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PIERRE-JOSEPH PROUDHON – CRITICA DELLA PROPRIETA’ E DELLO STATO
INTRODUZIONE
La chiave del pensiero proudhoniano, ciò che ne costituisce al tempo stesso l’originalità e l’unità,
non si trova in un apriorismo intellettuale o in un dogma metafisico, ma scaturisce dall’analisi
dell’esistente inteso
nella sua evidenza primordiale, dalla constatazione sociologica del suo palese pluralismo: il mondo
morale, come il mondo fisico, riposano su una pluralità di elementi irriducibili e antagonisti. Solo
riconoscendo questo pluralismo organico nella realtà dei fatti e della società, sarà possibile passare a
un pluralismo organizzatore come metodo di pensiero e tecnica di azione, come fattore di equilibrio
delle forze.
Si delinea così in modo inequivocabile il fondamento teorico del suo anarchismo, ossia un
relativismo pluralistico che può essere considerato senza alcun dubbio la chiave interpretativa di
tutto il suo pensiero, di tutta la sua dottrina.
Per Proudhon il problema fondamentale della conoscenza risiede nella difficoltà che l’uomo ha di
abbracciare e di comprendere la simultaneità degli innumerevoli fattori che intervengono nello
svolgimento
della realtà. Per progredire, la scienza ha bisogno di concettualizzazioni, di schematizzazioni, di
ordine, di precisione, ma nello stesso tempo ogni fissità pregiudica l’avanzata stessa del sapere,
convertendolo da una ricerca «aperta» a una forma chiusa. Proudhon riconosce dei limiti alla
conoscenza umana, nel senso che essa può spiegare il rapporto tra le cose, ma non può dare ragione
e spiegazione della natura ultima dei fenomeni. Si precisa così il senso del suo problematicismo,
tutto centrato sull’idea che il progresso scientifico si identifichi con la consapevolezza
dell’impossibilità di pervenire a soluzioni integrali. Questa consapevolezza fa di Proudhon un
teorico avvertito e disincantato del socialismo, perché lo pone lontano da ogni sogno utopistico di
rigenerazione totale e di metamorfosi antropologica.
Diventa dunque comprensibile la sua critica alla dialettica di Hegel. Mentre questi definisce la
realtà nella forma triadica di una tesi e di un’antitesi, che si risolvono in una sintesi superiore,
Proudhon afferma che proprio le opposizioni e le antinomie sono la struttura stessa del reale e che
l’antinomia non si risolve. Il sistema hegeliano, secondo Proudhon, è un sistema precostituito,
perché invece di attendere i fatti li anticipa; di conseguenza, la sua sintesi è del tutto fantastica e
arbitraria.
L’ostilità di Proudhon verso tutti gli a priori lo spinge sempre più a cercare una metodologia capace
di intendere specificamente il movimento stesso della realtà nel suo farsi, «colto, per così dire, sul
fatto», in una ricerca incessante, essendo indefinito lo sviluppo stesso della società. Ecco perché la
ricerca proudhoniana è costituzionalmente una ricerca «aperta», per sua struttura rivedibile e
correggibile, non dogmatica, intrinsecamente libertaria.
In conclusione, la struttura antinomica della società, essendo espressione dell’opposizione reale
delle cose concrete, dimostra di per sé l’impossibilità di ogni sintesi a priori e di conseguenza
l’impotenza oggettiva di ogni regime volto alla loro forzata mediazione. E qui infatti sta tutto lo
sforzo teorico di Proudhon: nel ricercare l’equilibrio dei contrari senza far scomparire la
contraddizione, linfa vitale della società e della libertà.
Alla base della sociologia elaborata dal pensatore francese sta il concetto del lavoro come azione
intelligente dell’uomo sulla materia e come forza plastica della società. Questo concetto è formulato
da Proudhon in modo assai preciso: il lavoro – campo di osservazione dell’economia politica
considerato: 1. soggettivamente nei lavoratori; 2. obiettivamente nella produzione; 3. sinteticamente
nella distribuzione degli impieghi e nella ripartizione dei salari; 4. storicamente nelle sue
determinazioni scientifiche – è la forza plastica della società, l’idea tipo che determina le diverse
fasi della sua crescita e, di seguito, di tutto il suo organismo sia interno sia esterno. Il lavoro è
dunque l’energia sociale per eccellenza, la forza specifica che crea e regge la società.
Il lavoro si sviluppa attraverso la duplice legge della comunità d’azione e della sua divisione
produttiva, perché si esplicita da un lato come processo di integrazione sociale, dando così alla
società la sua unità e la sua coerenza collettiva, dall’altro come processo di differenziazione sociale,
in quanto implica la diversificazione dei produttori e la specificazione delle funzioni. Per Proudhon,
quindi, l’economia politica non è che un sapere particolare di questa scienza del lavoro.
Ma questo concetto di lavoro non può che rimandare immediatamente al concetto di lavoro
collettivo, il quale rimanda a sua volta a quello di società, perché se è il lavoro ciò che produce tutti
gli elementi della ricchezza, è la società o l’uomo collettivo che crea tale possibilità. Il lavoro
collettivo risulta dunque non solamente una semplice somma di lavori individuali, ma l’espressione
dell’attività di un essere sociale avente una sua specifica realtà con proprie leggi. Secondo
Proudhon, per il vero economista la società è un essere vivente dotato di una intelligenza e di
un’attività proprie, retta da leggi speciali che l’osservazione può scoprire, e la cui esistenza si
manifesta non sotto una forma fisica, ma per l’insieme armonico dell’intima solidarietà di tutti i
suoi membri.
La scoperta della società come un essere collettivo reale, autonomo e immanente a tutti i suoi
membri comporta la scoperta immediata dei suoi due attributi fondamentali: la ragione collettiva e
la forza collettiva.
Queste due nozioni sociologiche, sebbene non siano sempre esplicitate in modo chiaro, esauriente e
continuativo, rimandano però sufficientemente a un comune concetto che si può così riassumere: la
riunione delle unità individuali genera una realtà originale che è qualcosa di più e d’altro rispetto
alla loro somma. La forza collettiva è l’elemento puramente sensibile della società, la sua
manifestazione in movimento, l’atto attraverso cui il sociale palesa la sua esistenza, mentre la
ragione collettiva è al contempo una comunità di coscienza e di intelligenza, cioè una ragione
rinnovabile nel processo storico.
La creazione di un ordine sociale positivo non deve risultare da una costruzione arbitraria imposta
con la forza e giustificata a posteriori dai legislatori, ma deve essere il prodotto dell’applicazione
delle leggi sociologiche che descrivono l’organizzazione razionale della società intesa come
lavoratore collettivo. L’ordine, in altre parole, non può che prodursi nell’umanità per mezzo della
conoscenza che l’essere collettivo acquista delle proprie leggi.
Con la nozione di forza collettiva Proudhon precisa che gli individui, indipendentemente dalle loro
capacità e attitudini, vivendo in società ricevono sempre di più di quanto danno; in altri termini
l’uomo, nel momento in cui si inserisce nell’attività produttiva e partecipa a un compito comune,
diventa immediatamente debitore verso la società di cui fa parte.
Con la nozione di ragione collettiva Proudhon aggiunge che gli individui non possono associarsi
veramente che alla sola condizione che si realizzi tra loro uno scambio fondato sull’uguaglianza.
Infatti lo scambio tra non uguali, generando disuguaglianza, provoca continui conflitti sociali,
rendendo impossibile la piena realizzazione della socialità umana. La ragione collettiva non
scaturisce dalla somma delle ragioni individuali sfocianti in uno stesso assoluto trascendente, che
implica la rinuncia alla propria autonomia primitiva, ma dai rapporti contraddittori e liberi che
permettono di relativizzare l’assoluto delle ragioni individuali. Attraverso questo incontro e scontro
vengono superate le soggettività rispettive delle ragioni individuali e nasce allora questa ragione
obiettiva che è la ragione sociale.
Ora, se la forza collettiva e la ragione collettiva sono gli attributi della società intesa come essere
collettivo, come lavoratore collettivo, le leggi di questa stessa società devono essere enucleate
considerando taliattributi. Precisamente, la forza collettiva e la ragione collettiva rimandano al
concetto di divisione e di composizione del lavoro. La divisione del lavoro è alla base della forza
collettiva, la composizione del lavoro sta a fondamento della ragione collettiva. In altri termini la
legge di divisione, o specificazione della funzione, rivela la legge di competizione e antagonismo
che anima ogni essere individuale o collettivo, mentre la legge di composizione o di «serie» è la
legge che sta alla base dell’associazione, cioè la legge della solidarietà che innerva ogni essere
individuale e collettivo spingendolo all’unione e all’interdipendenza. Perciò antagonismo e
solidarietà, divisione e composizione formano una coppia antinomica irriducibile. Infatti Proudhon,
considerando contemporaneamente divisione e composizione come una coppia antinomica e
indissolubile, si pone oltre l’individualismo classico del liberalismo e oltre l’universo tradizionale
del comunismo, per arrivare a una fondazione della società che non è l’assoggettamento
dell’individuo alla collettività, né la subordinazione della collettività all’individuo. Il primo, infatti,
pretende di liberare l’uomo isolandolo e astraendolo dalla società, il secondo considera l’uomo
come una semplice unità sottomessa a una collettività superiore, la quale, schiacciando la
personalità, sfocia nel dispotismo.
Si delinea così il suo tentativo sintetizzatore volto a superare l’astratta contrapposizione fra
individuo e società. La sua analisi afferma da una parte che l’individuo è il criterio dell’ordine
sociale, mentre dall’altra ribadisce la specificità del sociale costituito da regole molto diverse da
quelle che si ha l’abitudine di chiamare senso comune.
Nel riconoscimento dell’impossibilità da parte della società di assorbire l’individuo e da parte
dell’individuo di assorbire la società, deve risiedere per Proudhon tutta la ricerca della libertà. Ecco
perch&eacu