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6. VERSO UNA NUOVA EPISTEMOLOGIA DELLE PRATICHE SOCIALI
Sembra a questo punto legittimo un interrogativo: è possibile pensare ad una ricomposizione?
Ad un rapporto non più solo conflittuale, o deferente, o autoritario con il sapere? Ad una relazione
pensiero-azione, teoria-prassi fatta di scambi ed influenze reciproche? Secondo l’autrice, occorre
partire dalla convinzione che ricomporre frammenti di conoscenza e di azione significa riconciliarsi
con la Si tratta di liberarsi dall'illusione che il pensiero semplificante offra il dominio
complessità.
e il controllo del reale, poiché i processi di semplificazione inevitabilmente riducono, censurano,
eludono aspetti della realtà, che non potrà essere colta nel suo globale, ma negli aspetti specifici che
abbiamo isolato e selezionato. Si tratta di aprirsi e formarsi ad una conoscenza complessa in grado
di produrre un pensiero complesso, intendendo con questo termine non già la esaustività e la
48
completezza del conoscere ma, al contrario, un pensiero che riconosca in sé sempre presente un
principio di incompletezza e incertezza.
«Il pensiero complesso è animato da una tentazione permanente tra l'aspirazione ad un
sapere non parcellizzato, non riduttivo, non diviso in compartimenti ed il
49
riconoscimento dell'incompiutezza e dell'incompletezza di ogni conoscenza» .
Ciò significa, però, operare un cambiamento non facile e non privo di difficoltà: si tratta, per
ognuno di noi, di dover abbandonare Ia conoscenza cosiddetta «scientifica», per entrare
nell'insicurezza di un «discorso» conoscitivo più complesso. Cioè occorre dis-apprendere il nostro
rapporto col sapere; un rapporto fondato sulla certezza offerta da categorie che sembrano esaustive,
concetti esemplificativi e generalizzabili per apprendere a che fa
pensare un pensiero complesso
suo il motto di Adorno «la totalità è la non-verità». Ossia un pensiero che racchiude in se il
riconoscimento di un principio di incompletezza e di incertezza, di unità e di integrazione e dove
l'illusione di possedere «verità» complete e valide una volta per sempre, lascia il posto alla
consapevolezza che ogni teoria esprime una sua nozione di validità che va individuata per
interpretarne il contenuto e che, a rigore, nessuna di esse è in sé buona o cattiva e neanche
intrinsecamente vera.
1. LA CONOSCENZA SOCIALE TRA COMPRENSIONE ED ESATTEZZA
Questa idea di complessità è, secondo l’autrice, contenuta in quelli che sono stati (e sono
tutt'ora), considerati i principi fondanti e caratterizzanti la pratica sociale seppur, come ha già
sostenuto, non sono stati sorretti da percorsi metodologici e di pensiero in grado di dar loro
concretezza nella prassi. Il paradosso e l'ambiguità di prescrizioni quali ad esempio «favorire
l'autodeterminazione dell'utente», o «aiutare l'utente alla consapevolezza...», o ancora «non
giudicare l'utente», sta, non tanto nel loro contenuto certamente accettabile, ma nel fatto che esse,
più spesso, non sono supportate da una formazione che consenta all'operatore di attuarle realmente.
Prescrivere, infatti, l'analisi imparziale dì una domanda o di un bisogno, non comporta
automaticamente l'effettiva imparzialità dell'operatore, ma lo pone certamente nella condizione di
poter e dover essere imparziale pur nell'incertezza rispetto al «come». Ad esemplificazione di
queste considerazioni l’autrice esaminerà ora alcuni dei principi ritenuti specifici e fondanti il
servizio sociale tentando di coglierne un significato più complesso rispetto alle semplificazioni che
ne sono state date; la conoscenza psicoanalitica è il quadro concettuale entro il quale l’autrice ha
tentato di collocare la sua analisi:
49 E. Morin, in Sfera n. 18, Sigma Tau, Roma, 1991
Introduzione al pensiero complesso, 49
— è questa una delle prime indicazioni metodologiche che
concezione globale del bisogno,
viene indicata all'assistente sociale senza peraltro meglio specificare cosa e come intendere la
globalità che, spesso, ha finito con l'essere interpretata come totalità. Possiamo invece pensare che i
bisogni, qualunque sia la loro origine e la loro natura, hanno risvolti tanto nella sfera sociale e
relazionale, quanto nella sfera affettiva ed emotiva di ogni persona. In questa prospettiva ogni
situazione di difficoltà e bisogno presenta sempre una «duplicità di contenuto»: un contenuto che fa
esplicito riferimento alla realtà sociale e un contenuto che fa riferimento, più spesso in maniera
implicita, alla realtà psichica. Il primo è ciò che si può vedere o ascoltare nelle situazioni e nelle
richieste che l'utenza formula al servizio; il secondo è legato ai sentimenti che sempre
accompagnano e clrn queste situazioni e queste richieste. Il primo è manifesto; il secondo è latente.
Entrambi, tuttavia, contribuiscono a definire e strutturare ogni specifica situazione nella sua
globalità fatta di oggettivo e soggettivo; è tenendo sempre presente questa natura composita, cioè
globale dei problemi che l'operatore sociale deve lavorare. L'utente deve sentirsi libero di poter
esprimere il suo problema così come lo vive e lo sente, e non essere indotto a presentarlo in
un’ottica particolare: medica, economica, psicologica...
Così, ad esempio, di fronte alla richiesta manifesta, ossia concreta, di un sussidio economico
da parte di un capo famiglia, occorre considerare anche gli effetti che questa situazione può aver
provocato sulla percezione di sé come persona che vive in un contesto sociale, come marito, padre,
cittadino, ecc. In questa prospettiva globalità non significa totalità, cioè intervenire in maniera
Spesso
massiccia su tutto l'ambiente di vita della persona (famiglia-lavoro-vita di relazione...).
questi interventi hanno generato e generano confusione, paura, aggressività con esiti di
allontanamento e fuga, perché più spesso vengono proposti ed attuati come «offerta» di un servizio
che l'utente deve accettare come necessari. Interventi come la visita domiciliare, la compilazione di
particolari moduli, gli incontri con ì datori di lavoro, il coinvolgimento di altre figure familiari...
spesso vengono proposti perché quel particolare servizio ha strutturato un certo iter dell'intervento
trasformando, nella routine quotidiana, preziosi strumenti di lavoro in prassi burocratiche.
Se al contrario, ci poniamo all'interno di un altro punto di vista considerare il bisogno nella
sua globalità significa, per la Cellentani, aprire uno spazio e un tempo di ascolto e
comprensione a realtà che si propongono composite nei loro contenuti manifesti e latenti,
senza frammentare questa unitarietà in una visione specialistica dei processi;
— questa seconda indicazione metodologica
concezione non individualistica dell' intervento:
è stata spesso giustificata come necessaria poiché l'individuo è sempre inserito in un contesto
in questa prospettiva spesso
sociale che può condizionarlo favorevolmente o sfavorevolmente;
vengono coinvolti nell'intervento i soggetti cosiddetti «significativi» che fanno parte del contesto
sociale di una persona senza considerare che si vanno a toccare legami e relazioni, più spesso
50
complesse e conflittuali, senza essere poi veramente in grado di comprenderle o di utilizzarle in
vista di un cambiamento. Così, se possiamo condividere l'idea dell'uomo come «animale sociale»
che non può, come dalla concezione aristotelica, fare a meno degli altri per la sua sopravvivenza sia
50 , non è
fisica che psichica, dobbiamo però considerare che l'altro», come ci ha insegnato Freud
solamente colui che è presente al di fuori di noi, ma, essendo «... regolarmente presente come
modello, come oggetto, come aiuto o avversario...» è anche dentro di noi, nelle rappresentazioni che
di lui abbiamo costruito. Più spesso nei servizi, ad es., si «prende in carico» il minore, o si decide
per un allontanamento dal gruppo familiare senza farsi carico di come la sua esperienza familiare è
stata da lui interiorizzata e di come può condizionare qualunque altra esperienza familiare; altre
volte un operatore (in genere lo psicologo), si assume il compito di lavorare su questi aspetti
«interni», mentre l'assistente sociale si assume quello di occuparsi dei cosiddetti fattori della realtà,
o «esterni», come se «interno» ed «esterno» fossero due mondi assolutamente distinti e
ricongiungibili grazie ad un buon lavoro di equipe.
Pensare a un intervento per la persona considerando questo intreccio individuale/sociale
significa considerare che ogni singola storia è ricca e intrisa di legami che presentano, in ogni caso,
la doppia faccia del vincolo e del sostegno, della comprensione, della potenzialità e del conflitto.
— se la burocratizzazione è uno dei rischi a cui
favorire l'autodeterminazione dell'utente:
può andare incontro l'azione dell'operatore sociale in un sistema socio-assistenziale, ce n’è un altro
molto più insidioso e presente. L’autrice si riferisce a ciò che si definisce cioè
«assistenzialismo»,
quella situazione nella quale l'intervento che si propone a una persona in difficoltà, piuttosto che
aiutarla ad uscire dallo stato di bisogno ne avalla e consolida le caratteristiche. Sono le situazioni in
cui la domanda e l'offerta si «cronicizzano» all'interno di percorsi di incontro e comunicazione
stereotipate e ripetitive. Tutto si svolge all'interno di un rapporto dominato dalla dipendenza.
Quella della persona dal servizio vissuto come una realtà che dispensa soluzioni (illusorie) che non
mettono troppo in difficoltà, e quella del servizio dall'utenza che, con le sue richieste sempre uguali
e l'accettazione passiva della risposta, sembra confermare la validità e l'efficacia dell'offerta.
Al contrario, la risoluzione dello stato di bisogno implica, necessariamente, la risoluzione
dello stato di dipendenza che esso sempre produce; ciò significa che la dipendenza è sempre parte
integrante della situazione di bisogno. Chi è in difficoltà e chiede aiuto vive in una situazione intrisa
di dipendenza: dal bisogno che condiziona la sua esperienza e da colui che lo deve aiutare.
È un rapporto difficile quello tra aiut