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CAP. 2 LO SGUARDO ANTROPOLOGICO, LO SGUARDO SOCIOLOGICO

Il percorso che l'antropologia e la sociologia hanno seguito nel definire il concetto di cultura è

caratterizzato sia da alcuni punti di incontro che da alcune divergenze. La definizione di cultura

formulata da Edwar Burnett Tylor nel 1871 era stata fatta propria dall’antropologia e si era mantenuta

identica anche nei cinquant'anni successivi. Gli oggetti di studio dell'antropologia erano

sostanzialmente le società primitive e la loro cultura. La sociologia, anch'essa nata nella seconda

metà dell'ottocento, aveva a sua volta definito come suo oggetto di studio la moderna società

industriale, con le sue strutture, la sua organizzazione capitalistica, la sua classe borghese e lo

sviluppo dei suoi insediamenti urbani. La sociologia dunque si rivolgeva al mondo nella modernità,

con una cultura già matura, ignorando tutti gli interrogativi che si erano fatti gli antropologi, alle prese

con le società primitive sul rapporto tra cultura e natura, cultura e biologia. Come afferma Geertz, la

cultura corrisponde una serie di meccanismi di controllo (come progetti, regole o istruzioni) che

servono a orientare il comportamento dell'uomo. È la cultura inoltre a differenziare l'animale uomo

dagli altri animali. Grazie al linguaggio e al pensiero, infatti, gli uomini possono formulare simboli,

gesti, disegni, suoni, parole, attraverso i quali assegnare un significato alla propria esperienza. I

simboli stessi, inoltre, permettono agli esseri umani di agire, di accumulare informazioni e di

orientarsi. Anche la trasmissione delle tecniche di sopravvivenza che negli animali avviene

geneticamente, per gli esseri umani rappresenta un fatto culturale. La cultura pertanto non si tratta

di un'eredità biologica bensì di un’eredità sociale.

I meriti principali dello studio antropologico sono stati la scoperta dell'esistenza di una cultura di

carattere primitivo e la messa al bando dell'etnocentrismo. In questo modo la cultura ha potuto

allargare i suoi confini sul piano e piste o logico fino a comprendere manifestazioni vitali che prima

non erano state individuate. Questa accezione più ricca di cultura ha di fatto determinato il

superamento della concezione tradizionale che attestava la superiorità della cultura europea e il

carattere subordinato degli altri popoli. Nonostante gli oggetti di studio dell'antropologia della

sociologia fossero molto diversi, sia il concetto di cultura che i metodi utilizzati dagli antropologi sono

stati assunti anche in campo sociologico. Ad esempio la scuola di Chicago negli anni 20-30 aveva

impostato il suo lavoro empirico relativo alla geografia urbana delle città, alle sue unità locali e ai

suoi vicinati sul modello delle ricerche sui costumi degli indiani d'America settentrionale attuate dagli

studiosi antropologi, utilizzando i loro stessi metodi di osservazione. Questo scambio tra

antropologia e la sociologia e inoltre testimoniato da una ricerca sulla religione di Durkheim del 1912.

In questo caso però Durkheim ha trasferito lo sguardo antropologico sul piano sociologico piuttosto

che applicare l'antropologia allo studio della religione. Invece di documentare, come gli antropologi,

la varietà e le differenze tra le abitudini religiose, ha cercato di rintracciare il carattere generale e

unitario del sentimento religioso selezionando i suoi tratti caratteristici.

Intorno agli anni 30, l'impegno teorico e di ricerca della sociologia sul concetto di cultura sembra

arrestarsi. Dagli anni 30 fino al 1950, infatti, il lavoro sociologico intorno al concetto di cultura rimane

sporadico; al contrario, in campo antropologico questo periodo si rivela fervido di proposte e nuove

elaborazioni. Nel 1951 viene poi pubblicato il testo di Parsons e Schils (a cui ha collaborato anche

l'antropologo Clyde Kluckhohn) dove si ha un ricongiungimento di antropologia e sociologia al fine

di definirne e precisarne i rispettivi ambiti. Cultura e società vengono considerati come dei sistemi

correlati ma che non possono essere ridotti l'uno ai termini dell'altro; la cultura in questo senso non

viene più contrapposta alla biologia ma all'organizzazione sociale. Attraverso questa

contrapposizione, le due discipline sono rese indipendenti, inoltre tra gli interessi della sociologia

viene inclusa anche la sfera della cultura, dando inizio alla sociologia culturale, mentre il campo

dell'organizzazione sociale viene mantenuto distinto dall’antropologia. La svolta più importante nella

storia delle due discipline è rappresentata però soprattutto dalla distinzione tra cultura e società, che

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permette di articolare il rapporto fra ciò che è sociale e ciò che culturale. A partire dagli anni 50

tuttavia il concetto antropologico di cultura entra in crisi per via di una ragione di ordine storico:

l'orientamento di fondo dell'antropologia, infatti, era sempre stato caratterizzato dall'interesse per le

tribù primitive, ignorando lo studio dei popoli civilizzati; nel secondo dopoguerra e negli anni

successivi, però, la società industriale, la decolonizzazione e le nuove tecniche produttive avevano

determinato a poco a poco la scomparsa delle società primitive. Agli antropologi non rimaneva

dunque che seguire il processo di trasformazione delle loro società in società che si modernizzano;

un processo simile, tuttavia, può essere compreso in maniera adeguata soltanto ricorrendo a metodi

di analisi sociologica, collegando i mutamenti del patrimonio culturale con quelli della struttura

sociale. A partire da questo momento, dunque, l'antropologia comincia a rivolgersi a nuovi campi di

analisi, interessandosi al cambiamento culturale delle società complesse.

Per quanto riguarda invece le divergenze che hanno caratterizzato i percorsi teorici e di ricerca

dell'antropologia della sociologia, fra queste vi è il cosiddetto "comportamento appreso", dove il

termine "appreso" allude a tutto quanto non è ereditato biologicamente, danda pertanto rilevanza

alla cultura rispetto alla natura. La natura trasmette i suoi geni biologicamente, gli essere umani sono

però capaci di emanciparsene elaborando storie, progetti personali per sopravvivere; in questo

senso apprendono e non ereditano. Una seconda divergenza è relativa al fatto che il comportamento

appreso sembra delimitare la pratica, l’agire umano, all'interno di un'attività di azione passiva. Lo

sguardo sociologico ha però invertito questa direzione: il fare umano, infatti, diventa un agire, un

innovare e non più una pura e semplice abitudine trasmessa. Un’altra divergenza, evidenziata da

Sciolla, è che anche la concezione di cultura come tutto integrato e distribuito uniformemente nella

comunità a cui fa capo, non si adatta all'analisi delle società moderne dal momento che queste ultime

non sono totalità omogenee, organiche come le comunità primitive studiate dagli antropologi, ma al

contrario sono caratterizzate da contrasti, differenze e contraddizioni che minano la loro coesione

sociale. Durkheim ha a questo proposito coniato il termine "anomia" proprio per definire il

disorientamento che un cambiamento sociale non metabolizzato dai soggetti induce nella

all’origine molto

convivenza civile. Gli ambiti di ricerca di sociologia e antropologia infine erano

diversi tra loro: la sociologia, ad esempio, aveva rivolto il suo interesse non soltanto alla religione

dall’antropologia), ma anche alle differenze tra gli strati sociali, gli stili di vita, le

(campo prediletto

ideologie, il rapporto tra scienza e realtà sociale.

Il relativismo culturale

L’etnocentrismo, ossia la tendenza ad attribuire illegittimamente carattere superiore alla propria

cultura, a elevarla a modello ideale e a giudicare in base ai suoi criteri tutte le altre culture, si tratta

di una concezione certamente criticabile e tacciabile di razzismo, anche se da alcuni antropologi è

stata vista come un sentimento naturale che scaturisce dalla familiarità che le persone intrattengono

con il proprio ambiente di vita. Sul piano storico, l'etnocentrismo si è affiancato all'eurocentrismo: la

civiltà europea infatti per secoli ha nutrito un atteggiamento di superiorità nei confronti delle altre

civiltà, imponendo il modello occidentale come quello ideale. Il relativismo culturale si oppone però

a questa concezione, condannando qualsiasi giudizio di superiorità o inferiorità e promuovendo la

pari dignità di tutte le culture. A questo proposito, gli esponenti del relativismo culturale sottolineano

come gli uomini possono concepire l'esistenza di altre civiltà diverse dalla propria; allo stesso tempo,

però, risulta difficile apprezzarne i valori non essendo abituati alla sua influenza. Per riconoscere

l'uguaglianza e la pari dignità delle altre culture occorre dunque, a detta di questi esponenti, molta

tolleranza. Il relativismo culturale ha in questo senso dato vita a un dibattito lungo e animato, dove i

suoi stessi sostenitori hanno precisato che la tolleranza auspicata dovesse comunque essere

regolata da precisi limiti e criteri. In questa direzione si muove ad esempio Geertz, a proposito del

problema epistemologico ed etico implicito in alcune impostazioni relativiste, come quella di Ruth

Benedict che, nel suo libro Modelli di cultura, arriva ad affermare che tutto ciò che un gruppo è incline

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a fare debba essere considerato degno di rispetto da parte di un altro gruppo. Diventa dunque

necessario distinguere tra relativismo metodologico e relativismo etico. Il primo si tratta di un

principio guida che permette di osservare e descrivere oggettivamente, senza pregiudizi, culture

diverse, in base al quale il comportamento degli individui appartenenti a una determinata comunità

va spiegato in rapporto al sistema di valori riconosciuto da questa. Fino a quando la ricerca e

l'osservazione sono in atto giudizi di valore non vengono ammessi; solo a indagine conclusa è

possibile analizzare criticamente pratiche culturali ritenute barbare e incivili, che devono essere sì

respinte, interpretandole però nel contesto storico e sociale in cui hanno avuto luogo.

La revisione critica della cultura

Negli ultimi anni si è registrato da parte degli antropologi un calo di fiducia e un’insoddisfazione

crescente nei confronti del concetto di cultura, che ha portato alcuni studiosi a chiedersi se non fosse

il caso di abbandonare il termine e sostituirlo con un altro. La nozione classica di "cultura", coniata

da Tylor, in effetti ha subito nel tempo molte modifiche: innanzitutto si è messo in discussione

l'approccio configurazionalista di Benedict che vedeva la cultura come un tutto chiuso

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Publisher
A.A. 2013-2014
55 pagine
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SSD Scienze politiche e sociali SPS/08 Sociologia dei processi culturali e comunicativi

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Valja di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bari o del prof Scardigno Fausta.