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LOMBARDO, LIBRO CONSIGLIATO - TRA POESIA E PHYSIOLOGIA. IL
SUBLIME E LA SCIENZA DELLA NATURA. - GIOVANNI LOMBARDO
Un giudizio di Galilei su Dante: Nel 1588, invitato a pronunciarsi sul sito, la
forma e la misura dell’Inferno dantesco, un giovane Galileo la definisce
sublime perché vi coglie il frutto di «una mens al tempo stesso poetica e
matematica ovvero di un ingegno capace di fondere rigore e fantasia. E’
ancora uno scienziato tolemaico, fedele alla cosmologia tradizionale e pronto
a celebrare il «divino» Platone. Franco Brioschi ha recentemente ricordato
che il Galilei maturo avrebbe riconsiderato la concezione pitagorica e
platonica del numero come principio ordinatore del mondo su basi
sperimentali lontane dalla metafisica antica e dal simbolismo medievale. È la
fiducia in un rapporto di reciproca implicazione tra numero e armonia, ciò che
accomuna il rinascimentale Galileo al “gotico” Dante. Lungi dal separare l’arte
dalla scienza, la lettura di Galileo intendeva infatti custodire, come sottolinea
Brioschi, l’unità del sapere tipica del Cinquecento. La “critica topografica”
galileiana può trovare un antecedente autorevole in quel famoso trattato Perì
hýpsous (Sul sublime) in cui si riconosce il più stretto punto di convergenza
tra la poetica antica e l’estetica moderna.
Sublime degli antichi e sublime dei moderni: Uno schema piuttosto
ricorrente nella storia delle idee estetiche distingue il sublime degli antichi dal
sublime dei moderni. Se il sublime antico ha un accento prevalentemente
retorico, il sublime moderno ha invece un accento prevalentemente filosofico,
che definisce un certo tipo di rapporto tra l’uomo e la natura. Nella cultura
moderna grazie all’accelerazione nel 600 del passaggio da una concezione
dell’universo come uno spazio finito a una concezione dell’universo come
spazio infinito, il sublime viene a tradurre il sentimento della grandezza del
testo ed il sentimento della grandezza del mondo. Così, soprattutto a partire
dal sec. XVIII, si afferma un nuovo sublime “naturale” (Burke e Kant) che
affianca e poi soppianta il vecchio sublime, nel frattempo rilanciato da
Boileau, autore nel 1674 della celebre traduzione francese del Perì hýpsous.
Certo, Longino non aveva ignorato la possibilità di un sublime naturale: e
anzi, collegando l’esperienza dell’innalzamento (hýpsos) emotivo e
intellettuale all’impressione suscitata dai grandi fiumi, dalle eruzioni
vulcaniche, ecc, aveva mostrato come il sublime potesse emergere anche
dalla natura, ora con i tratti dell’imprevedibile e del terribile ora con i tratti del
vasto e dell’indefinito. L’afflato cosmico del cap. 35 del Perì hýpsous potrebbe
spiegarsi come la risposta di Longino a un desiderio di superare i limiti
radicato nello spirito umano. Studi più recenti hanno dimostrato che, nella
cultura greca e latina, l’idea di un sublime naturale in realtà si esprimeva
attraverso la poesia ispirata dalla physiología, cioè dalla scienza della natura.
Poesia e physiología: Aristotele addita, nella Poetica, tre criteri per
distinguere le arti in quanto attività mimetiche: il criterio del mezzo, il criterio
dell’oggetto e il criterio del modo imitativo. Mediante questa distinzione vuole
denunciare l’inadeguatezza di quelle classificazioni tradizionali che si fondano
sulla differenza tra il verso e la prosa o sulla scelta del metro. Tale è l’affinità
tra Omero ed Empedocle, studioso della natura (physiólogos) cui viene
ḗ
riconosciuto il titolo di poeta (poiet s) solo perché, come Omero, ha
composto la sua opera in esametri. I trattatisti posteriori annoverano anche la
physiología nel repertorio dei temi atti a rendere nobile e grandiosa la poesia.
Così Demetrio, ma anche Cicerone, che affianca ai soggetti grandi per
convenzione (l’amore dovuto agli dèi, alla patria, ai genitori; l’affetto per i
fratelli, le spose, i figli; ecc) i soggetti grandi per natura (gli eventi celesti e
divini, le cose di origine oscura, le meraviglie della terra). Ermogene (160-225
d.C.) distingue: gli dèi in quanto tali (il demiurgo del Timeo platonico); gli dèi
cause dei grandi fenomeni naturali (le stagioni, i movimenti della terra e del
mare, etc.); gli dèi in quanto origine di cose osservabili, per lo più, solo
nell’uomo (l’immortalità dell’anima, la giustizia, la saggezza); gli uomini in
quanto attori di imprese gloriose (le battaglie di Maratona, di Platea e di
Salamina).
Il sublime fra terra e cielo: A parere di Longino, possono rientrare fra i temi
sublimi le gloriose gesta degli dèi e degli eroi, i motivi propri della physiología
e i fenomeni impressionanti della natura: l’Oceano, i fuochi celesti e le
eruzioni vulcaniche. Nel cap. 9, dopo avere enunciato la famosa definizione
del sublime come «l’eco di una grande mente», Longino adduce una serie di
esempi relativi alla prima fonte del linguaggio elevato (hypsēgoría): l’altezza
delle concezioni, «lo slancio ferace dei pensieri». La grandezza degli dèi è
illustrata da quattro riferimenti omerici (lo smisurato accrescersi della
Discordia, il salto panottico dei cavalli di Hera, fragore di una teomachia che
sgomenta il Tartaro, il sussulto dell’incedere maestoso di Posidone) e da un
riferimento biblico (il fiat lux della creazione). In tali passi la potenza del
sovrannaturale esplode e tradisce il desiderio longiniano di produrre esempi
poco convenzionali. Consideriamo i primi due passi omerici introdotti da
Longino, a proposito del sublime collegato alla grandezza degli dèi: uno
relativo a Eris, Discordia, e l’altro relativo ai cavalli di Hera. Comune ad
entrambi è il motivo della distanza tra la terra e il cielo. La figura di Eris, che
in brevissimo tempo, cresce fino a giganteggiare tra la terra e il cielo, ci
trasmette, secondo Longino, la misura (métron) dello slancio intellettuale di
Omero. Il termine con cui Longino definisce qui la straordinaria statura della
Discordia e, insieme, dell’ingegno poetico di Omero è diástēma, «distanza»
ovvero «intervallo». Questo stesso termine ritorna in un’altra grandiosa scena
in cui Omero uguaglia l’aerea falcata dei corsieri di Hera, lanciati in volo tra il
cielo e la terra, allo spazio percepito da un uomo intento a scrutare l’orizzonte
da una vedetta a picco sul mare. Prima l’universo suscitava l’ammirazione
sublime del suo vertice eccelso (l’ouranós, il cielo), ora suscita il terrore, non
meno sublime, dell’infera sede di Ade. Come il Galilei anche per Longino il
sublime è una categoria applicabile tanto al diástēma tra la terra e gli astri
quanto al diástēma tra la terra e gli abissi. Chi come Longino ravvisa la
qualità di un testo nello scatto dello hyperphyés, dell’anelito soprannaturale
che dichiara la grandezza di un poeta, non ha bisogno di stemperare in
un’intenzione simbolica la descrizione omerica del Tartaro. Conscio della
novità del suo approccio interpretativo, Longino ammette che la sensibilità
morale di alcuni lettori possa essere urtata dall’assumere un testo solo per il
valore letterario.
La critica “sferopoietica”: Contemporaneo di Aristarco di Samotracia (217-
145), Cratete fu il primo direttore della Biblioteca degli Attalidi a Pergamo.
Intendendo distinguere il proprio metodo, volto a conciliare filologia e filosofia,
da quello degli alessandrini, egli volle chiamarsi kritikós piuttosto che
grammatikós («studioso delle lettere»). Aristarco fu soprannominato
ṓ
grammatik tatos, «letterato superlativo». Il termine kritikós in epoca
preellenistica riassumeva genericamente le competenze poi confluite nel
grammatikós. A partire dal II sec. a.C., negli ambienti pergameni, il kritikós è
uno specialista dell’analisi letteraria che si distingue per l’attitudine filosofica o
per una sensibilità stilistica molto attenta ai fattori eufonici. Cratete adottò
un’interpretazione allegorica dei testi fondata sulle nozioni di sphairopoiía e di
sphairikòs lógos. La sphairopoiía alludeva alla «fattura sferica» dell’universo,
mentre lo sphairikòs lógos costituiva una «teoria della sfericità» applicabile a
Omero. Cratete sosteneva infatti che la descrizione iliadica degli scudi da
guerra (di Agamennone e soprattutto di Achille) era una imago mundi:
attraverso la circolarità degli scudi, il poeta era riuscito a rappresentare
simbolicamente e su un piano bidimensionale la sfericità del cosmo. Cratete
arrivava anche ad affermare che le zone concentriche degli scudi (dieci
Agamennone, cinque Achille) erano una rappresentazione analogica dei
cerchi celesti. Stando alla testimonianza di Eraclito, Cratete cercava di
estrarre dai versi dell’Iliade l’immagine omerica dell’universo: dal precipizio di
Efesto (corrispondente al raggio della sfera cosmica) e dal corso del Sole
(semicerchio il cui raggio equivale circa alla metà del raggio della sfera) si
potevano ricavare gli intervalli del cosmo. Questa singolare interpretazione
trasferiva l’approccio allegorico dall’etica alla physiología e leggeva Omero
secondo quella prospettiva filosofica con cui Cratete intendeva distinguere il
proprio metodo dal rigido filologismo degli alessandrini.
Grandezza dell’ingegno e grandezza del cosmo: la teoria dello sphairikòs
lógos era ben nota a Longino: sul piano tematico, egli riproponeva l’interesse
crateteo per la «misurazione del cosmo»; sul piano lessicale egli riprendeva il
termine diástēma per indicare l’intervallo o la distanza rilevabile con questa
misurazione. Poiché, attraverso il sublime, anche la parola dell’uomo può
sollevarsi a una dimensione oltreumana che la avvicina alla grandezza della
mente divina, Longino chiama l’uomo a rispecchiarsi nell’immensità del
cosmo e a meditare sui suoi fini sovrannaturali. Longino, coniugando
liberamente motivi della filosofia platonica, stoica e neopitagorica, esibisce il
repertorio filosofico tipico degli intellettuali del suo tempo. La mappa tracciata
da Donald A. Russell ci permette di riconoscere almeno quattro temi: quello
platonico della nobiltà dell’uomo; quello pitagorico e stoico dell’uomo; quello,
comune a tutte le scuole filosofiche dell’epoca, della potenza del pensiero
umano; quello stoico dello scopo della vita. Anche il geografo Strabone,