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LUCI E OMBRE DEL MIRACOLO ECONOMICO

-Dualismo della struttura produttiva industriale.

Convivenza di modernità e arretratezza: settori dalla produttività elevata e dal grado di

razionalità manageriale sviluppato (industrie pubbliche chimiche, energetiche e siderurgiche in

primis [es: Eni, Pirelli, Fiat]), indirizzatete al mercato inernazionale; e settori ancora rivolti al

più debole mercato interno, stagnanti e tradizionali (settori tessile, alimentare ed industria

delle costruzioni).

Conseguenze sociali: i settori più dinamici facevano riscontrare forti incrementi di produttività

e bassi aumenti d’occupazione (->progresso tecnico, risparmiatore di lavoro); i settori più

arretrati fungevano da spugna, assorbendo la disoccupazione, pur con bassi incrementi di

produttività. Per i settori più moderni gli aumenti salariali erano al di sotto di quelli della

produttività (per via del progresso tecnico), con crescenti volumi di profitti e conseguenti

investimenti; situazione opposta per le industrie più arretrate.

-Distorsione dei consumi.

Per un lato tale problema dipendeva da quello del dualismo industriale. Era un problema di

struttura dei consumi, pubblici e privati, e di differenziazione interna di questi.

Da un lato si creavano autostrade e si fornivano ai consumatori auto e televisori, mentre non

esisteva ancora un servizio sanitario e scolastico dignitoso ed equo presente in tutto il

territorio nazionale. Dall’altro, mentre la dieta della popolazione continuava ad essere quella

di un Paese sottosviluppato, si andavano diffondendo consumi privati tipici della società

opulenta (ricca). Questo perchè: vi erano redditi, soprattutto di chi lavorava per le grandi

industrie moderne, che permettevano di concedersi tali beni di consumo; inoltre i beni più

“opulenti” (elettrodomestici, mobili, trasporti privati...) erano meno costosi rispetto a quelli

alimentari, della carne bovina, dell’assistenza sanitaria, dei libri, dei trasporti pubblici: e questi

erano i beni che un’offerta pubblica avrebbe dovuto saper governare.

La crescita dovuta al miracolo economico era una crescita portatrice di eterogeneità all’inerno

del Paese: nella produzione, nel lavoro, nei consumi, nei servizi pubblici e privati,

nell’allocazione di risorse fondamentali (istruzione, salute, casa) la mano pubblica mancò

completamente.

-Permanere della “questione meridionale”.

Alla fine del “miracolo” il Mezzogiorno continuò ad avere un’alta percentuale di popolazione

addetta all’agricoltura (40%), un’alta pressione demografica, scarso sviluppo industriale e

perlopiù semiartigianale. Del resto l’Italia era maggiormente interessata al mercato

internazionale, e l’integrazione industriale a cui era interessata era quella con i Paesi forti

d’Europa. Pertanto il Sud rimaneva un grande serbatoio da cui attingere manodopera.

La politica applicata fu quella delle opere pubbliche: sollevavano il reddito locale,

incrementavano la produttività delle locali industrie di costruzioni, non creavano “doppioni”

delle industrie settentrionali, che non volevano concorrenza in casa propria.

Altra politica adottata fu quella della riforma fondiaria, che inizio nel 1950 e creò, sulla base

dei terreni espropriati, un’ampia rete di aziende contadine, tuttavia troppo piccole per essere

efficienti. L’obiettivo era portare la piena occupazione e la Cassa per il Mezzogiorno (ente

pubblico creato per la realizzazione di opere di pubblico interesse tese allo sviluppo economico

del meridione, allo scopo di colmare il divario con l'Italia Settentrionale; realizzò importanti

opere: per le risorse idriche e viarie, opere di costruzione e bonifica, creazione di aree per lo

sviluppo industriale) si occupò di portare anche nei paesi più sperduti i servizi civili

indispensabili.

Importante fu l’intervento delle grandi industrie private: la Montecatini a Brindisi e la Sincat a

Siracusa (aziende chimiche).

Ma fondamentale fu l’intervento dell’impresa pubblica: l’Iri, che intervenne a Taranto con

acciaierie; l’Eni, con la raffineria (raffinazione del petrolio) a Gela.

Il vero obiettivo di queste grandi imprese, tuttavia, era il mercato mondiale e non l’incentivo

alla modernizzazione industriale del Sud: le piccole imprese continuavano a trovarsi in

situazione di arretratezza, la “questione meridionale” non venne risolta e il fenomeno

dell’emigrazione non venne arrestato.

FINE DEL MIRACOLO ECONOMICO ITALIANO, 1963

Con il 1962 si registrò un’inversione di quella che sino ad allora era stata la tendenza del

“miracolo economico” ed apparvero i primi segnali di un’imminente crisi economica.

Gli effetti principali di questa inaspettata crisi furono: l’incremento passivo della bilancia

commerciale, l’arresto del ritmo di crescita della produttività ed il riaffacciarsi dell’inflazione

con un parallelo aumento dei prezzi.

Ma come si arrivò a una tale condizione dopo anni di stasi inflazionistica, fluidità monetaria e

crescita dei profitti?

I primi anni Sessanta si contraddistinsero per un aumento dei salari (grazie alle lotte salariali),

che nel 1962 erano cresciuti più della produzione: in conseguenza a ciò le grandi imprese

ridussero la propria possibilità di autofinanziamento e le piccole imprese videro entrare in crisi

il proprio bilancio.

Gli imprenditori, messi sotto pressione dall’aumento dei salari e dalla corrosione dei profitti,

cercarono di difendere i propri introiti agendo sui prezzi di vendita del mercato interno,

manovra resa possibile dal fatto che in quegli anni la domanda globale era in forte crescita.

Ma se a livello nazionale questo “gioco al rialzo” era praticabile, in campo internazionale non lo

era poiché uno dei segreti della forte crescita delle esportazioni dei prodotti italiani era stato

quello dei bassi costi.

Così il padronato si trovò stretto tra due vincoli: la necessità di dover alzare i prezzi per

sopperire agli incrementi salariali e l’obbligo di contenere i costi dei prodotti per poter esser

ancora competitivo sul mercato internazionale.

Nel ’63 la Banca d’Italia optò per una “stretta creditizia”, ritenuta l’unico intervento possibile

per arginare la ripresa dell’inflazione in Italia, con la conseguente caduta degli investimenti e

della domanda globale.

Le esportazioni, però, continuarono a sostenere il processo di produzione in modo decisivo.

Nel 1966-’68 si assistette ad un ripristino ondate migratorie dal Sud Italia, con conseguente

congestione delle aree metropolitane del Nord e manifesta mancanza di infrastrutture e

consumi pubblici, inoltre scadevano i contratti triennali dei metalmeccanicitensioni da parte

degli operai per la rivendicazioni salariali e riforme socialiaumenti salariali nel ’69, aumento

inflazionema: possibilità di aumenare i prezzi delle esportazioni, perché tutti i Paesi

industriali erano nella medesima situazione di inflazione.

3. Lasciare l’Italia: emigrazione e crescita

La più rilevante testimonianza dei cambiamenti economici e sociali intervenuti nell’Europa del

Sud, e in Italia in particolare, è lo spostamento di grandi masse umane che da essi derivano.

Paesi come Italia, Portogallo, Spagna e Grecia hanno alle loro spalle un più lungo passato di

migrazione, che precede quello del II dopoguerra, e che fu dapprima transoceanico, poi

europeo.

La forte emigrazione dal sud Europa era dovuta alla generale situazione di arretratezza delle

campagne, alla mancanza di servizi, alla miseria e alla disoccupazione della popolazione. Per

questo il motivo principale dell’espatrio era quello di emancipare se stessi e i propri figli dalla

mancanza di opportunità che le nuove aspettative rendono ora necessarie: scuola, sanità,

possibilità di mobilità sociale.

L’età media degli emigranti era dai 15 ai 50 anni, attivi ed analfabeti, che trovavavo

occupazione soprattutto nel settore primario e secondario. Gli emigranti con più di 50 anni e

meno di 15 erano i facenti parte delle famiglie che emigravano. In un primo ciclo migratorio

partivano gli uomini, quindi le donne e i bambini.

Ma i motivi di tali processi migratori non è da cercarsi solo nella situazione di miseria in cui

viveva la popolazione:

-La stessa riforma agraria portò (oltre che cambiamenti economici) importanti cambiamenti

sociali: la cacciata e la fuga degli uomini dalle campagnele macchine hanno causato la

prima, le luci della città la seconda.

-Talvolta erano gli stessi governi ad incentivare l’abbandono delle campagne per mitigare le

tensioni sociali. L’Italia ne fu l’esempio più evidente, che fece dell’emigrazione interna ed

esterna uno strumento di politica sociale, ma anche economica: per l’economia dei paesi

dell’Europa del sud, le rimesse degli emigranti (denaro inviato a casa), unitamente al turismo e

alla spesa pubblica, furono importanti fattori di crescita.

Per tutte queste ragioni, negli anni ’50 e ’60 si verificò un consistente flusso migratorio di

lavoratori del sud verso il nord Italia (dove si verificò un consistente fenomeno di

urbanizzazione, soprattutto a Milano e a Torino) e verso la Francia, il Belgio, la Germania e la

Svizzera.

Questa situazione peggiorò co la crisi petrolifera degli anni ’70,che segnò un punto di svolta

nei flussi migratori: con questa crisi l’emigrazione italiana all’estero si arrestò, in quanto i

mercati industrializzati si trovarono incapaci di assorbire la forza lavoro. Per questo molti

emigranti tornarono in patria.

Cessarono anche le migrazioni interne, e la causa principale di ciò era da riscontrarsi

nell’aumento del livello di vita del sud, grazie all’incremento della spesa pubblica e agli aiuti

statali del walfare state (in quanto con il rimpatrio dei lavoratoiri terminò il meccanismo delle

rimesse come sostegno all’economia), che causarono parassitismo sociale ed assistenzialismo,

bloccando ogni attrazione verso il lavoro industriale. Dalle finte pensioni di invalidità alle

attività di forestazione che impegnavano solo pochi mesi, questo sisema “agro-assistenziale”

fu la causa principale delle distorsioni del mercato del lavoro al Sud.

Aspetto positivo della fine delle emigrazioni e del ritorno in patria fu che quando gli emigranti

tornavano realizzavano il sogno di comprare una casa, di esibire consumi superiori alla media,

di svolgere un’attività autonoma, espandendo la domanda interna.

Il fenomeno della migrazione interna ebbe la conseguenza importante di unire il Paese ancor

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Publisher
A.A. 2014-2015
15 pagine
7 download
SSD Scienze economiche e statistiche SECS-P/12 Storia economica

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Manzanita86 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia economica e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Milano o del prof Sapelli Giulio.