6. LA NATURA RELAZIONALE DEI PROBLEMI SOCIALI
Gli operatori sociali si devono occupare di individui concreti, non di astrazioni
sociologiche o di aggregati impersonali. Questo vincolo, per quella debole
scienza che è il lavoro sociale, di cui non si sa neppure con certezza se esista
o no, risulta una delle poche nozioni chiare. Da qui in avanti cercheremo di
incamminarci per una migliore comprensione delle “difficoltà di vita”, lungo la
terza via tra il modo di pensare psicologico e quello sociologico, e i rispettivi
modi di agire, terza via che a noi sembra essere appunto il lavoro sociale. In
questo capitolo consideriamo il punto di partenza di ogni intervento sociale,
cioè il problema sociale.
Nessun problema sociale esiste in sé stesso: è necessario un atto di
valutazione per renderlo tale e gli atti di valutazione scattano quasi sempre al
di là della consapevolezza.
ES. vedo una persona barcollante in mezzo alla strada e questo può far
scattare attribuzioni di causa, ad esempio quello barcolla perchè ha bevuto
troppo vino; quindi, fin dall’inizio, io percepisco un ubriaco. Schutz definisce
questo meccanismo della mente “tipificazione” : nelle sue argomentazioni
questo è alla base del modo in cui la realtà oggettiva diviene fenomeno, cioè
appare alla mente come percezione o come conoscenza soggettiva.
Dal punto di vista del soggetto che percepisce, è comprensibile che egli possa
vedere solo la realtà fuori di lui, mentre invece rimanga ignaro del proprio
psichismo che concorre a generarla. Cioè, ammettiamo che la tipificazione
abbia funzionato, cioè che l’uomo sia veramente ubriaco, quindi vi sia una
giusta corrispondenza tra categoria mentale e realtà oggettiva. Ma con
questo, si può dire che c’è un problema?
Bisogna distinguere, per poter rispondere, una prima questione: problema di
che tipo?
Ogni dato che percepiamo si può tramutare in un problema sulla base di due
di ordine morale e di
diversi tipi di valutazione da parte dell’osservatore:
ordine tecnico.
Costruzione di un problema secondo il codice morale
Una valutazione di ordine morale scatta quando il giudizio che informa la
percezione riguarda il bene o il male attribuiti ai dati della realtà in cui
l’osservatore diviene consapevole. Il problema ovviamente presuppone una
valutazione negativa, cioè una realtà contrassegnata dal male, vissuta anche
come disprezzabile o riprovevole. La colpa attribuita a qualcuno, così come il
senso di colpa interiorizzato da qualcuno, è un evento sociale: l’osservatore
quando colpevolizza, classifica un dato di realtà in una casella mentale che
molto probabilmente è condivisa. (es. abuso di alcol: è facile trovare l’accordo
sul fatto che sia utile contenerlo). Può succedere che due osservatori, davanti
allo stesso dato vedano problemi diversi, per una diversa percezione
oggettiva della realtà; oppure potrebbero vedere l’uno un problema e l’altro
nessun problema. La stessa cosa può accadere nella stessa persona in
momenti differenti.
Anche quando di fronte ad un problema c’è un operatore sociale, ci può
essere una valutazione morale. L’operatore professionale viene immaginato
spesso come tecnico asettico, ma anche lui è una persona ed è forzato
inconsciamente a definire i problemi attraverso sentimenti morali. Ovviamente,
per un operatore scatta l’obbligo deontologico di astenersi dal moralismo, cioè
dall’ incolpare qualcuno; tuttavia non sempre è facile riuscirci e poi un po’ di
rabbia o tensione contro la situazione è forse necessario per ogni intervento
che sia umanamente sensato, non solo tecnicamente corretto.
Costruzione di un problema secondo il codice tecnico
L’operatore esperto, oltre al codice morale, che fa da base per far nascere
problemi nella sua mente, ha anche il codice tecnico. Di fronte alla persona
che barcolla un operatore potrebbe vedere il problema non come sentimento
di rabbia o fastidio, ma come una “fredda” constatazione di un
disfunzionamento, quello che nel linguaggio tecnico si chiama diagnosi.
Diagnosticare = individuare una patologia o una disfunzione. Quindi una
disfunzione, che non sempre è chiara in sé, ma che ha bisogno di
ragionamento e metodo per identificarla.
Di fronte all’uomo barcollante un clinico può vedere un alcolizzato, cioè uno
stato di dipendenza psicofisica dall’alcol. Nel campo della medicina la realtà
delle patologie ufficialmente codificate è innegabile; ma resta il fatto che ogni
patologia medica è susseguente a definizioni, ovvero se nessuno la definisce,
una patologia non esiste o è come se non esistesse Viceversa, se qualcuno la
definisce, la patologia c’è anche se non esiste (es. ipocondriaco).
Allontanandosi dalla medicina per introdursi nella diagnostica psicologica o
sociale diventa più difficile definire che cosa sia un disfunzionamento in sé.
Si può dire che il problema sociale non esiste in sé, bensì il suo status
dipende dal giudizio, non da una realtà di fatto.
Tutto questo significa che l’operatore sociale, così come il comune
osservatore, vede e non vede, vede troppo o troppo poco. L’osservazione e la
definizione dei problemi sono a loro volta un problema: sembra che i problemi
siano oggettivi e che chi li guarda non c’entri niente con la loro esistenza. Il
più delle volte in pratica è così, ma dal punto di vista logico bisogna pensare a
due cose:
- in realtà ci potrebbero essere molti più problemi di quelli che vedono gli
operatori
- gli operatori potrebbero vedere dei problemi, che non lo sono se
considerati da ottiche diverse di osservazione.
Relazioni tra esperto e osservato
Schutz ha delineato delle distinzioni concettuali che hanno importanza
analitica: ha affermato che il senso dell’azione può non essere lo stesso per il
soggetto agente nel corso dell’azione e ad azione compiuta, né può essere lo
stesso per l’eventuale interlocutore, nè per colui che osserva l’azione
dall’esterno.
Se l'operatore decidesse di fare qualcosa per risolvere quel problema che lui
crede esistere per certo oggettivamente, potrebbe fare un errore
professionale: credere che il problema c’è siccome lui vede che c’è. Ciò che
l’esperto vede essere la realtà di partenza, cioè il problema, dell’intervento
sociale è un’idea sbagliata. Ovviamente non bisogna sottostimare la potenza
della presa in carico professionale.
Un evento o una configurazione di eventi può dirsi problema sociale quando
alla sua costruzione concorrono congiuntamente:
a) l’osservatore
b) chi fa l’azione
c) o chi la subisce o vi è in contatto
Nel caso dell’intervento sociale, vi deve essere congiunzione tra
a) operatore
b) utente designato
c) i suoi significativi
Oppure, in generale, ci deve essere congiunzione tra l’operatore e tutti i suoi
interlocutori d’azione.
Anche se il problema sarà visto o concepito in modo diverso da ogni soggetto,
il senso che esiste un problema deve essere comune
Condivisione duale operatore/utente
Il problema dell’utente deve anche diventare il problema dell’operatore, e
viceversa, affinché il problema sia di tutti e due. E’ importante che l'operatore
agisca su un problema non prima di essersi collegato al vissuto di chi
quell’intervento è destinato a riceverlo. La base di partenza per una relazione
di aiuto è che l’aiuto sia portato solo quando l’operatore comprende la
persona e il problema come questa lo vive.
Questa intuizione va oltre l’empatia, la quale ha anche un’altra faccia: il
problema dell’operatore deve diventare il problema dell’interessato.
Occorre poi anche che l’utente abbia una visione della sua difficoltà come si è
formata nella testa dell’operatore.
Un lavoro che paradossalmente è finalizzato a creare il problema.
Ovviamente, creare un problema condiviso significa creare condizioni migliori
per la soluzione.
L’interconnessione mentale tra esperto e utente è un processo molto delicato,
che va governato con perizia: l’esperto dall’esterno vede tutto, l’interessato,
quando il problema è in lui, spesso non vede nulla come nel caso della
dipendenza. Per cui, l’esperto deve riflettere o riformulare le affermazioni
dell’interessato che segnalino anche una minima sua consapevolezza → le
affermazioni di autoconsapevolezza arrivano alla coscienza dell’operatore,
che li riconosce, li ricompone in altre parole e li rinvia. Questi prodotti della
coscienza dell’operatore ritornano all’interessato nelle formule di counseling,
tipo “lei mi sta dicendo..”. In questo modo la consapevolezza del problema si
rafforza nella coscienza della persona dopo essere uscita da lei e tornata
riflessa con le parole dell'operatore.
Condivisione multipla operatore/ interessati
Il lavoro sociale si manifesta anche quando la base di condivisione è più
allargata. Una base di condivisione allargata significa che la stessa
consapevolezza comune del problema che vi è tra esperto e interessato,
dovrebbe realizzarsi con quante più persone possibili coinvolte negli eventi.
Una dinamica a tre, che Marian Barnes chiama “three- way process”
costituisce una base migliore e comunque necessaria per l’intervento di aiuto
non clinico.
Ci sono casi in cui per esempio il problema lo possono vedere l'operatore e i
familiari dell’interessato, ma non quest’ultimo.
Ogni volta che la consapevolezza del problema è parziale, occorre lavorare
per creare il problema come fatto sociale.
La variante del controllo
A volte l’operatore agisce non per sua attitudine o per suo discrezionale
mandato, ma deve agire tassativamente per superiori esigenze di benessere
collettivo. Vi sono delle situazioni in cui l’assistente sociale deve avviare dei
procedimenti anche contro la percezione o il sentimento degli interessati. In
questo caso vi è una rottura della regola della condivisione; se questa rottura
è completa, si dovrebbe parlare di un problema tecnico-amministrativo,più che
problema sociale.
L’essenza del problema sociale: insufficienza d’azione
Un problema sociale è un insieme di percezioni e valutazioni di inadeguatezza
o difficoltà, cioè vissuti connessi a dati o circostan
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