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E’ la prima fotografia di paesaggio, ed è già fotografia di viaggio: guardare fotografie di posti
lontani è come viaggiare mentalmente, esperire una seconda realtà, come già accadeva con lo
stereoscopio.
-Fotografare in viaggio è ancora oggi sia il modo per testimoniare un’esperienza e conservarne il ricordo,
ma anche una strategia per entrare in contatto con lo sconosciuto che mette a disagio, ma che appare
meno minaccioso attraverso il mirino fotografico.
-Due tendenze principali dei primi fotografi di paesaggio:
1. Obbiettiva e fedele, cerca di evitare i clichè pittorici ed è più orientata verso la dimensione
concettuale del viaggio.
2. Più legata alla tradizione pittorica nelle componenti formali dell’immagini (simmetrie,
composizione equilibrata, gusto “cartolinesco”).
E’ un dualismo che più in generale distingue una fotografia di viaggio in senso proprio, e una di
paesaggio.
Ancora una volta il dualismo mette in luce la duplice identità del fotografico, sempre oscillante tra
presentazione automatica della realtà ed eredità formali della tradizione pittorica.
-Maxime Du Camp, scrittore e fotografo, intraprende nel 1849 un viaggio in Medio Oriente con
Flaubert.
Nel 1852 viene stampato il libro fotografico Egypte, Nubie, Palestine et Syria, realizzato incollando
sulle pagine le 125 immagini stampate, al modo del primo libro fotografico di Talbot.
Il modo in cui Du Camp realizza le fotografie è emblema della volontà della fotografia di emanciparsi
dai riferimenti pittorici tradizionali: conscio dell’incarico scientifico, di inventario o archivio di
immagini, che gli è stato affidato, egli rinuncia ad uno sguardo sentimentale inquadra in modo rigoroso
e austero, quasi da manuale di architettura, seguendo prospettive geometriche.
Il risultato è appunto un archivio di immagini del reale, e l’idea di archiviazione è una delle potenzialità
più forti della concettualità fotografica.
-Franci Frith realizza un lavoro che si pone come perfetto contraltare a quello di Du Camp:
percorrendo più o meno gli stessi luoghi, questo tipografo ed editore fotografa con gusto pittorico e
attenzione ai valori formali, sentimentalismo e idea di paesaggio letteraria.
Il risultato del suo viaggio sono dieci volumi, ognuno dedicato ad una terra visitata.
Il viaggio fotografico
-Philippe Dubois scrive in L’atto fotografico: “con la fotografia non ci è più possibile pensare all’immagine
al di fuori dell’atto che l’ha creata”
-Se la fotografia ha quindi nell’esperienza uno dei suoi pilastri ontologici, la può immaginare come
metafora di un viaggio nella realtà, in quanto il viaggio si basa sulla stessa idea di esperienza e relazione
con l’ambiente circostante.
Così tra le tante applicazioni si sviluppa, soprattutto intorno agli anni Sessanta e Settanta, un tipo di
fotografia che viaggia dentro le cose e gli spazi per percepirli e viverli, sotto un’impronta esistenziale e
concettuale.
Lo sguardo fotografico diventa così un’occasione di riscoperta estetica del mondo, una sorta di epifania
come la intendeva James Joice, “un’improvvisa manifestazione spirituale nella volgarità di un discorso o
un gesto”, nel quotidiano.
-Tra gli esempi di chi ha lavorato con fotografia e dimensione estetica del viaggio, abbiamo Franco
Vaccari con i lavori 700 km di esposizione, 1972, e Viaggio per un trattamento completo all’albergo diurno
Cobianchi, 1971. In quest’ultimo caso il passaggio in un albergo diventa pretesto per una serie di
operazioni di cura del corpo, che vengono estetizzate nell’ottica di riconquista del senso delle cose
banali.
-Allo stesso modo Douglas Huebler con Veduta di Parigi, 1970 pone 12 foto l’una accanto all’altra per
rimandare ad una passeggiata a Parigi. Sono scatti eseguiti a intervallo di tempo fissato in partenza, a
prescindere dal soggetto; non documentalo luoghi significativi ma segnano lo spazio temporale della
passeggiata, consentendo in un secondo momento di ripercorrerla concettualmente e prenderne
coscienza.
12. La Contessa di Castiglione vestita da suora carmelitana, nel romitorio di Passy
Pierre-Louis Pierson, 1863
-Virginia Oldoini Verasis, meglio conosciuta come Contessa di Castiglione, nasce a Firenze nel 1837
da nobile famiglia; essendo molto affascinante, viene mandata dal cugino Camillo Benso Conte di
Cavour a Parigi nel 1856, per entrare nelle grazie di Napoleone III e incoraggiare l’intervento delle
truppe francesi a fianco della causa sabauda, contro gli austriaci. L’obiettivo viene centrato e la contessa
diventa l’amante del sovrano francese.
-Giunta a Parigi la contessa inizia a frequentare regolarmente uno dei più rinomati studi di ritrattistica
fotografica, l’atelier di Heribert Mayer e Pierre-Louis Pierson.
La donna diventa simbolo vivente di trasgressione e anti-conformismo, tutti gli uomini perdono la testa
per lei, mentre tra le aristocratiche circolano cattiverie e pettegolezzi che essa stessa alimenta. Alle feste
è sempre il fulcro dell’attenzione, si veste in modi eccentrici e travestimenti fuori dal comune (cignno,
Anna Bolena, Lady Macbeth, Medea, Beatrice) per non passare mai inosservata.
-E’ una figura che esercita culto di sè, narcisismo ed esibizionismo, e la fotografia diventa
strumento privilegiato per i suoi scopi.
Così ogni volta che si recava ad una festa in uno dei suoi costumi, passava allo studio per farsi
fotografare, attratta da quella che Pierre Axine definisce “la premonizione che la fotografia le avrebbe regalato
l’immortalità”.
-Aveva una grande consapevolezza del valore concettuale della fotografia: le regala ai suoi amanti e le
rivuole indietro quando l’amore finisce, conservandole come reliquie tracce della sua identità.
-Persino quando abbandonata da tutti, depressa e isolata si chiuderà in una vita appartata nascondendo
la sua vecchiaia, non rinuncerà alla fotografia come sfida estrema e unico modo per vivere un’esperienza
diversa.
-Un’ultima osservazione sul modo in cui la contessa si sottoponeva ai ritratti: sui negativi di Pierson ci
sono molte indicazioni su come tagliare, evidenziare o colorare particolari. Dunque non è solo
responsabile della messa in scena dei suoi ritratti, ma anche delle fasi successive all’ideazione: recita,
post-produzione. Un’artista contemporanea, una moderna performer che non produce fisicamente
l’opera ma ne dirige completamente la realizzazione, uno degli esempi di uso concettuale della
fotografia dell’ottocento più avvincenti che mai.
L’ossessione dello specchio
-Tra gli artisti novecenteschi che hanno fatto della propria immagine l’esclusivo oggetto della propria
poetica, sono Claude Cahun (surrealista), Gilbert and George, Luigi Ontani, Cindy Sherman, Francesca
Woodman, Hannah Wilke e Yasumasa Morimura.
-Per Claude Cahun, surrealista, l’atto di fotografarsi travestit esprime il bisogno di affermare che non
esiste un’identità definitiva, che le persone non sono univoche.
-Per Cindy Sherman invece la fotografia negli anni Settanta è stata il modo per raccontare come le
immagini fossero piegate alla divulgazione degli stereotipi femminili.
-Francesca Woodman, artista americana suicida nel 1981 a ventidue anni, con alle spalle Claude
Cahun e Cindy Sherman, lavora quasi esclusivamente con l’autoscatto realizzando immagini nelle quali
il suo volto è spesso nascosto o sfigurato; questa scelta mette volontariamente in crisi una delle
principali vocazioni della fotografia tradizionali, quella del riconoscimento, e della definizione
identitaria.
Il suo lavoro è portatore di due tendenze: da un lato la fuga da un’identità determinata in favore di una
disseminazione dell’io; dall’altro, la volontà di diventare una cosa unica con il mondo e l’ambiente
circostante, una sorta di immersione panica nell’ambiente e mimesi con tutto ciò che di inanimato la
circonda.
Molti degli ambienti che sceglie per le sue performance sono familiari e domestici, anonimi; lo stesso
vale per i vestiti, spesso di sua nonna; in tal modo si evoca l’aura del passato e del ricordo.
Le sue immagini così banali e quotidiane possono allora scatenare ciò che Freud chiama “perturbante”,
ossia “tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere nascosto, segreto, e invece è affiorato”, la banalità del quotidiano che
all’improvviso rivela mistero e dramma. La fotografia di Francesca Woodman è intrisa di questo sottile
confine, tra banalità e mistero, apparenza e verità.
13. Ritratto di Charles Baudelaire - Nadar, 1855
-Il ritratto fotografico diventa presto una moda, ed è sorprendente che l’arredo degli studi, ma
soprattutto i modi e i riferimenti usati dai fotografi durante le sessioni di posa, sono gli stessi usati dai
pittori.
Inoltre, bei ritratti sono elogiati per la somiglianza con il soggetto e altre qualità formali, perfettamente
in linea con la tendenza pittorialista.
-Gaspard-Felix Tournachon, in arte Nadar (da tourne a dard, “freccia”), è il più grande
maestro della ritrattistica ottocentesca. Nel 1853 apre il suo studio in Rue Saint-Lazare a Parigi, per poi
spostarsi in Boulevard des Capucines, dove vi fu la prima mostra degli impressionisti nel 1874.
Lo si elogia per l’abilità e raffinatezza nel cogliere la psicologia dei suoi soggetti, i suoi ritratti costano
più del normale e possiede un gran numero (fino a 50) collaboratori.
-Il suo stile è pittorialista, concentrato sugli effetti formali di luce, composizione, taglio e chiaroscuro, e
ciò ben spiega l’apprezzamento che lo circonda. Egli mette in posa i clienti illuminandone il volto per
circa tre quarti lateralmente, davanti a sfondi neutri e minimalisti, con sguardo rivolto in macchina e
inquadratura in piano americano (dal ginocchio in su).
E’ inoltre il primo ad utilizzare la luce artificiale, e anche il pioniere del pallone aerostatico per
fotografare una veduta aerea di Parigi, come racconta la vignetta del 1862 di Honorè Daumier.
-Realizza la prima fotointervista della storia a Eugene Chevreul, scienziato
-Scrive la sua autobiografia, in cui scrive “tanti prodigi non son forse fatti per cedere il passo al più sorprendente
di tutti: quello che par concedere all’uomo il potere di creare, lui pure, a sua volta, materializzando l’impalpabile
spetto, che svanisce appena visto senza lasciare neppure un’ombra sul cristallo dello specchio o un’increspatura
nell’acqua di un catino?”
-Secondo Roland Barthes, i suoi ritratti hanno la capacità di catturare l’aria dei soggetti pr