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-BODY ART
Sin dall’antichità il corpo in arte è stato affrontato in modo indiretto, censurato, sia per pudore e per una
certa avversione alla corporalità che caratterizza la cultura occidentale, sia perchè, essendo effimero, era
svuotato di ogni possibile significato e ruolo in quanto impossibile da conservare, sia perchè non esistevano
strumenti per appunto conservare in modo “diretto” questa presenza.
—>Quando nuovi strumenti tecnologici, prima tra tutti la fotografia, iniziano a rendere possibile la
registrazione e conservazione dell’effimero, del contingente, si avvia una sorta di recupero materiale e ideale
del corpo e della fisicità.
Dunque, prima di ogni altra cosa, la fotografia, concettualmente e implicitamente è una condizione
fondamentale, in quanto tecnologia del “mantenimento” dell’effimero, per tutta la Body Art e il riscatto del
corpo su cui essa si basa.
—>La fotografia nelle performance Body Art, come nota Menna, non è poi mera documentazione e
strumento di “mantenimento”, ma molti artisti, applicando inconsapevolmente la nozione mcluhaniana di
medium come prolungamento ed estensione della sesnorialità naturale, la utilizzano per ampliare alcuni
aspetti della loro performance, condurre un’indagine più penetrante, più attenta a fermare i movimenti dell’azione.
Torna quindi la vecchia teoria dell’occhio meccanico e l’intuizione di Bragaglia circa una fotografia trascendentale
del movimento, ossia una registrazione del movimento che va oltre la superficie, aprendo ad uno spazio di
coscienza nuovo (come dice Benjamin riferendosi alla cinepresa), possibile grazie alla sostituzione dell’occhio
umano con quello della macchina.
—>Un’ultimo apporto che la fotografia offre alla Body Art si rintraccia in quelle esperienze di Body Art
dell’immaginario, ossa che combinano le due opposte possibilità offerte dal mezzo fotografico, attestazione di
verità ed invenzione fantastica, per rendere credibili e realistici una serie di comportamenti e travestimenti
assurdi e fantastici, che grazie alla fotografia assumono credibilità.
-NARRATIVE ART
—>Nella Narrative Art la fotografia è più esplicitamente protagonista; tuttavia lo fa in modo assolutamente
anti-artistico, scegliendo soggetti banali e spesso intimi, immortalati in modo tecnicamente debole, proprio
come una foto da album di famiglia, che non deve manifestare virtuosismi tecnici o soggetti sublimi, valori
formali di eredità pittorica, ma ha valore in quanto ricordo, memoria, attestazione di presenza.
Il merito della Narrative Art è stato dunque quello di comprendere che il contributo originale che la
fotografia poteva portare all’arte risiedesse nei suoi valori concettuali prima che formali.
—>Si aggiunge poi nella Narrative la componente della scrittura, banale tanto nei significanti (grafie
incerte, anonime o infantili) che nei significati, e anche frustrante in quanto non lascia sempre un margine
enigmatico, non spiega mai fino in fondo. Le loro operazioni dunque non fanno che confermare, anzichè
cercare di rimediare, al carattere della fotografia rilevato da Barthes di essere un messaggio senza codice: infatti
le didascalie, anzichè spiegare l’immagine, codificandola, ne ampliano e complicano ulteriormente il campo
semantico.
-CONCEPTUAL ART
—>Si tratta di un settore controverso perchè, di fatto, la concettualità e la tendenza alla smaterializzazione
dell’opera appare una sorta di denominatore comune di tutte le ricerche degli anni settanta.
—>L’Arte Concettuale poi si può dividere in mondana, ossia orientata alla relazione con l’esterno, e analitico,
ossia unicamente orientata al linguaggio stesso. Ma in generale possiamo affermare che anche nelle ricerche
concettuali più strettamente legate alla dimensione ideale, c’è sempre una minima intenzione esterna,
perchè i segni, siano essi parole, numeri o fotografie, rimandano sempre a strutture che stanno fuori da sè;
questo diventa ancora più chiaro nel caso della fotografia, che essendo un segno indice, un’impronta o traccia
di una realtà esterna, possiede intrinsecamente un carattere di relazione con l’esterno, di mondanità.
Dunque l’uso della fotografia a parte degli artisti concettuali conferisce sempre all’arte una dimensione di
mondanità.
Del resto il concettuale nasce da Duchamp e la sua prima manifestazione fu il ready-made, segno per sua
natura indicale, a cui si riferisce con il termine istantaneo, che ci rimanda immediatamente al campo
fotografico.
8.2 Corpo, narrazioni, concettualità
BODY ART: due filoni,
Body Art fisica: legata ad una prospettiva di corpo reale, o corpo fisico; riguarda una presa di coscienza
della corporalità, una riscoperta del corpo fino ad allora annullato a controllato da censure nella nostra
cultura occidentale. Si svolge attraverso pratiche che possiamo vedere oggi come ingenue e banali, ma che
costituivano una vera svolta culturale al tempo, un ripartire da zero (usano la fotografia per riscoprire un
corpo censurato, come i bambini nei primi anni di vita usano lo specchio, secondo Lacan, per scoprire il
proprio corpo, che ancora vivono come realtà separata da sè).
-Bruce Nauman, 1941, americano, usa chiaramente la fotografia come specchio, attraverso cui registra e
cataloga, nella serie Making Faces, una serie di smorfie espressive.
-Arnulf Rainer, austriaco, 1929, sottopone invece il suo corpo ad una serie di test per testare i propri
limiti fisici; tuttavia il suo uso della fotografia risulta ambiguo nel momento in cui la integra con pennellate
di gusto espressionista, nel tentativo, come dice l’artista stesso, di integrarne l’eccessiva staticità,
aggiungendovi dinamismo e tensione.
A cercare di chiarire l’ambiguità, Gillo Dorfles propone di interpretare i segni tracciati con violenza da
Rainer sulle sue fotografie non come integrazione espressiva alla staticità fotografica, ma come forma di
aggressione al suo corpo traslato in fotografia. Questa interpretazione chiamerebbe in discussione il valore
concettuale di fotografia come duplicativo, sostituto della realtà che presenta.
—>Ricordiamo tra i suoi lavori gli autoritratti in Photomatic realizzati tra il 1968-69, realizzati a Vienna
dopo aver assunto alcolici per rimuovere eventuali resistenze autocensorie ed assumere comportamenti più
liberi; vediamo una serie di smorfie ed espressioni di una corporeità libera ed estrema.
-Giuseppe Penone, italiano, 1947, all’inizio degli anni settanta si impegna nel progetto Svolgere la propria
pelle, in cui, attraverso una meticolosa serie di scatti egli svolge una vera e propria mappatura
dell’epidermide, riscattandola da un’identità di puro involucro ad un mezzo attivo, essenziale nella relazione
tra l’individuo e mondo esterno.
Interessante in questo progetto l’omologia tra pelle e pellicola, entrambe intese come entità capaci di
registrare la presenza del mondo.
—>In un altro lavoro insiste su questa omologia anche in un altro lavoro in cui proietta la propria
immagine fotografica su un calco in gesso del proprio busto: impronta si sovrappone così ad impronta.
—>Rovesciare i propri occhi, 1970 è tra i suoi progetti con più densi rimandi alla filosofia del mezzo: egli si
applica delle lenti a contatto riflettenti, in cui sembra ributtare all’esterno ciò che l’occhio ha appena
registrato, allo stesso modo in cui la macchina fotografica Polaroid ci restituisce immediatamente
l’immagine scattata.
-La coppia italo inglese Gilbert e George, 1943 e 1942, essi lavorano non tanto sulla riscoperta della
corporeità quanto sulla riflessione di una serie di stereotipi di comportamenti banali e massificati:
diventano così statue viventi che fissano gli stereotipi del perfetto inglese per esempio, impegnato a
sorseggiare una tazza di tè o compiere la passeggiata rituale in città.
-Gina Pane, 1939-1990 è invece protagonista di una serie di rituali interventi autolesionistici tesi a
produrre piccole ferite sul proprio corpo; la fotografia è utilizzata, usando le sue parole, come “oggetto
sociologico” per “cogliere sul vivo” quella dialettica per cui un comportamento diventa significativo.
La fotografia nel suo caso concretizza l’idea stessa del dolore e della ferita, assunta come forma di coscienza
e recupero sensoriale del corpo, altrimenti ostaggio di un’ottusa anestesia.
Body Art dell’immaginario: legata all’ipotesi di un corpo immaginario
Lo svizzero Urs Luthi, 1947, e l’italiano Luigi Ontani, 1943, ricorrono alla Body Art per proiettarsi nello
spazio dell’illusione e della fantasia. E’ ancora più evidente, in queste esperienze, il ruolo determinante della
fotografia, che trasforma la messa in scena in qualcosa di concettualmente credibile. Le strade che
imboccano, seppur mosse comunque da una provocazione contro un sistema sociale che ci obbliga a
sottostare a determinate costrizioni, sono comunque molto diverse: Luthi si impegna in una riflessione
sull’identità sessuale, mentre Ontani progetta fughe nel mondo fantastico delle favole, della mitologia o
dell’iconografia artistica.
-Luthi
—>Selfportrait, 1970, opera che suscita dubbi riguardo all’identità sessuale del soggetto, con riferimento a
Rrose Selavy di Duchamp.
—>I’ll Be Your Mirror, 1972, è un autoritratto che invita lo spettatore a specchiarsi nella fotografia di un
provocante Luthi in bilico fra il maschile e il femminile.
—>The Numbergirl, 1973, ci offre una sequenza di venti immagini in cui dà corpo a nuove mutazioni tenendo
in mano fotografie di trasformazioni precedenti.
—>Bisogna notare che il suo gioco con l’identità non cerca una fuga, anzi la dimensione della vita reale, del
quotidiano, è indispensabile nella sua poetica, perchè le sue trasformazioni, dice, servono per rendere la vita
quotidiana più interessante e sopportabile.
-Ontani invece si differenzia da Luthi per l’intenzione di fuggire dalla realtà nell’immaginario, e nel partire
sempre da precedenti modelli, letterari, pittorici, mitologici. Il mezzo fotografico è per lui uno strumento di
immersione in corpi altrui.
Body Art eccentrica
-L’americano William Wegman, 1942, tenta una divertente sintesi dei due filoni di Body Art qui
analizzati, in quella che ha definito “Dog Art”, in una duplice accezione: da un lato perchè volutamente di
cattivo gusto e grottesca, dall’altro perchè con la partecipazione del proprio cane Man Ray (nome tra l’altro
che contiene un’esplicita e provocante dich