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Possiamo distinguere tra dialetto “arcaico” e dialetto “moderno”. Il termine arcaico fa
pensare al dialetto che si parlava un tempo o a quello parlato anche oggi in luoghi isolati dalle
persone anziane. Tra dialetto del passato e quello odierno vi sono delle differenze, così come ve
ne sono tra il dialetto delle città e quello dei piccoli centri, nonché tra il dialetto degli anziani e
quello dei giovani. Il dialetto arcaico è costituito da parole che vanno in disuso perché non si
adopera più il referente che denominano e perché vengono sostituite da altre. In questi ultimi
tempi, il cambiamento del lessico dialettale è un effetto del contatto con l’italiano, che produce una
progressiva italianizzazione del lessico. Questo contatto produce anche l’effetto opposto, cioè
l’ingresso di parole dialettali nell’italiano (dialettalismi). Il lessico dialettale risulta particolarmente
italianizzato quando si tratta di termini che si riferiscono alla vita quotidiana. Fanno parte del
dialetto arcaico le parole che si riferiscono a mestieri e attività della cultura tradizionale che oggi
non si praticano più. In genere si tratta di lavori che sono ormai praticati soltanto da persone
anziane o ricordati solo da queste. Un esempio di un’usanza scomparsa è il filò, diffuso nel Veneto.
Si trattava della veglia nella stalla, durante le sere invernali in cui le famiglie si riunivano, le donne
filavano e gli uomini riparavano attrezzi e raccontavano storie. La parola deriva da fare il filato, in
dialetto far filò, che era l’occupazione tipica delle donne. L’usanza ormai si è persa, ma la parola
sopravvive con altri significati, come “conversazione tranquilla fra più persone”. Sempre in ambito
delle consuetudini, a Venezia si dice èssare in donzelòn “essere da marito” riferito a una ragazza,
perché donzelòn era l’indumento femminile indossato dalle donne nubili (questa usanza è
testimoniata anche da Goldoni). Cippare nel calabrese meridionale è “fare la domanda di sposarsi
con una ragazza”; il verbo viene da cippu “ceppo” per l’usanza calabrese per cui il pretendente
colloca di notte, presso la porta della casa della ragazza, un ceppo segnato con un taglio di scure
e ornato di nastri; se la mattina, la madre della ragazza tira dentro il ceppo, vuol dire che la
proposta è accettata, e la ragazza si dice ncippata. Cattìva, in siciliano antico, indica la vedova
perché era reclusa in casa e poteva uscire solo per assistere alla messa e doveva vestire in un
certo modo; infatti il termine deriva dal latino CAPTIVU(M), che in italiano significa “prigioniero”
(questa usanza ci è tramandata anche da Sciascia). Pure gli oggetti della vita tradizionale
diventano sempre più arcaici. Ad esempio, fino a qualche tempo fa, si utilizzavano tre tipi di culla
(culla a cesta, culla di legno e culla sospesa) ed ognuna di essa era indicata con un tipo lessicale
diverso; ricordiamo: cuna, culla, nanna, navìcula, nàca, brassòlu, etc. Ogni tipo lessicale
caratterizza un’area lessicale.
Il dialetto è soggetto a modificazioni di cui anche il parlante si può accorgere e che per lo
studioso, più attento del parlante a questi fenomeni di diversificazione nel tempo, sono importanti
da rilevare. Per questo motivo, verso il 1920, hanno preso il via varie inchieste linguistiche svolte in
molte località della penisola, per raccogliere i dati necessari ai fini dell’allestimento delle carte
dell’Atlante Linguistico dell’Italia e della Svizzera italiana. Queste inchieste furono completate nel
1964. Tra i motivi dei cambiamenti vi sono gli influssi dei dialetti dei centri urbani e dell’italiano.
Inoltre il dialetto delle donne appare tendenzialmente più conservativo di quello degli uomini per il
fatto che, all’epoca, questi si spostavano di più e avevano maggiori contatti con l’esterno.
Particolare è anche la presenza del dialetto locale e del dialetto regionale, diffuso grazie al
prestigio di un centro urbano (alternati spesso fra loro dai parlanti dialettofoni in casi diversi).
Comune è poi la tendenza a rivolgersi a chi non è dello stesso paese cercando di parlare in
italiano o in un dialetto che eviti i tratti troppo stretti. Di solito, quindi, i parlanti avvertono alcune
differenze tra il dialetto dei giovani e quello degli anziani, oppure tra quello del proprio paese e
quello del paese vicino. Ma il termine “arcaico” viene usato anche per indicare un dialetto “schietto,
puro” (non contaminato), che si contrappone a quello “moderno” in quanto quest’ultimo
“imbastardito, annacquato”. Utilizzando le informazioni fornite dalle inchieste per l’ALI si può
affermare che in generale la parlata degli anziani è più conservativa di quella dei giovani, anche se
emergono sporadici casi in cui parlanti anziani utilizzino un dialetto “borghese”, più vicino alla
varietà moderna. Inoltre le inchieste mostrano che abitare in centro al paese può significare usare
un tipo dialettale più “borghese”, mentre abitare ai margini o in campagna depone a favore di un
tipo più “rustico”; ovviamente non è sempre così dal momento che il passaggio da una varietà
all’altra è spesso frequente. Anche il fattore culturale incide negli usi linguistici: così più un parlante
dialetto è colto, più il suo tipo linguistico sarà elevato.
Capitolo 5 – Il dialetto e la cultura intellettuale
Le parole dialettali, specialmente quelle riferite a concetti astratti, sono spesso derivate
dalla cultura intellettuale. Lo studio dei cultismi (o parole dotte) è interessante sia per l’aspetto
linguistico sia per l’aspetto antropologico. Talvolta i cultismi si presentano in forma non adattata,
cioè inalterata. La forma adattata, invece, consiste in una modificazione della pronuncia. Nel
complesso le parole dialettali di provenienza dotta sono molto numerose. Ricca fonte di cultismi è
la terminologia religiosa, in modo particolare il latino della chiesa, che viene storpiato dagli incolti, il
cosiddetto latinorum. La deformazione della parola avviene soprattutto perché essa ha un alto
grado di oscurità e spesso questa deformazione porta all’assunzione di un significato negativo.
Naturalmente anche in questo settore vi è un alta frequenza di reinterpretazioni paretimologiche. In
ogni caso, tutti i settori della cultura hanno contribuito all’arricchimento del lessico dialettale, da
quello giuridico e amministrativo, a quello scientifico e letterario, e così via.
Capitolo 6 – Il dialetto in città
La dialettologia scientifica, inaugurata nella metà del XIX secolo, aveva istituito un più facile
confronto tra il dialetto della città (aperto alle innovazioni) e il dialetto della campagna (arcaico,
conservativo). Tuttavia le ricerche di dialettologia urbana mostrano che se le città suono luoghi di
modernità, d’altra parte possono essere anche più conservative delle campagne. Nelle città il
dialetto schietto resiste più a lungo nelle classi popolari, mentre è principalmente la media e
piccola borghesia a tendere all’italiano. Spesso le classi alte si mostrano più fedeli al proprio
dialetto, che diventa un elemento distintivo. La dialettologia che si è occupata della campagna
prende il nome di dialettologia rurale; mentre quella che si occupa della città si chiama
dialettologia urbana. Comunque, la città con la sua rete sociale aperta e con la disponibilità al
rinnovamento, mostra un minor grado di conservazione del dialetto. L’articolazione sociale della
città permette di studiare il dialetto in relazione ai vari gruppi sociali; infatti lo scopo della
dialettologia urbana è quello di occuparsi della variabilità dialettale nell’ambiente urbano attraverso
tecniche di inchiesta. Il dialetto sociale è una varietà usata da una classe sociale.
Capitolo 7 – Il dialetto e il continuum
Le statistiche mostrano che oggi circa il 50% della popolazione alterna italiano e dialetto,
mentre circa il 7% degli italiani usano solo il dialetto e circa il 40% esclusivamente l’italiano. Buona
parte delle persone, quindi, usa sia l’italiano sia il dialetto, e ciò porta al formarsi di varietà
intermedie dall’italiano al dialetto. Una situazione di questo tipo è chiamata continuum linguistico,
opposta al discretum. La nozione di continuum si riferisce a un insieme di varietà nel quale ve ne
sono due che si pongono agli estremi e che si possono identificare, e varietà intermedie che
sfumano l’una nell’altra. Al concetto di continuum si aggiunge quello di discretum (o gradatum), in
cui le varietà sono distinguibili l’una dall’altra, come i gradini di una scala. Il continuum geografico
è, ad esempio, rappresentato da due dialetti geograficamente vicini, in cui non vi è una
delimitazione netta tra l’uno e l’altro. Un altro tipo di continuum è il repertorio linguistico italiano,
che comprende le varietà di italiano e le varietà di dialetto, con i due estremi occupati dall’uno e
dall’altro. In tale contesto si può dire che l’italiano è la varietà più alta, prestigiosa, mentre il dialetto
è la varietà più bassa, meno prestigiosa. Il parlante bilingue seleziona i vari codici all’interno del
repertorio linguistico in relazione alla situazione comunicativa, per cui bisogna avere competenza
comunicativa. Quando il parlante possiede entrambi i codici, tendenzialmente riserva il dialetto a
situazioni meno formali, l’italiano a quelle più formali. I due codici si possono dunque alternare, ma
anche usare insieme nello stesso turno di conversazione. Le varietà del repertorio linguistico
italiano si dispongono secondo una gradazione che va dall’alto (varietà più formali) verso il basso
(varietà meno formali o informali). Per cui il repertorio linguistico italiano è strutturato come segue:
1. italiano standard
2. italiano regionale
3. koinè dialettale
4. dialetto schietto (o rurale)
Si possono avere varietà dialettali più fortemente italianizzate ed altre, tipiche di piccole località,
più conservative. Può anche succedere che le varietà di un centro urbano importante
economicamente e culturalmente influenzino le parlate delle aree circostanti; il risultato di questo
processo è una koinè dialettale. Considerando le varietà di italiano, sono più importanti per la