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Questa battaglia si combatteva da entrambe le parti ricorrendo alla polemica. La spietatezza

della lotta era accresciuta dalla convinzione che le eresie fossero opera di Satana; quindi, secondo

i cristiani della tarda antichità, la tolleranza verso coloro che gli avevano ceduto non era solo

assurda, ma addirittura colpevole. Gli eretici erano atei, sfrontati e provocatori. Allo stesso modo

s’infangavano i loro scritti. Una pratica diffusa consisteva poi nell’accusare gli avversarî di reati

comuni (adulterio, furti, violenze): nulla riusciva a togliere prestigio ad un ecclesiastico quanto

l’accusa di comportarsi in modo ignobile nella vita privata.

Nell’alimentare questo scontro entravano in gioco odî e rivalità sia personali che di gruppo.

La paura del contagio poteva spingere un avversario a cercare di eliminare quella che ritenevano

la causa della malattia.

Se tutto ciò aiuta a comprendere la complessità e la virulenza del confronto, non ci porta an-

cora al nocciolo del problema. La secolare controversia ariana ed il modo in cui si è chiusa sono

rivelatori di un fatto fondamentale: la «modernità» ante litteram del cristianesimo ortodosso

uscito vincente dalla controversia ariana in quanto religione teologica in grado d’imporre un si-

stema di credenze «totalitario» ai suoi fedeli laici. Ciò significa che la sua specificità risiede nella

centralità che vi acquista la fede in quanto credenza nella dottrina ritenuta giusta e vera, sicché il

cristiano diventa prima di tutto, a differenza di quanto avveniva nella religione romana, un cre-

dente, e non un praticante.

È impossibile seguire nei suoi mille rivoli un dibattito secolare. Esso andava al cuore della fede

cristiana, perché concerneva la «vera» natura di quel Cristo che costituiva l’oggetto di fede spe-

cifico del cristiano. Chi era veramente costui? Una creatura, per quanto eccellente, come voleva

Ario, creata dal nulla e, in quanto tale, inevitabilmente subordinata al Padre? Se in questo modo

Ario e i suoi seguaci preservavano l’assoluta trascendenza e preminenza di Dio Padre, mirando

contemporaneamente a sottolineare la dimensione umana e sofferente dell’uomo Gesù. Per molti

rappresentanti della Chiesa imperiale, che ormai vivevano in splendidi edificî ed officiavano in

opulenti basiliche, Gesù, l’umile profeta che era stato messo a morte in modo ignominioso, poteva

costituire un problema. Essi preferivano così sottolineare la dimensione divina del Figlio che

aveva gettato le basi della Chiesa di cui essi erano i continuatori, fondata appunto sul fatto che

egli, generato dal Padre, possedeva la sua stessa natura divina.

Come abbiamo già visto in precedenza, tra le due posizioni estreme si era creata una posizione

intermedia, riassumibile nel credo omeusiano, secondo cui la sostanza del Figlio era «simile» a

quella del Padre, a sottolineare un certo subordinazionismo, che però non si spingeva fino a ve-

derlo come una creatura. Questa soluzione rendeva possibile un compromesso. Ai niceni, infatti,

permetteva di continuare a sostenere che il Figlio fosse simile secondo la sostanza, mentre agli

altri, che non fossero su posizioni d’arianesimo radicale, permetteva di sostenere che il Figlio

fosse simile secondo la volontà, una volontà sottomessa. Ciò confermava la natura subordinata

del Figlio, anche se non coincideva con la posizione radicale degli ariani, per i quali la sostanza

del Figlio era dissimile da quella del Padre in quanto creata dal nulla e non generata dal Padre. Fu

il passaggio graduale di questo terzo partito nello schieramento niceno a determinare alla fine la

vittoria.

La battaglia tra gli opposti schieramenti era stata fin dall’inizio un conflitto combattuto a suon

di citazioni bibliche. Si potrebbe incominciare una lunga disamina esegetica. Ma quel che alla

luce del concilio del 381 appare evidente è che il richiamo alle scritture non era in grado di dirimere

quale dottrina fosse ortodossa e quale eretica. Anche il confronto teologico non era risolutivo. A

seconda delle situazioni locali, poteva prevalere un partito sull’altro. Anche il succedersi degli

imperatori ora ariani (Costanzo e Valente), ora di fede nicena, alla lunga non si era rivelato de-

cisivo. A decidere fu l’intervento dello Stato, nella fattispecie del niceno Teodosio, che convocò

[45]

un concilio e fece delle sue decisioni per la prima volta un elemento di una legge statale. La «ve-

rità» dottrinale che alla fine s’impose non fu solo l’esito di una riflessione razionale. È arrivato

ora il momento di vedere come si giunse a questa fatale decisione, che si tradusse nella crimina-

lizzazione dell’eretico e, per converso, nella distruzione del paganesimo.

3. La situazione della Chiesa da Gioviano a Teodosio

Durante i brevi regni di Giuliano e Gioviano, la situazione dei due partiti si era modificata in

modo sostanziale. In Occidente ormai prevaleva il credo niceno. In Egitto, il clero era nella mag-

gioranza con Atanasio, mentre in Oriente si andava configurando quella corrente (neonicena)

guidata dai cappadoci Basilio, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo, che alla fine avrebbe

trionfato a Costantinopoli con la formula trinitaria che si dimostrerà vincente: una sola essenza

divina articolata in tre ipostasi o persone distinte.

Valentiniano e Valente all’inizio del loro regno promulgarono un editto di tolleranza generale.

Le terre dei templi furono confiscate, ma il culto pagano non fu proibito. Nell’Occidente fu anche

tollerata la maggior parte degli eretici: soltanto i manichei furono posti al bando, perché avversati

sia da cristiani che pagani. Gli stessi donatisti, almeno inizialmente, vennero tollerati; nel 373

Valentiniano proibì loro di ribattezzare gli ortodossi che riuscivano a convertire. Da allora, la

persecuzione, arrestatasi con Giuliano, ricominciò.

Ben presto, però, la politica religiosa dei due augusti prese una strada diversa. Ammiano lodò

la sostanziale politica di tolleranza di Valentiniano, la cui reale preoccupazione era di difendere

l’Impero dalle minacce dei barbari, preservando l’unità interna. Della sua fede si sa poco. Alcune

fonti lo riportano come un fervente cristiano, ma in realtà egli si limitò a non immischiarsi nei

sempre più numerosi conflitti teologici tra i varî partiti cristiani. Lasciò l’ariano Aussenzio al suo

posto come vescovo di Milano. La Chiesa, d’altro canto, non ritornò in possesso di tutti i privilegî

che aveva acquisito sotto Costantino e Costanzo 11, sospesi da Giuliano. Ad un sostanziale disin-

teresse per i grandi problemi teologici si contrappone una sentita preoccupazione per la vita mo-

rale del clero, in particolare dei vescovi.

Nonostante queste lodevoli qualità, come molti imperatori-soldati anche Valentiniano era un

uomo collerico e violento, come testimonia Ammiano. Valentiniano morì infatti nel 375 per un

ictus a seguito di uno scoppio di collera. Gli succedeva il figlio Graziano, all’epoca sedicenne.

Cinque giorni dopo, il fratellastro Valentiniano 11, che aveva quattro anni, venne proclamato

imperatore. Questa nomina era stata fatta all’insaputa sia di Graziano sia di Valente: entrambi,

seppur contrariati, riconobbero il nuovo augusto, che, nonostante una breve vita passata all’ombra

della madre, recitò una parte non secondaria nel conflitto col vescovo di Milano Ambrogio. Dopo

alcune negoziazioni, Graziano divenne imperatore in Occidente delle province delle province

della Gallia, dell’Italia e del Nord Africa, lasciando al fratellastro i Balcani. In questo modo, que-

sta forma di fede si diffuse nella penisola, dove divenne una sorta di religione «nazionale».

In Oriente le cose dovevano, con Valente, seguire un corso diverso e, alla fine, drammatico

per le sorti dell’Impero. In un discorso inviato al neoimperatore, Temistio aveva consiglio a Va-

lente di non stupirsi delle divergenze dottrinali che esistevano tra i cristiani. Questo era voluto

dalla divinità, che vuole essere onorata in maniere diverse in modo che ciascuno provi più rispetto

di fronte alla sua maestà. Convinto almeno in parte, l’Imperatore non aveva condannato a morte

ma all’esilio i perseguitati niceni.

Ammiano ci ha lasciato di lui un giudizio durissimo. Anche se Valente era effettivamente un

abile organizzatore, era caduto ben presto sotto l’influsso di potenti funzionarî di palazzo, che già

avevano influenzato Costanzo e che erano in rapporto con gli anomei. Secondo Teodoreto, ad

irretirlo fu la moglie Domnica, legata al vescovo ariano di Costantinopoli Eudossio. Costui aveva

battezzato l’Imperatore che, da quel momento, iniziò una vera e propria politica di persecuzioni

nei confronti dei vescovi del partito niceno.

Si passò poi, secondo quella politica tipica di contaminazione degli spazî sacri che abbiamo già

trovato all’opera sotto Giuliano, a contaminare l’altare. Con la cacciata del vescovo alessandrino

Pietro, rifugiatosi a Roma aiutato dal vescovo Damaso, Valente prescrisse di cacciare da tutto

l’Egitto i partigiani del credo niceno. Il nuovo vescovo ariano, Lucio, assunse di persona questo

compito, estendendo questa «caccia alle streghe» pure ai monasteri del deserto, da sempre schie-

rati contro l’arianesimo. [46]

Di fronte a queste persecuzioni, le vittime del partito ecclesiastico dominante cercarono di

riunire l’episcopato occidentale e soprattutto il vescovo di Roma, per ottenere con la sua media-

zione l’intervento di Valentiniano e successivamente quello di Graziano.

Valente si dimostrò non meno duro nei confronti di quelli che riteneva i proprî oppositori

pagani.

Nel frattempo, a causa dei barbari, la situazione dell’Impero stava precipitando. Le tribù goti-

che, sotto la pressione degli Unni, cercarono nuovi territorî a sud del Danubio. Ormai da più di

un secolo vi erano stati contatti tra Goti e Romani e, grazie al vescovo goto Úlfila per la sua

predicazione e traduzione della Bibbia in gotico, molti Goti erano diventati cristiani di fede

omeana. All’inizio le aperture dei re goti erano state ben accolte, ma ben presto, nei territorî loro

concessi, sorsero conflitti. Si giunse così allo scontro e Valente fu sconfitto ad Adrianopoli nel

378, perdendovi la vita. La situazione complessiva dell’Impero era in grave pericolo. Graziano,

data la minore età di Valentiniano 11, si trovava ora a governare da solo, decidendo di scegliere

come sostituto di Valente ed augusto dell’Oriente un generale trentenne, Teodosio, proclamato

imperatore nel 379.

4. La restaurazione teodosiana in Oriente

La sconfitta di Adrianopoli non costituisce uno spartiacque sol

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A.A. 2015-2016
76 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/07 Storia del cristianesimo e delle chiese

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Giacometallo di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia del cristianesimo e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Torino o del prof Filoramo Giovanni.