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Francia possa essere assimilato alla Gloriosa rivoluzione. A distinguere i due
eventi è il loro principio ispiratore: a) la Gloriosa rivoluzione aveva avuto
come fine la preservazione dell’Ancient Constitution, garanzia «di legge e
libertà»; b) alla base degli eventi di Francia vi è stato invece un approccio
rifondativo, per il quale i francesi hanno preferito respingere con disprezzo
tutto ciò che apparteneva alla loro storia, col suo enorme patrimonio di
consuetudini e forme istituzionali, in nome di un cieco spirito di innovazione.
Critica la nozione di diritti dell’uomo che si è imposta come fondamento del
nuovo ordine costituzionale in Francia, in quanto si tratta di principi astratti
inadatti a regolamentare un ambito complesso come il contesto dei rapporti
politici e sociali: l’illuminismo ha smarrito il senso del limite e nel suo sforzo di
razionalizzare ogni cosa ha finito per dimenticare l’estrema complessità della
natura umana. All’astratta forma di “metafisica politica” alla base dell’ideologia
rivoluzionaria, egli contrappone un più articolato modello di politica empirica,
fondata sulla rivalutazione di tutti quei fattori - sentimento, tradizione, senso
della continuità e dell’appartenenza storica, percezione dell’autorità,
pregiudizi - che l’onnilivellante ragione illuministica ignora completamente.
Inoltre si dichiara convinto che il diritto dell’uomo all’autogoverno su cui è
stato edificato il regime rivoluzionario sia il meno adatto per la costruzione di
un ordine costituzionale stabile: perché dall’uguaglianza e dalla libertà
assoluta scaturiscono licenza e anarchia, che a lungo andare si trasformano
in dispotismo. Criticava infine l’ideologia rivoluzionaria per la sua tendenza a
sovvertire la naturale gerarchia dei valori inscritta nell’ordine sociale, in nome
di un malinteso culto del “talento” individuale: questa tendenza si manifesta
nella crisi della religione e della cavalleria, le due istituzioni fondamentali della
civiltà europea.
Sieyès
Sacerdote, diede un importante contributo al dibattito prerivoluzionario con
opuscoli di grande impatto che gli diedero un’improvvisa fama. Con l’elezione
agli Stati generali iniziò una lunga carriera politica, sviluppata
ininterrottamente fino alla caduta di Napoleone; esiliato dai Borbone come
regicida, fece ritorno in Francia solo dopo la Rivoluzione del 1830.
La sua fama di teorico della politica è legata alla pubblicazione del pamphlet
Che cos’è il Terzo Stato (1789), con il quale impresse una decisiva
accelerazione alla nascente dinamica rivoluzionaria in Francia: «che cos'è il
terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla.
Che cosa desidera? Diventare qualcosa». Egli confuta il modello di 54
rappresentanza cetuale dell’ancien régime: contro la volontà della corte e dei
ceti privilegiati di mantenere la tradizionale organizzazione tripartita degli Stati
generali, egli sostiene il passaggio a una forma unitaria di rappresentanza
politica, espressiva dei reali rapporti di forza esistenti all’interno della società
francese. In tale contesto, le consuete rivendicazioni del Terzo Stato -
raddoppio del numero dei deputati e votazione per testa e non per ordine -
vengono abbandonate per un programma politico più radicale, che rivendica
per questo ceto - cui appartiene la quasi totalità della popolazione francese e
tutto il suo apparato produttivo - il diritto alla rappresentanza esclusiva della
Nazione. Nel contesto argomentativo del saggio questa prospettiva
costituisce un’ipotesi estrema e scarsamente realistica; rispetto ad essa,
considerava preferibile un appello del Terzo Stato alla Nazione per l’elezione
di una deputazione speciale che avrebbe dovuto stabilire le forme costitutive
del Corpo legislativo del regno. La macchina rivoluzionaria era però in
movimento e il 17 giugno 1789 la direttiva d’azione più radicale si trasformò
nel programma politico dell’Assemblea nazionale.
Con riferimento all’opera di Rousseau, definisce la Nazione come il prodotto
di un originario atto di associazione con il quale individui isolati, viventi sotto
le leggi di natura, danno vita a una «unione sociale» e la dotano di una
«volontà comune» e sovrana: non esistono leggi positive in grado di
vincolarne l’azione; al contrario, le leggi non sono che l’espressione della
volontà comune. Per raggiungere i fini per cui è stata creata, la Nazione deve
dotarsi di un corpo politico e fornirlo di una Costituzione, ossia un insieme di
leggi fondamentali che ne regolano organizzazione e funzionamento. La
Costituzione non è opera del potere costituito, ossia del governo, che ha
natura condizionata e derivata, ma del potere costituente, che è insito nella
Nazione e appartiene solo ad essa. Su queste basi va affrontato e risolto il
problema della riorganizzazione costituzionale della monarchia francese: i
francesi formano una Nazione con una comune volontà sovrana, perciò
spetta loro l’ultima parola sulla forma di governo del regno.
L’assunto rousseauiano della sovranità inalienabile della volontà generale
viene contemperato da una necessaria articolazione rappresentativa di quella
volontà. Presenta il «governo esercitato per procura», ossia il sistema
rappresentativo, come l’unica formula politica realmente adeguata alle
esigenze delle nazioni moderne e motiva questa preferenza: a) in termini
quantitativi: gli associati sono troppi e sparsi su un territorio troppo esteso per
poter esprimere agevolmente la loro volontà comune; 2) in termini qualitativi:
il governo rappresentativo non è un mero surrogato della democrazia diretta,
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ma «un sistema politico diverso e migliore». Esso costituisce l’espressione
politica della divisione razionale del lavoro, il fondamentale principio
organizzativo delle società moderne. Come ogni altro tipo di lavoro
produttivo, la politica è un’attività altamente specializzata, che richiede
persone istruite e competenti, dotate del necessario tempo libero per
dedicarsi ad essa con continuità: condizioni alle quali sfugge la maggior parte
dei consociati, che senza giungere ad alienare i propri diritti, ne delegano
ordinariamente l’esercizio a rappresentanti ritenuti più abili di loro nel cogliere
l’interesse generale.
Dunque, dal punto di vista giuridico-costituzionale, la Nazione non esiste se
non nelle azioni dei suoi legittimi rappresentanti, ed è solo nella deliberazione
del corpo rappresentativo che può prendere forma la volontà generale. Da qui
il rifiuto di ogni ingerenza della cittadinanza nelle procedure di articolazione
della volontà comune rappresentativa: nessun deputato può essere vincolato
dalla volontà dei suoi elettori nell’esercizio delle sue funzioni, perché essa
costituisce una volontà particolare rispetto a quella generale della Nazione.
Respinge ogni interpretazione “assolutistica” della volontà nazionale: il corpo
rappresentativo non può rivendicare un’illimitata possibilità d’azione, perché
la comunità ha affidato ad esso, del proprio potere, solo quanto necessita al
mantenimento di un buon assetto della comunità stessa. Attribuire alla
collettività una forma illimitata di potere sul singolo significherebbe mettere in
discussione la causa finale di ogni ordine sociale, ossia il più completo e
assoluto godimento della libertà e dell’indipendenza individuale. Pertanto, egli
considera un’esposizione ragionata dei diritti dell’uomo e del cittadino come
l’indispensabile premessa all’attività di rifondazione costituzionale affidata
all’Assemblea nazionale; per lui, inoltre, una costituzione dovrebbe prevedere
non solo le regole di formazione, organizzazione e funzionamento dei pubblici
poteri, ma anche le «precauzioni politiche» di cui devono essere dotati, per
non diventare pericolosi.
Propone una concezione “censitaria” dei diritti politici, attribuiti alla “classe
disponibile”, ossia la parte del Terzo Stato dotata di un certo livello di cultura
e proprietà , destinata ad assumere su di sé il peso della rappresentanza
politica della Nazione. Mentre tutti gli individui godono dei diritti di
cittadinanza passiva (protezione della propria persona, della proprietà, della
libertà ecc.), non tutti sono cittadini attivi, col diritto di influenzare la cosa
pubblica. Non c’è ancora la piena assunzione del principio elettivo come
fondamento della legittimazione del potere politico: esistono soggetti in grado
di “rappresentare” naturalmente la totalità delle Nazione, a prescindere dalla
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volontà dei suoi stessi componenti.
Kant
Nasce a Könisberg, dove ricevette un’educazione religiosa di stampo
pietistico, orientata al valore preminente della vita morale. Con la Critica della
ragion pura (1781) realizzò quella “rivoluzione copernicana” che gli consentì
di affermare che il mondo esterno si modella sulla facoltà conoscitiva del
soggetto. Negli ultimi anni affrontò i temi del diritto, dello Stato e della storia.
Nello scritto Sul detto comune (1793) Kant traccia una precisa separazione
tra morale e diritto. Lo scopo della morale è insegnare «come diventare degni
della felicità», ottemperando alla legge morale del dovere. Lo scopo del diritto
è la «limitazione della libertà di ciascuno alla condizione dell’accordo di
questa con la libertà di ogni altro». Traccia i principi dello “Stato giuridico”,
ossia una condizione regolata dal diritto nella quale viene riconosciuta la
forma dello Stato di diritto. Si basa su tre principi: 1) libertà degli uomini; 2)
uguaglianza dei sudditi; 3) indipendenza dei cittadini. E’ una forma di Stato
retta da un sovrano, affiancato da un corpo rappresentativo formato su base
censitaria.
Nel testo Kant afferma, contro Hobbes, che il contratto originario non deve
essere concepito come un fatto, ma come semplice idea della ragione. Essa
racchiude l’obbligo per il legislatore di «emanare le sue leggi così come
sarebbero potute nascere dalla volontà riunita di un intero popolo»: qui
esprime il principio di legittimità delle leggi, in base al quale debbono essere
ritenute giuste. Egli sostiene che non sia lecito opporre un diritto di resistenza
alle leggi ingiuste, perch&