vuoi
o PayPal
tutte le volte che vuoi
SUNTI DI COMUNICAZIONE GIORNALISTICA
Università di Pisa - Professore esame: Carlo Bartoli
LIBRO: PARLARE CIVILE, Redattore Sociale
Introduzione
Le parole possono essere muri o ponti, possono creare distanza o aiutare la comprensione dei problemi. Quando si
comunica occorre precisione, occorre consapevolezza del significato, del peso delle parole. Ciò è necessario per il
“parlare civile”, per evitare discriminazioni, fraintendimenti, e per portare avanti l’idea di rispetto. In Italia, il dibattito
sui termini più adeguati per rispettare la dignità delle persone è ancora arretrato, specialmente per quanto riguarda le
aree a rischio discriminazione: disabilità, genere e orientamento sessuale, immigrazione, povertà ed emarginazione,
prostituzione, religione, salute mentale, ecc. Lo sforzo è di riportare la complessità di opinioni diverse sul linguaggio
per dare una direzione alla comunicazione pubblica, giornalistica e politica, contestualizzando l’uso di termini
spesso abusati, per evitare l’utilizzo di un linguaggio deformante.
Prima parte: Disabilità
Disabile
Disabile, di per sè, è un aggettivo che sta per “che ha una disabilità”. Il problema è che non lo si percepisce più come
tale, ma si è trasformato in un sostantivo. Rimane comunque un termine onesto e ragionevole, non generico e non
particolarmente offensivo. La trasformazione in sostantivo rischia di far dimenticare il confronto fra la persona e
l’ambiente che lo circonda. Il termine può comunque essere accettato qualora non sia possibile usare l’espressione
“persona con disabilità”, con la quale ci si riferisce a coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali,
intellettive o sensoriali che ostacolino la loro partecipazione nella società. “Persona” è neutro e invariabile, il concetto
di disabilità indica che non sono le caratteristiche soggettive delle persone a creare svantaggio ed esclusione, ma
l’interazione con barriere comportamentali e ambientali; il termine “con” esplicita che la disabilità è responsabilità
sociale che si crea in determinate condizioni (es. quando un cieco incontra un testo stampato). Non ha senso parlare
di “normodotati”, poiché questa definizione contiene un giudizio fra chi può essere considerato normale e chi no,
considerando anche che la normalità è un criterio relativo.
Il termine “Paralimpiadi” non significa “olimpiadi per paraplegici”, ma deriva dal termine anglosassone “paralympics”, il
cui prefisso di origine greca ha il significato di “quasi, simile, ecc.” Questa concezione dimostra come non ci sia
accorta una completa accettazione della disabilità come uno dei tanti aspetti della vita, da non esaltare eroicamente,
ma nemmeno da nascondere o di cui vergognarsi. Robert P. Murphy (1985) ha affermato come la disabilità ti porti a
vivere in una zona intermedia fra l’essere sano e l’essere malato, fra la normalità e la non estraneità al mondo; chi
ha disabilità deve tenere un comportamento difficile, ovvero cercare di essere come gli altri, e allo stesso tempo
restare al suo posto. La percezione della disabilità si è modificata nel tempo, così come l’approccio della società:
eliminazione (si pensi al nazismo), segregazione, abbandono (anche nel mondo antico), discriminazione, ecc. Oggi si
parla più di inclusione che di integrazione, per sottolineare il concetto di un rapporto equo fra la persona e l’ambiente,
poiché l’integrazione rimanda all’individuo che deve modificare i propri comportamenti per aderire al sistema.
Altro luogo comune da evitare è l’espressione “costretto su una sedia a rotelle”: la carrozzina è impropriamente
diventata l’emblema di tutte le tipologie di disabilità, e lo stereotipo parte dalla convinzione che l’handicap sia colpa
della sedia a rotelle, che al contrario permette di muoversi liberamente o spinto da qualcuno. Nessuno costringe le
persone disabili ad utilizzare la sedia a rotelle.
Un altro mito da sfatare è quello dei falsi invalidi, che connota la visibilità della disabilità. Un classico esempio sono i
falsi ciechi individuati dai video diffusi dai media, i quali, molto spesso, sono solo ipovedenti gravi, che sviluppano una
notevole autonomia grazie all’esercizio e alla conoscenza dei luoghi nei quali si muovono. Il termine “invalido” fu
collegata a coloro che avevano subito mutilazioni o invalidità durante la grande guerra, ed è rimasto come termine
burocratico nelle definizioni di pensione di invalidità o certificato di invalidità. Il “falso invalido”, invece, è ormai una
categoria dello spirito usata come capro espiatorio per far partire una campagna di riduzione della spesa sociale
sulle pensioni di invalidità attraverso l’individuazione dei furbi e dei ladri (operazione legittima, ma non basata su dati
oggettivi). I falsi invalidi non esistono, esistono invece medici imbroglioni che falsificano certificati, ma nessuno ha mai
gridato al medico ladro.
Diversamente abile (o diversabile)
E’ una delle espressioni più contestate nel campo della disabilità, perché si tratta di un eufemismo che cerca di
sottolineare l’abilità piuttosto che la disabilità; seguendo questo percorso logico il sordo diventa prima non udente, poi
diversamente udente. Il termine deriva dall’ansia di trovare nuove espressioni per ovviare al problema di utilizzare
termini con accezione negativa e offensiva. L’origine avviene negli Stati Uniti, dall’espressione “differently abled”, che
cerca di mettere il deficit in luce positiva. In Italia l’inventore è stato Claudio Imprudente, scrittore e giornalista con
disabilità grave, che considerò l’espressione come capace di scatenare al riguardo riflessioni e dibattiti, nonostante
contenga in sé una piccola ipocrisia.
L’espressione viene quindi considerata troppo politicamente corretta e lontana dall’uso comune, e termini troppo
buonisti fanno perdere di vista la condizione di discriminazione e mancanza di pari opportunità. Il problema
fondamentale è lo stigma legato alla disabilità, per cui ogni parola ad essa connessa si carica di una connotazione
tendenzialmente negativa, per cui si tende sempre a ricercare sinonimi, come dimostra l’uso di eufemismi come non
udente, non vedente, non deambulante, ecc. Parole come sordo, cieco, non sono degli insulti, e non creano alcun
problema se inserite nel contesto giusto. In altre parti del mondo il concetto di disabilità è considerato come una delle
tante situazioni della vita, mentre in Italia prevale una connotazione pietistica dell’handicap inteso come negatività,
per cui si tende a caricare la comunicazione di valori esageratamente positivi. Se si continua a considerare la
disabilità come qualcosa di diverso, o addirittura come un’opportunità per sviluppare “diverse abilità”, si fa un torto a
quei milioni di persone che ogni giorno si battono per vedere rispettati i propri diritti. L’avverbio “diversamente” pone
l’enfasi sulle differenze nell’uso delle abilità, come dire che attraverso modalità diverse si raggiungono gli stessi
obbiettivi; in alcune situazioni può essere corretto, ad esempio per gli ipovedenti, che possono raggiungere adeguati
risultati grazie all’utilizzo di strumenti che potenziano le residue abilità visive, mentre l’espressione risulta fuorviante
nel caso di persone con ritardo mentale, in quanto nasconde il deficit nello svolgimento delle prestazioni scolastiche,
sociali e di autonomia.
Handicappato
Deriva dall’espressione inglese “hand in cap”, con cui era chiamato un gioco d’azzardo inglese, poi si diffuse nella
terminologia ippica a indicare il peso extra imposto durante una gara al cavallo ritenuto superiore. Con il tempo il
significato è mutato a indicare lo svantaggio rappresentato da minorazioni di tipo motorio, sensoriale, intellettivo.
L’aggettivo-sostantivo “handicappato” quindi, indica colui che per condizioni fisiche o psichiche ha difficoltà ad
adattarsi all’ambiente circostante. L’handicap diventa quindi una condizione di svantaggio nei confronti degli altri. Si
diffonde in Italia intorno alla metà degli anni ’70, un termine che sembrava migliore e più scientifico per sostituire
parole come “storpio, sciancato, mongoloide”; in realtà questo non designa una malattia specifica, ma accomuna sotto
la stessa etichetta persone e casi diversi. E’ sbagliato confonderlo con il deficit, ovvero la mancanza propria della
persona, perché l’handicap è prodotto dal contesto, dall’incontro fra la persona con disabilità e l’ambiente. Un
esempio: un uomo con la sedia a rotelle entra in un bar ma incontra degli scalini, in questo caso il suo deficit rimane
invariato, ma l’handicap aumenta, così come diminuisce se al posto dei gradini ci fosse stata una rampa.
Il termine “handicappato” è molto simile a “svantaggiato”, e si è tradotto nel linguaggio burocratico nel connotare un
soggetto che ha e che crea problemi. E’ un termine neutro, perchè si riferisce alla situazione di svantaggio, ed è
scorretto associarlo alla persona, definirla rispetto all’handicap. L’uso di questo termine è scorretto, spesso
giustificato dalla volontà di “chiamare le cose col proprio nome” o “in modo che tutti possano capire”, ma spesso non
ci si ferma a pensare a quale sia il vero nome delle cose e si crede che l’importante sia la sostanza, a discredito della
forma. Un’altra giustificazione sta nell’affermare che il termine sia contenuto della legge italiana di riferimento, la quale
aveva mutato il termine da una classificazione dell’Organizzazione mondiale della sanità; la stessa Omn, però, ha
cancellato il termine all’inizio degli anni Duemila.
Parte seconda: Genere e orientamento sessuale
Delitto passionale
Delitto passionale o omicidio passionale, uniti a espressioni come “dramma della gelosia, amore malato, raptus di
follia” sono espressioni con cui spesso il giornalismo racconta la morte delle donne per mano di un uomo vicino
alla vittima. E’ un linguaggio che richiama un passato non lontano in cui il delitto d’onore godeva di varie attenuanti,
abrogate nel 1981; ancor più tardi, nel 1996, si è riconosciuto la violenza sessuale come reato contro la persona, e
solo nel 2009 si inizia a punire “atti persecutori” di stalking. La Conferenza mondiale delle Na