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36. IL TEMPO NEL PROCESSO. LE PRECLUSIONI. LA RAGIONEVOLE DURATA.
La preclusione è la perdita di un potere nel processo a carico di una parte, nel quadro di una successione logica
di attività, in relazione all’esercizio o al mancato esercizio, proprio o altrui, di una certa attività processuale.
In caso di previsione di un termine, invece, la perdita di potere deriva dall’inosservanza del termine e si parla
tecnicamente di decadenza (dal potere di compiere quell’attività).
Un es. che può aiutare a meglio comprendere la distinzione fra preclusioni e termini è quello della deduzione delle
prove. Si supponga che le prove debbano essere dedotte entro una certa data. La parte A omette di indicare prove:
decorre il termine ed essa decade dalla relativa facoltà. La parte B, invece, utilizza la facoltà difensiva e indica il
testimone C a conferma dei fatti che sostiene. Essa ha rispettato il termine e non è decaduta; tuttavia, si è preclusa la
possibilità di indicare altri testimoni. Se, più tardi, scopre che C ignora quei fatti e vuole indicare a testimone D, che
invece li conosce benissimo, non lo può fare, per effetto della preclusione.
Giustizia ritardata è giustizia negata: con questo aforisma si sottolinea l’importanza della durata di un processo
che non deve essere eccessiva, ma ragionevole.
L’art. 1 della l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, ha novellato l’art. 111 Cost., inserendo un comma 2°, in base al quale
“ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La
legge ne assicura la ragionevole durata”. Pertanto, la ragionevole durata del processo è ora divenuta un principio di
rango costituzionale. Ciò è conforme al disposto dell’art. 6 Cedu (“ogni persona ha diritto a che la sua causa sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale…”)
ed è ribadito, nel quadro dell’ordinamento dell’Unione europea, dall’art. 47 della Carta dei diritti. La ragionevole durata
è anche il parametro per un profilo indennitario a favore del cittadino che troppo a lungo abbia dovuto attendere una
decisione.
La Corte europea per i diritti dell’uomo ha indicato in 3 anni lo standard medio per la durata dei processi, oltre il quale,
si può presumere che il processo abbia una durata eccessiva. La durata eccessiva riguarda l’intero procedimento e non
le singole istanze o fasi attraverso cui esso si sviluppa.
La Cedu dispone che, dopo aver esperito tutte le possibili procedure interne, la Corte di Strasburgo possa essere
investita da un ricorso da parte di una persona fisica, un'organizzazione non governativa o un gruppo di privati che
lamentino la violazione di tale principio, anche per procedimenti ancora in corso, condannando lo Stato a versare alla
parte che ha subito un torto una somma di denaro (artt. 34 e 35 Cedu).
A sua volta, il legislatore italiano ha regolato la materia con la legge 24 marzo 2001, n. 89 (c.d. legge Pinto -
disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per
l'irragionevole durata di un processo), che è stata un tentativo di risposta alle numerose condanne che il nostro paese
subiva a Strasburgo, spesso a causa dell’inaccettabile lunghezza dei processi. Si intendeva evitare la pioggia di ricorsi
italiani alla Corte Cedu e mostrare la volontà del nostro paese di garantire tutela ai cittadini, mentre ci si sforzava di
rendere più efficiente e rapida la giustizia civile.
In pratica, però, l’esito della legge Pinto non si è rivelato positivo. Non soltanto lo Stato ha dovuto erogare somme
rilevanti, ma si è dato luogo ad un forte incremento di contenzioso: a tanti processi già lenti, se ne aggiungevano altri,
non molto più veloci, tesi a ottenere l’equa riparazione per i ritardi dei primi. Le corti d’appello, competenti per materia,
si sono viste sommergere da una valanga di cause. 42
Molte voci si erano levate per chiedere l’abrogazione della legge Pinto, o per lo meno, la trasformazione del
meccanismo di concessione dell’indennità da giurisdizionale ad amministrativo.
Il legislatore, con l’art. 55 della l. n. 134 del 7 agosto 2012, ha innovato in modo profondo il testo originario della legge,
in senso restrittivo, sia per quanto riguarda le condizioni di erogazione dell’indennità che per quanto riguarda il
procedimento.
La legge prevede che chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di una violazione
dell’art. 6 Cedu, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata, ha diritto ad un’equa
riparazione. Nell’accertare la violazione, il giudice considera l’oggetto del procedimento, la complessità del caso, il
comportamento delle parti e del giudice, nonché il contegno di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a
contribuire alla sua definizione.
Non è indispensabile che il richiedente abbia ottenuto giustizia, seppure in ritardo e chieda quindi l’indennizzo
per l’attesa: si può trattare anche di un procedimento che abbia dato esito negativo per la parte. Presupposto per la
sussistenza del diritto all’indennizzo, quindi, è il semplice fatto dell’eccessiva durata del giudizio. Non si ha equa
riparazione in situazioni che, per la loro complessità giuridica o fattuale, ovvero per le condizioni di lavoro in cui hanno
operato il giudice ed i suoi ausiliari, rendano plausibile il ritardo nella trattazione della causa.
Occorre, inoltre, che sussista un nesso di causalità fra la violazione lamentata e il pregiudizio subito. Si tratta,
in sostanza, di un “danno conseguenza” e non di un “danno evento” pertanto il ritardo nella decisione del caso
potrebbe non aver comportato alcun pregiudizio. Il relativo accertamento va compiuto nel caso concreto.
Vengono fissati per legge tempi di definizione standard dei giudizi, il cui rispetto obbliga a qualificarne ragionevole la
durata, con conseguente esclusione dell’indennizzo. Questi tempi sono:
di 3 anni per il giudizio di 1° grado,
di 2 anni per il giudizio di appello,
di 1 anno per il giudizio di legittimità.
In ogni caso, si considera rispettato il termine ragionevole se il processo, nelle sue diverse fasi, viene comunque
definito in modo irrevocabile entro 6 anni dall’inizio.
Non si computa il tempo in cui il processo è rimasto sospeso o interrotto, né il tempo intercorso fra la pubblicazione
di una sentenza e la relativa impugnazione.
In nessun caso, poi, è riconosciuta l’indennità in una serie di situazioni, tutte connotate da forme di esercizio
abusivo della facoltà di difesa.
Qualora il giudice ravvisi la sussistenza del danno e la sua derivazione dal mancato rispetto del termine ragionevole,
dispone a favore del richiedente un’equa riparazione. Non si tratta di un risarcimento del danno, perché il ritardo
nell’esercizio della funzione giudiziaria non costituisce di per sé un illecito, ma di un’attribuzione indennitaria,
conseguenza di un oggettivo cattivo funzionamento dell’amministrazione della giustizia. Il danno va limitato al solo
periodo eccedente il termine ragionevole.
Il nuovo art. 2-bis della l. n. 89 definisce la misura dell’indennizzo, che oscilla ora fra i 500 e i 1.500 euro per ogni anno
(o frazione di anno superiore a 6 mesi) di durata del processo eccedente quella ragionevole.
Il procedimento per equa riparazione è governato dagli artt. 3 e 4 della l. n. 89 del 2001.
La domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla corte d’appello (organo scelto per la sua autorevolezza) del
distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p. a giudicare nei procedimenti riguardanti i
magistrati nel cui distretto si è concluso o estinto, relativamente ai gradi di merito, il procedimento nel cui ambito si è
verificata la violazione della durata ragionevole. Ad es., se il ritardo ingiustificato si è verificato nel distretto della Corte
d’appello di Roma, la domanda va proposta alla Corte d’appello di Perugia.
La domanda si propone con ricorso, sottoscritto da difensore (art. 3, comma 2°: è quindi prevista sempre la difesa
tecnica) e va rivolta sempre nei confronti dello Stato, ma con legittimazioni passive diverse, a seconda dell’autorità
giudiziaria, ordinaria o speciale, coinvolta nel ritardo. Così:
- il ricorso è proposto nei confronti del ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario;
- del ministro della difesa per i procedimenti del giudice militare;
- del ministro dell’economia e delle finanze per i procedimenti dinanzi ai giudici tributari, amministrativi e contabili.
L’art. 4 della l. n. 89 stabilisce ora che la domanda può (e deve, se la si vuole introdurre) essere proposta a pena
di decadenza entro 6 mesi dal momento in cui la decisione che conclude il procedimento è divenuta definitiva. Non è
quindi più possibile avanzare, come per il passato, la domanda di equa riparazione in pendenza del procedimento.
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La domanda si propone con ricorso, con i requisiti generali degli atti di parte previsti dall’art. 125 c.p.c., aggravati
dall’esigenza di depositare copia autentica (e non semplice) di tutti gli atti, i verbali e i provvedimenti del giudizio: un
giudizio che, per definizione, deve essere durato più di 6 anni.
La corte d’appello in composizione monocratica emette un decreto motivato, che può accogliere, in tutto in parte, o
respingere, la domanda di equa riparazione.
Nel primo caso, il provvedimento è immediatamente esecutivo. Tuttavia, ricorso e decreto devono essere notificati al
ministero legittimato passivo (e per esso, all’avvocatura dello Stato), in copia autentica, entro 30 gg dal deposito in
cancelleria del provvedimento e, se la notificazione non è eseguita, il decreto diventa inefficace e, con disposizione
particolarmente punitiva, la domanda (che era appena stata accolta) non può più essere riproposta.
Nel secondo caso, la domanda respinta non può più essere riproposta. Tuttavia, vi è lo spazio per un’opposizione, da
proporsi, entro 30 gg dalla comunicazione del provvedimento ovvero dalla sua notificazione, alla medesima corte
d’appello che ha emesso il decreto.
L’opposizione è regolata dall’art. 5-ter. La corte provvede, nella consueta composizione collegiale, nelle forme del
procedimento in camera di consiglio. La norma precisa che del collegio non può fare parte il giudice che ha emanato il
provvedimento impugnato. Se ricorrono gravi motivi, la corte può sospendere l’efficacia esecutiva del provvedimento.
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