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Tutti noi apparteniamo a gruppi sociali. Cosa spinge le persone ad associarsi in gruppi? Secondo Baumeister
e Leary, gli esseri umani hanno una spinta istintiva a formare e mantenere delle relazioni interpersonali
durature, positive e significative. Non si tratta di un generico bisogno di interazione sociale o di affiliazione.
Infatti, non basta interagire superficialmente con degli sconosciuti, ma abbiamo bisogno di parlare, di
confrontarci, di stare insieme a persone con cui abbiamo dei rapporti privilegiati. In noi è presente un
bisogno di contratto sociale regolare con persone verso cui sentiamo un particolare legame. Da dove nasce
questo bisogno? 2 risposte di tipo adattivo.
Jhon Bowlby affermava che l’attaccamento ai genitori è un fenomeno fondamentale per la sopravvivenza dei
piccoli esseri umani. Il processo di selezione, quindi avrebbe portano alla sopravvivenza degli individui in
grado di sviluppare attaccamento verso i genitori. Secondo questo approccio teorico, la formazioni di gruppi
sociali farebbe riferimento proprio a un sistema di attaccamento verso gli altri sviluppatosi nel corso
dell’evoluzione umana. Quindi, il fatto di identificarsi con gruppi etnici, nazioni, confessioni religiose,
organizzazioni lavorative e così via, rispecchierebbe il legame tra il bambino e la madre, e dunque si
baserebbe sulla creazione di una connessione tra l’individuo e il leader del gruppo. Così come il bambino non
può sopravvivere senza le cure di chi lo accudisce, allo stesso modo, l’individuo adulto non ha molte
probabilità di sopravvivenza al di fuori del gruppo sociale. Il motivo di questa dipendenza è spiegato da
Linnda Caporeal: la storia evolutiva dell’uomo è caratterizzata dalla presenza costante dei gruppi -> Gli
uomini non si sono mai relazionati direttamente con l’ambiente fisico, ma sempre attraverso la mediazione
del gruppo sociale. -> le aggregazioni umani permettono la divisione dei compiti, l’aiuto e la cooperazione
reciproci. Questo ha permesso la sopravvivenza del genere umano ed ha permesso lo sviluppo di mansioni
non strettamente legati alla sopravvivenza fisica (es. scienza, arte, filosofia), consentendo quindi lo sviluppo
delle civiltà umane. Il risultato di questo processo evolutivo è stata la creazione di una interdipendeza
obbligatoria: un essere umano, per sopravvivere, ha bisogno di altri esseri umani. Possiamo concludere che
l’uomo ha bisogno di appartenere a un gruppo sociale, anzi l’appartenenza al gruppo è una caratteristica
intrinseca della razza umana. Pertanto vi sono meccanismi mentali che hanno una precisa funzione nel
favorire l’inserimento degli individui in gruppi sociali. Questi meccanismi hanno bisogno di un prerequisito
fondamentale: il fatto che gli esseri umani siano dotati della capacità cognitiva di percepire se stessi come
membri di un gruppo. Questa capacità fa riferimento a un concetto chiave della moderna psicologia sociale:
l’identità sociale.
Henry Tjfel elaborò un programma di ricerca con l’intento di scoprire quale fosse il fattore determinante per
la formazione di un gruppo sociale. Progettò una serie di studi manipolando le variabili ritenute fondamentali
nella psicologia sociale dell’epoca: la coesione tra i membri, le loro relazioni interpersonali, il fatto di svolgere
un compito comune e così via. La situazione sperimentale creata nel primo studio era la seguente: ai
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partecipanti, ragazzi di scuola superiore, venne chiesto di scegliere, nelle coppie di diapositive presentate, il
quadro che preferivano. Successivamente vennero informati che per ogni coppia, uno era opera di Klee e
l’altro di Kandinskij. A questo punto, in base alle risposte da loro fornite, vennero assegnati al gruppo Klee o
gruppo Kandinskij. Poi i ragazzi dovevano distribuire somme di denaro ai partecipanti, sapendo solamente
quale fosse il gruppo di appartenenza. Emerse che i soggetti davano somme maggiori agli appartenenti del
proprio gruppo. Quindi, la semplice distinzione in 2 gruppi era stata sufficiente a produrre discriminazione.
Era stato sufficiente un processo di categorizzazione sociale per cerare due gruppi psicologicamente
rilevanti. Si scoprì dunque, che i fenomeni di discriminazione e pregiudizio sono normali, e sono la diretta
conseguenza della modalità di funzionamento della mente umana.
Ma perché la categorizzazione produce discriminazione? Quando gli individui vengono categorizzati in gruppi
sociali, diviene saliente un particolare tipo di identità, detta identità sociale. Essa è definita come quella parte
dell’immagine che una persona ha di sé derivante dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo sociale,
unita alle emozioni associate a tale appartenenza e alla valutazione data al gruppo. In altre parole, quando
una persona sente di appartenere a un gruppo sociale, in lei si verifica un processo cognitivo e motivazionale
che prende il nome di identificazione. L’identificazione con il gruppo porta la persona a percepirsi
cognitivamente come membro del gruppo, ovvero la porta a categorizzare se stessa all’interno del gruppo. In
secondo luogo, subentrano gli aspetti affettivi dell’appartenenza: la persona può sentirsi emotivamente
legata ai membri del gruppo. Infine, la persona deduca la valutazione di se stessa come positiva o negativa
dalla valutazione dell’intero gruppo. Come si stabilisce se il valore di un gruppo è positivo o negativo? Nella
teoria dell’identità sociale si ritiene che il processo chiave sia il confronto sociale, ovvero la comparazione
delle caratteristiche del proprio gruppo con quelle di altri gruppi presenti nell’ambiente. Dato che, almeno
nelle culture occidentali, le persone hanno un naturale bisogno di percepirsi in modo positivo, in altre parole
ricercano un’elevata autostima, tale confronto tenderà a essere “viziato”, in modo da valorizzare l’ingroup e,
di conseguenza, tutti i suoi membri.
Tuttavia, l’identificazione con l’ingroup non conduce sempre al pregiudizio. Questo può accadere solo in
determinate condizioni, quando vi è una forte rilevanza, per gli individui, del gruppo di appartenenza e della
percezione che il gruppo estraneo coinvolto sia un importante termine di confronto (per esempio quando si
percepisce che i membri dell’outgroup stiano minacciando l’esistenza o il valore dell’ingroup). Tajfel era
consapevole che non tutti i contesti sociali sono caratterizzati da una forte identificazione con i gruppi. Per
questo, propose un continuum di situazioni, che va dall’estremo interpersonale a quello intergruppi.
All’estremo interpersonale gli individui si comportano come singoli, senza tenere in considerazione le loro
appartenenze sociali. (Tajfel riteneva che questo estremo fosse unicamente teorico, irrealizzabile nella
realtà. All’estremo intergruppi le persone si identificano con un ingroup e trattano gli altri in base alla loro
appartenenza sociale. Questo estremo è molto più realistico del precedente (situazioni di guerra).
Quale tra le diverse appartenenze a disposizione in un particolare contesto sociale sarà quella prescelta?
Abrams e Hogg hanno proposto 2 ipotesi supplementari, o corollari, legate al ruolo dell’autostima. Il primo
corollario afferma che i fenomeni di favoritismo per l’ingroup portano a un aumento dell’autostima delle
persone, dato che l’immagine positiva dell’ingroup si trasferisce ai suoi singoli membri. Il secondo corollario
sostiene che le persone con bassa autostima saranno spinte, proprio allo scopo di raggiungere una migliore
immagine di se stessi, a favorire l’ingroup. La prima conclusione è che le persone cercheranno di
appartenere a gruppi di valore positivo. La seconda conclusione: saranno soprattutto le persone con bassa
autostima a essere propense a identificarsi con gruppi giudicati positivamente (la validità di questa ipotesi
non è stata mai realmente verificata). In conclusione, va sottolineato come legare il bisogno di appartenenza
ai gruppi sociali a semplice ricerca di autostima possa essere riduttivo: le persone che si aggregano in gruppi
non hanno certo tutte una bassa stima di sé, né si può dire che tutte le persone in difficoltà cerchino nel
gruppo sociale un modo per migliorare la propria condizione.
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Secondo la teoria della riduzione dell’incertezza soggettiva (Hogg, Abrams) la vita sociale degli individui è
caratterizzata dal tentativo di soddisfare un bisogno fondamentale: il bisogno di certezze. L’incertezza
relativa ai propri atteggiamenti, credenze, sentimenti e percezioni crea uno stato psicologico negativo, così
l’appartenere a un gruppo riduce l’incertezza. I gruppi sociali, infatti, forniscono una realtà convenzionale
condivisa che risulta rassicurante e convincente. Questa teoria può essere usata anche per spiegare i risultati
negli esperimenti dei gruppi minimali: è possibile che i partecipanti si fossero trovati in una situazione di
incertezza, non sapendo come utilizzare le matrici di scelta e come districarsi tra i codici numerici e i gruppi
Klee Kandinskij. Per eliminare questo stato negativo, essi potevano appigliarsi all’unico elemento certo:
l’appartenenza a gruppi. La categorizzazione ha ridotto lo stato negativo di incertezza soggettiva. Grieve e
Hogg ricalcarono il paradigma dei gruppi minimali proposto da Tajfel, ma apportarono alcune modifiche. Essi
produssero 4 differenti condizioni sperimentali: condizione di incertezza con categorizzazione, condizione di
incertezza senza categorizzazione, condizione senza incertezza con categorizzazione, condizione senza
incertezza senza categorizzazione. I risultati mostrarono come l’unica condizione in cui di verificava
favoritismo per l’ingruop era quella di incertezza con categorizzazione. Quindi, in presenza di
categorizzazione e quando vi era attivazione del bisogno di ridurre l’incertezza, gli individui tendevano a
giudicare l’ingroup più positivamente dell’outgroup. Questa era anche la condizione di identificazione più
elevata, confermando il fatto che il bisogno di ridurre l’incertezza spinge a identificarsi con il gruppo sociale.
(l’incertezza piò essere eventualmente risolta da norme sociali condivise e da fenomeni di conformismo).
L’appartenenza sociale, da un lato è un processo desiderabile e positivo, dall’altro l’essere eccessivamente
inseriti in gruppi sociali può dare luogo a sensazioni spiacevoli, di omologazione, di grigia conformità. La
teoria della distintività ottimale, proposta da Brewer, parte da questa contraddizione: da un lato percepiamo
la necessità di appartenere a un gruppo sociale, dall’altro sentiamo il desiderio di evitare il totale
conformismo. Gli esseri umani si trovano della difficile situazione di dover soddisfare due bisogni