti espressivi
sempre più ampi, facendo rima con il mondo digitale