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4. LA CONQUISTA DI UNA RICETTA MAGICA DA PARTE DELLA REGALITA’ MIRACOLOSA
Quale re, per primo, depose sull’altare l’oro e l’argento in cui dovevano essere fatti gli anelli medicinali?
Non lo sapremo mai. Ma dobbiamo supporre che quel principe, qualunque fosse, in quel giorno non fece
altro che imitare, senza alcun pensiero di monopolio, un’usanza comunemente diffusa attorno a lui.
Dacché in essi la gente vedeva, da tempo, dei guaritori di scrofole, si cominciò a immaginare che la forza
meravigliosa che ne emanava avesse egualmente una parte di influsso nella trasmissione del potere
sovrannaturale agli anelli.
In origine, verosimilmente, i re non procedettero alla consacrazione degli anelli con molta regolarità. Un
giorno, però, essi giunsero a considerarla, al pari del tocco della scrofole, come una delle funzioni normali
della loro dignità e si assoggettarono a praticarla, senza mancarvi quasi mai, ad ogni venerdì santo. Questo lo
stato delle cose rivelatoci per la prima volta da un’ordinanza, che regolava l’amministrazione del Palazzo,
promilgata a York da Edoardo II nel mese di giugno del 1323. E? il più antico documento che possediamo sui
cramp-rings.
Nella cappella stessa del Palazzo, il giorno di venerdì santo, i re non avevano ancora il monopolio del rito
consacratore; a quanto pare, le regine condividevano con essi il privilegio. Sappiamo da fonte certa che il 30
marzo 1369, a Windsor, Filippo, moglie di Edoardo III, ripeté dopo lo sposo i gesti tradizionali, deponendo
anch’ella sull’altare una certa quantità di argento e riscattandola poi per farne fabbricare anelli medicinali.
Ma per regola generale siamo molto meno informati sulle spese private delle regine che su quelle dei loro
consorti.
D’altro conto, in quel tempo, le cure ottenute per mezzo degli anelli non erano messe all’attivo del potere
taumaturgico dei re. L’arcivescovo Bradwardine che, precisamente sotto Edoardo III, presentavo il miracolo
delle guarigioni regali come uno dei più notevoli esempi di miracoli ch’egli potesse trovare, e si diffondeva a
lungo sul tema, intendeva con ciò soltanto il tocco delle scrofole; non troviamo in lui la più piccola allusione
ai cramp-rings. Questi cominciarono a essere posti fra le manifestazioni della virtù sovrannaturale dei re
soltanto un secolo dopo.
Il primo scrittore che abbia dato alla consacrazione degli anelli il diritto di cittadinanza fra le grazie divine
impartite alla monarchia inglese non è altri che quel Sir John Fortescue.
Originariamente, com’è noto, gli anelli erano coniati in un secolo momento, con l’oro e l’argento delle
monete deposte sull’altare durante la cerimonia del venerdì santo e poi fuse. Si finì per trovare più comodo
farli fare in precedenza e di portarli già pronti, nel giorno fissato. Furono essi ormi, e non più le belle monete
di un tempo, ad essere posti per un momento ai piedi della croce e poi riscattati mediante una somma
immutabilmente fissata in 25 scellini. L’usanza così trasformata restò in vigore sotto i Tudor.
In realtà, anche la presentazione degli anelli sull’altare cessò un giorno di essere il centro del rito. Per
l’appunto al testo di Fortescue sembra che si possa ricavare che già al suo tempo il re toccava gli anelli per
impregnarli della virtù miracolosa della sua mano.
CAP. 3 – LA REGALITA’ MERAVIGLIOSA E SACRA DALLE ORIGINI DEL TOCCO DELLE
SCROFOLE ALLA RENAISSANCE
1.LA REGALITA’ SACERDOTALE
Nella società cattolica, la familiarità con il sovrannaturale è riservata, di norma, a una classe di fedeli
rigidamente delimitata: i preti, ministri regolarmente consacrati al servizio di Dio, o per lo meno i chierici
ordinati. DI fronte a questi intermediari tra il mondo terreno e l’aldilà, i re taumaturghi, semplici laici, non
rischiavano forse di figurare come usurpatori? Proprio così li considerarono, lo sappiamo già, i gregoriani e i
loro epigoni, ma non la maggioranza dei contemporanei, perché agli occhi dell’opinione comune, i re non
erano pure laici. La dignità stessa di cui erano rivestiti li fregiava, così si credeva generalmente, di un
carattere quasi sacerdotale.
Nel medioevo, nessun monarca, per quanto potente o orgoglioso, si credette capace di celebrare il santo
sacrificio della messa e, consacrando il pane ed il vino , di fare discendere Dio stesso sull’altare. Honorius
Augustodunensis in un trattato composto poco dopo il 1123, può essere soltanto o chierico o laico o monaco;
ora non avendo ricevuto l’ordine, il re non è chierico dunque, è un laico.
Soprattutto verso il 1100 si precisa, al riguardo, la tesi dei fedeli della monarchia: la grande controversia
gregoriana aveva costretto i partiti a prendere posizioni, senza equivoci. Honorius Augustodunensis parla in
qualche punto di quei chiacchieroni che gonfi di orgoglio sostengono che i re non devono essere considerati
nel novero dei laici, perché sono unti con l’olio dei sacerdoti. Per es. Guido d’Osnabruck scrive nel 1084 o
nel 85 che il re deve essere messo al di fuori della folla dei laici, perché unto con l’olio consacrato, partecipa
del ministero sacerdotale. E un po’ più tardi, in Inghilterra, l’Anonimo di York: “Il re, cristo del Signore, non
può essere detto laico”.
In Francia e in Inghilterra i re cercarono, come altrove, di dominare la Chiesa, e vi riuscirono abbastanza
bene; ma fino alla crisi ecclesiastica degli ultimi due secoli del medioevo essi si astennero generalmente dal
fondare le loro pretese sul carattere quasi sacerdotale della regalità. In Francia, specialmente, la si nota
nell’abate Suger, storiografico quasi ufficiale, che fa cingere da Luigi VI, il giorno della consacrazione, la
spada ecclesiastica. E soprattutto, sotto Luigi VII, nel preambolo famoso del diploma del 1143, emesso in
favore dei vescovi di Parigi: “Noi sappiamo che, secondo l’Antico Testamento e, ai giorni nostri, secondo la
legge della Chiesa, soltanto i re e i sacerdoti sono consacrati con l’unzione del sacro crisma. Il testo sembra
affermare che la cura dei beni spirituali è riservata ai sacerdoti, che li procurano ai re, così come la cura dei
beni temporali è riservati ai principi laici.
In tutta la dogmatica cattolica, la dottrina sacramentale costituisce una delle parti più tardive: prese forma
definitiva soltanto sotto l’influsso della filosofia scolastica. Per lungo tempo, con il nome di sacramento si
intese, quasi senza distinzione, ogni atto che faceva passare un uomo o una cosa nella categoria del sacro.
Era allora naturale dare quel nome all’azione reale. Poi, durante il sec XIII, la teoria della Chiesa in materia
prese una forma più rigida. Furono riconosciuti soltanto sette sacramenti. L’ordinazione figurò fra quelli;
l’unzione reale, al contrario, fu esclusa. Così, tra l’atto che creava un sacerdote e quello che creava un re si
apriva un abisso. Applicare il sacramento all’unzione reale, significava dire esplicitamente che la
consacrazione per mezzo dell’olio santo operava nell’essere spirituale dei re una trasformazione profonda.
Era infatti ciò che comunemente si credeva. Samuele, si leggeva nel Libro dei Re, dopo aver versatp sul caèp
di Saul l’ampolla piena d’olio, gli aveva detto ”tu sarai mutato in un altro uomo”.
Poiché insomma non si poteva contestare che l’imperatore non fosse di più di un laico e che, d’altro canto,
non essendo atto a celebrare il sacrificio della messa, evidentemente non rivestisse la dignità sacerdotale, si
pensò di precisare la sua posizione nella gerarchia. Gli ordini dell’incoronazione, a partire del sec. XIII,
attestano lo sforzo ben preciso per assimilare la situazione ecclesiastica del capo temporale della cristianità a
quella di un diacono o più spesso di un suddiacono; il priore dei cardinali diaconi legge su di lui la litania
usuale nell’ordinazione dei suddiaconi; il papa gli dà il bacio di pace come a uno dei cardinali diaconi; al
termine di cerimonia il novello Cesare serve la messa del sommo pontefice, gli presenta il calice e l’acqua
alla maniera dei suddiaconi.
D’altro lato, sembra che gli imperatori occidentali, a partire dal sec XIV, abbiano preso molto sul serio
quella singolare immaginazione. Si era mirato a farne dei diaconi o dei suddiaconi; ebbene essi vollero
esercitare le funzioni diaconali, almeno in una delle principali feste dell’anno. Carlo IV, corona in capo,
spada in mano, leggeva in chiesa, il giorno di Natale, la settima lezione del mattutina.
I re di Francia non furono né diaconi né suddiaconi. E vero che negli ordini della consacrazione di Reims,
dopo il sec XIII, si trovano queste parole, a proposito della cotta che i re rivestivano dopo l’unzione: essa
deve essere fatta come la tunica di cui sono rivestiti i suddiaconi nella messa.
La consacrazione non era il solo atto che mettesse in luce il carattere quasi-sacerdotale dei re. Quando, verso
la fine del sec XII, ci si abituò a riservare rigorosamente ai preti la comunione sotto le due specie,
accentuando così energicamente la distinzione tra il clero e i laici, la nuova regola non venne applicata a tutti
i sovrani. Nella sua consacrazione, l’imperatore continuò a comunicare sia col pane sia col vino. In Francia,
Filippo di Valios si fece riconoscere da papa Clemente VI, nel 1344, una prerogativa analoga, e nemmeno
limitata a una circostanza particolare, come per l’imperatore, ma senza limitazioni di sorta; essa fu concessa
nello stesso tempo e alle medesime condizioni alla regina, al dica di Normandia, erede presuntivo al trono, il
futuro Giovanni II, e alla duchessa, sua moglie. Ci vollero i torbidi religiosi, che agitarono la cristianità del
sec XV, e le discussioni di cui la disciplina eucaristica fu allora l’oggetto per costringere i principi a
rinunciare, almeno parzialmente o temporalmente, alla duplice comunione.
Un grande poeta, l’autore della Chanson de Roland, ha tracciato nei suoi versi, sotto il nome prestigioso di
Carlomagno, l’immagine ideale del sovrano cristiano, quale lo si concepiva attorno a lui. Si osservino i gesti
ch’egli attribuisce al grande imperatore: sono quelli di un re-sacerdote. Quando Ganilone parte per la
pericolosa missione cui lo ha spinto l’odio per Orlando, Carlo facendo su di lui il segno della croce, gli dà
l’assoluzione. Quando verso il principio del sec XIII, un versificatore riprese l’antica versione in assonanze
per ridurla in rima, credette di doverla adattare al gusto del tempo anche nel contenuto religioso. Soppresse
perciò l’assoluzione data a Gentilone; conservò soltanto la benedizione