Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Scarica il documento per vederlo tutto.
vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
legge. LA GIURISDIZIONE ORDINARIA NEI CONFRONTI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
I criteri accolti per il riparto fra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa
Dopo la legge del 1889, la previsione di 2 ordini di giurisdizioni per la tutela del cittadino nei confronti
dell’amministrazione, ha fatto sì, che la giurisprudenza (principalmente della Cassazione, in virtù del suo ruolo
di giudice dei conflitti di giurisdizione) ricercasse regole certe per il riparto delle competenze tra giudice
ordinario e Quarta sezione:
a) inizialmente la giurisprudenza prospettò il criterio del petitum. Secondo tale elaborazione, il dato
caratterizzante della giurisdizione amministrativa era il potere di annullamento dell’atto impugnato;
pertanto nel caso di atto lesivo di un diritto soggettivo, la Cassazione riteneva di poter ammettere la
possibilità per il cittadino (che normalmente, per tutelare il diritto soggettivo, si doveva rivolgere al
giudice ordinario) di ricorrere al giudice amministrativo per ottenere l’annullamento dell’atto (così,
peraltro, si rimediava al divieto imposto al giudice ordinario di annullare gli atti amministrativi).
Si permetteva, dunque, la possibilità di trattare i diritti soggettivi come interessi legittimi: del resto, i
diritti soggettivi sono posizioni più garantite degli interessi legittimi e, quindi, possono essere fatti valere
anche come interessi legittimi al fine di usufruire della relativa tutela.
Questa teoria perse presto importanza: da un lato si rilevò che interessi legittimi e diritti soggettivi
siano posizioni distinte “qualitativamente” (e non in termini di maggiore o minore tutela); dall’altro fu
osservato che la teoria apriva la strada ad una doppia tutela, nel senso che la stessa posizione soggettiva
del cittadino poteva essere fatta valere, sia alternativamente che cumulativamente, davanti ai 2 giudici
(ordinario e/o amministrativo), situazione incompatibile con l’esigenza di una oggettiva distinzione tra le
giurisdizioni [tuttavia, nel caso delle vertenze edilizie il proprietario pregiudicato dalla costruzione del
vicino può agire innanzi al giudice amministrativo impugnando il permesso di costruire e innanzi al
giudice civile ai sensi dell’art. 872 del cod. civ.; non è un caso di doppia tutela, poiché qui il vicino è titolare
di 2 posizioni soggettive (l’interesse legittimo alla regolarità del permesso di costruire e il diritto
soggettivo della tutela della sua proprietà limitrofa) e può agire per tutelarle entrambe, secondo le regole
proprie di ciascuna];
b) si è fatta strada, allora, la tesi della causa petendi, secondo la quale la controversia spetta al giudice
amministrativo se è fatto valere un interesse legittimo e al giudice ordinario se è fatto valere un diritto
soggettivo. Il problema era, però, quello di capire, in ciascun caso concreto, se il cittadino intendesse far
valer un interesse legittimo o un diritto soggettivo.
26
A questo proposito, fu proposta la c.d. teoria della prospettazione, secondo la quale si dà rilievo a
ciò che il ricorrente afferma di voler far valere negli atti introduttivi del giudizio. Tale teoria è stata però
criticata in quanto finirebbe con il rimettere la scelta del giudice al ricorrente;
c) la tesi accolta dalla Cassazione è stata quella del c.d. petitum sostanziale, per cui, ai fini del
riparto di giurisdizione, non rileva la prospettazione della situazione giuridica operata dalla parte, ma
l’effettiva natura di tale posizione, valutata da parte del giudice.
Anche questa conclusione ha posto alcuni problemi:
- in primo luogo, la valutazione della situazione giuridica è preliminare rispetto al giudizio
di merito e, quindi, il giudizio sulla stessa sarebbe caratterizzato da una certa astrattezza;
- in secondo luogo, l’insussistenza del diritto soggettivo, ove sia stato adito il giudice
ordinario, comporta una pronuncia di rigetto della domanda per infondatezza della
stessa, mentre il giudice amministrativo, che rilevi la carenza di interesse legittimo, è
solito dichiarare l’inammissibilità del ricorso (per difetto di giurisdizione), invece di
respingerlo perché infondato.
Evidentemente, nonostante l’adozione del criterio del petitum sostanziale non si è ancora formato un
orientamento unitario dei 2 ordini di giudici in merito alla verifica e alla rilevanza della giurisdizione.
I limiti interni della giurisdizione ordinaria nel processo di cognizione
I limiti interni all’attività del giudice ordinario (nei confronti dell’amministrazione) sono espressi dall’art. 4
della legge di abolizione del contenzioso amministrativo, che vieta al giudice ordinario di revocare o
modificare l’atto amministrativo. Tale limite è stato inteso nel passato in modo estensivo, per cui si riteneva
che:
il giudice ordinario non potesse modificare o revocare qualunque atto dell’amministrazione che non
fosse riconducibile al diritto privato;
in altre occasioni si ritenne che il predetto divieto significasse impossibilità per il giudice ordinario di
assumere qualsiasi decisione che potesse avere incidenza effettiva sull’attività amministrativa.
a) Una prima riflessione sull’argomento, riguarda la nozione di atto amministrativo: in un primo tempo
si ritenne che si dovesse intendere qualsiasi atto dell’amministrazione posto in essere nell’interesse
pubblico; per cui, per atto dell’amministrazione (salvaguardato dalla possibilità di annullamento del
giudice ordinario) andavano intesi sia i provvedimenti amministrativi, sia i comportamenti materiali
posti in essere dall’amministrazione per interesse pubblico (anche quelli taciti, come il non fare
qualcosa nell’interesse pubblico). Questa interpretazione fu inizialmente accolta dalla Cassazione
ma, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, non fu più ritenuta accettabile.
Si ritenne, infatti, che il divieto di annullamento per il giudice ordinario potesse riguardare
solo gli atti amministrativi espressione del “potere” dell’amministrazione conferito dalla legge e non,
invece, l’amministrazione in quanto tale; “laddove, pertanto, l’amministrazione non eserciti un
potere conferitole dalla legge, ma eserciti altre facoltà, nessun limite è posto al giudice ordinario,
perché altrimenti si configurerebbe per l’amministrazione una situazione di privilegio processuale in
contrasto con i principi costituzionali”.
L’ambito della garanzia dell’atto amministrativo, rispetto al potere del giudice ordinario, è
individuato dal principio di legalità. Nello stesso modo qualora per un grave vizio (mancanza di
elementi essenziali, o difetto assoluto di attribuzione) l’atto sia nullo, esso non potrà essere
considerato espressione di un potere dell’amministrazione e, quindi, nessun limite sarà imposto al
giudice ordinario. In conclusione i limiti interni non riguardano tutto ciò che non sia diritto privato,
ma vanno circoscritti a tutto ciò che, in base alla legge, sia espressione di un potere pubblico;
b) la questione dei limiti interni della giurisdizione civile è stata affrontata anche con riferimento alle
tipologie di sentenze che il giudice ordinario può emettere contro l’amministrazione. Anche in
questo caso i limiti posti dall’art. 4 (legge di abolizione del contenzioso amministrativo) sono stati
interpretati estensivamente: si riteneva che il giudice ordinario non potesse emettere sentenze per
la cui esecuzione l’amministrazione fosse tenuta a svolgere una attività amministrativa.
In questa logica il giudice ordinario poteva emettere solo sentenze di mero accertamento
(che si limitano ad accertare una situazione giuridica e quindi non implicano da parte del giudice una
27
attività che possa incidere sugli atti dell’amministrazione) e di condanna al pagamento di somme di
denaro (che riguardano un dare fungibile e che comunque non possono essere escluse, altrimenti il
cittadino non avrebbe garanzia nei confronti dell’amministrazione).
Le altre sentenze di condanna (a un “dare”, a un “facere”, a un “pati”) sarebbero, invece,
precluse al giudice ordinario perché la loro esecuzione richiederebbe da parte dell’amministrazione
l’esercizio di una attività amministrativa qualificata. Per il fatto che potessero comportare una
sostituzione del giudice ordinario all’amministrazione nel compimento di attività proprie, furono
escluse anche le sentenze di tipo costitutivo.
Tale interpretazione però contrastava con i principi costituzionali che sanciscono la pienezza
della tutela dei diritti dei cittadini nei confronti dell’amministrazione. Avanzò, pertanto, la
convinzione della Cassazione secondo cui, laddove l’amministrazione non avesse esercitato un
potere in senso stretto (es. quando opera nel campo di diritto privato o nelle attività senza titolo
come le occupazioni di fatto), il giudice potesse quel tipo di sentenza (di condanna o costitutiva) più
idonea per la tutela del diritto fatto valere in giudizio.
Questo orientamento è stato accolto dal legislatore, ad esempio, per i giudizi di lavoro alle
dipendenze dall’amministrazione, nei rapporti privatizzati, per i quali l’art. 63, d.lgs. n. 165/2001
consente al giudice di adottare, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, “tutti i provvedimenti,
di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati”.
In conclusione, l’attività amministrativa non soggetta al principio di legalità non può avvalersi
del privilegio desunto dall’art. 4. Esclusa, quindi, la possibilità che la sentenza possa avere come
contenuto l’intervento su un provvedimento amministrativo, per il resto il giudice ordinario può
pronunciare qualunque tipo di sentenza ed assumere anche gli altri provvedimenti previsti dalla
legge (ad es. provvedimenti di urgenza o misure possessorie); non importa nemmeno che la sentenza
possa comportare per l’amministrazione esercizio di una propria attività (si pensi al caso in cui
l’amministrazione sia stata condannata a demolire una costruzione realizzata senza titolo su suolo
altrui), poiché l’esercizio di detta attività amministrativa si configura come attività interna e
meramente strumentale per l’adempimento della prestazione.
Alcuni casi concreti:
■ sentenze costitutive ai sensi dell’art. 2932 c.c.: è stato a lungo escluso che il giudice ordinario
potesse emettere queste sentenze nei confronti dell’amministrazione che non avesse dato
esecuzione ad un contratto preliminare, sulla base della convinzione che la stipulazione del contratto
definitivo avrebbe comportato