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LA COMPOSIZIONE E LE RAGIONI DELL’OPERA
Gli Asolani sono l’opera in cui il Bembo tratta del problema d’amore; furono composti fra
il 1497 e il 1502 – con una revisione tra il 1503 e il 1504 – e pubblicati a Venezia, presso lo
stampatore Aldo Manuzio, nel 1505. Nel periodo della composizione Bembo aveva
affrontato vari spostamenti: nel 1500, dopo tre anni di soggiorno ferrarese, si era trasferito
a Venezia, dove si era innamorato della nobildonna Maria Savorgnan; si ascrive invece ad
un nuovo trasferimento a Ferrara, avvenuto tra il 1502 e il 1503, il sentimento d’amore
nutrito per Lucrezia Borgia. L’intellettuale veneziano aveva poi fatto ritorno a Venezia in
seguito alla morte del fratello Carlo, avvenuta nel 1503. Alla prima edizione degli Asolani
ne seguì un’altra, fortemente rielaborata (anche alla luce delle Prose della volgar lingua),
nel 1530, e anche una terza, postuma (1552).
Prose della volgar lingua, Gli Asolani, Rime,
1 P. Bembo, a cura di C. Dionisotti, Milano,
Tea, 1989, p. 26.
Ivi
2 pp. 26-7. 1
L’ultimo trentennio del Quattrocento aveva visto il recupero e la traduzione dei testi di
Platone ad opera del filosofo toscano Marsilio Ficino, il quale conciliò il pensiero platonico
con i principi del cristianesimo: infatti, per Ficino, la realtà deriva dall’uno-Dio, l’universo
è ordinato secondo vari gradi di perfezione, e in questa gerarchia ontologica l’anima umana
esercita una funzione unificatrice e mediatrice, in quanto, essendo insoddisfatta del finito,
si apre all’infinito e ne partecipa, unificando in sé Dio e gli angeli da un lato e la materia
dall’altro. Dio crea il mondo e lo governa in virtù dell’amore ed è sempre in virtù
dell’amore che l’anima svolge la sua funzione unificatrice nel tentativo di risalire a Dio. Il
Dio di Ficino somiglia molto al Dio della tradizione cristiana, da cui gli esseri derivano per
amore.
La speculazione ficiniana aveva rimesso in gioco il dibattito sull’amore, superando la
concezione di matrice ovidiana dell’inutilità di questo sentimento. Tuttavia si trattava
sempre di teorizzazioni relative ad un amore spirituale, ascetico, mentre progressivamente
prendeva piede la pratica di una poesia volgare incentrata sull’amore concreto per la
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donna; la donna assumeva infatti sempre più importanza, anche nelle conversazioni degli
uomini. Gli Asolani nascono dunque, oltre che da motivazioni interiori (le esperienze
amorose del Bembo sono note grazie ai carteggi), in questo contesto, da questa necessità di
rendere «nella lingua comune a uomini e donne il bene e il male di quel che era il nodo dei
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loro rapporti, l’amore». LA MATERIA
L’opera si presenta come un dialogo intercorso tra sei giovani (tre ragazzi e tre ragazze) e
tenutosi in tre giornate nel giardino della villa ad Asolo di Caterina Cornaro (regina di
Cipro); gli Asolani hanno un carattere per lo più prosastico, tuttavia viene lasciato notevole
spazio all’inserzione di poesie, recitate di volta in volta dai vari personaggi.
Dopo una breve premessa sull’utilità paideutica dei racconti altrui, il narratore ci informa
che la regina di Cipro, Caterina Cornaro, aveva organizzato nella sua villa ad Asolo i
festeggiamenti per il matrimonio di una sua damigella; è in questo contesto che tre giovani
(si evince dal testo che hanno 26 anni), appartenenti all’alta società veneziana e studiosi di
lettere, discutono sulla natura dell’amore rappresentando il loro punto di vista al cospetto
di tre belle donne, sposate e di pari condizione sociale. Il primo di loro, Perottino, sostiene
la tesi della necessaria infelicità di amore; in particolare sostiene che l’amore ha in sé solo
Ivi,
3 p. 16.
Ivi,
4 p. 17. 2
l’amaro, il quale a sua volta ha come unica causa l’amore. Tutti i mali, a detta del giovane,
sono classificabili in tre tipologie: mali dell’animo, della fortuna e del corpo. E dunque se
il corpo prova dolore, ciò è perché ama la sua sanità, se invece ci impoveriamo siamo
addolorati a causa del nostro amore per le ricchezze. Anche in letteratura l’amore è definito
in termini negativi: è crudele, acerbo, fiero. Amore fu divinizzato dagli antichi proprio per
il grande potere che era in grado di esercitare sulle menti umane e per i grandi miracoli che
poteva compiere a danno dell’uomo.
Chi ama va incontro volentieri alla morte, o per porre fine ai propri dolori o per suscitare
pietà nell’amata almeno una volta; lo stesso Perottino ha pianto a lungo per un amore
infelice e il pianto ha bagnato le fiamme dell’amore: l’amante rischia di morire o perché è
arso dall’amore o perché è dissolto dalle lacrime, ma in qualche modo questi due mali si
compensano ed egli rimane in vita.
L’amante non possiede mai completamente l’oggetto del suo amore perché esso non è
compreso in lui: per questo amore senza amaro non è possibile. Del resto l’amore sta alla
base dell’eccesso di desiderio, che a sua volta origina tutte le nostre passioni; il desiderio
eccessivo, nello spingerci a cercare le cose, ci conduce a pericoli e miserie.
Quando l’amante perde l’oggetto del suo amore non subisce una morte fisica, ma non si
sente più vivo e ciò lo porta a enormi sofferenze – sofferenze in cui si trova anche
Perottino stesso, che unisce alle proprie parole un pianto sconsolato.
Il giorno seguente prende la parola Gismondo, che, per affermare l’idea che amore sia
all’origine di tutti i beni, contesta le opinioni dell’amico. Infatti, se davvero ogni amaro
procede da amore, allora ogni dolcezza dovrebbe derivare da odio – che è appunto il
contrario dell’amore. Ma da odio non procede dolcezza, bensì tristezza; noi proviamo
dolore se ci impoveriamo, ma la causa risiede non nell’amore, bensì nei colpi della sorte.
Se fosse l’amore per le ricchezze a farci dolere, ci dorremmo sempre, anche possedendole.
Al contrario, l’amore ci fa apparire dolci le cose che la fortuna ci offre. In campo letterario,
osserva Gismondo, sono narrati anche i piaceri dell’amore, non solo gli amori infelici;
l’idea di Perottino che ci siano amanti che tornano in vita mentre muoiono e altri che
muoiono nel vivere non è che una favola, in quanto amore non può determinare ciò che
nemmeno la natura è in grado di fare. Diceva inoltre Perottino che l’uomo soffre quando
non gode di ciò che ama; ma l’uomo non può godere di ciò che non è tutto compreso in lui;
ne deriva che l’uomo ama sempre soffrendo. Ma Gismondo confuta l’argomento
sostenendo che si può amare noi stessi – che siamo dentro di noi – e che, se smettessimo di
amare tutti, avrebbero fine anche le consuetudini reciproche dei mortali. E non si vede
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come ciò sia possibile anche secondo le parole di Perottino, che aveva affermato che amore
è cosa necessaria in quanto voluta da natura.
A parere di Gismondo non può essere doloroso, ma soltanto piacevole, amare un uomo di
valore, una santa donna, le paci, i costumi lodevoli; tutte queste cose sono al di fuori di noi
così come il cielo e Dio: ma dall’amore per queste cose alte, belle e beate non può venire
cosa misera. Gismondo racconta anche, a sostegno della sua tesi, il mito platonico
dell’androgino, secondo il quale amare una donna significa amare l’altra metà di se stessi.
I filosofi dividono il nostro animo in due parti: in una pongono la ragione, nell’altra le
perturbazioni. Dei quattro affetti, desiderio, allegria, sollecitudine, dolore, i primi tre
possono essere buoni o meno, mentre l’ultimo appare sempre cattivo e risiede sempre nelle
perturbazioni. In quest’ultima parte dell’animo si collocano i movimenti non naturali; e
dunque, se, come aveva detto Perottino, amore è fatto naturale, come può collocarsi sulla
strada delle perturbazioni?
Non sono veramente amanti coloro che hanno disposto male gli affetti del loro animo nelle
cose desiderate o cercate; il vero amante, insomma, non vorrebbe avere ciò che non può.
Del resto l’amore è la ragione di tutte le cose; a questa affermazione, Berenice obietta che,
se così fosse, amore deve dare origine anche ai mali. Ma Gismondo risponde che amore è
alla base del bene che facciamo, mentre, se facciamo il male, questo va attribuito a qualche
disordinato e non naturale appetito. Agli amanti proviene piacere attraverso i sensi, nonché
attraverso il pensiero: a chi non ama non piace nulla e di conseguenza non pensa a nulla; le
dolcezze del pensiero sono insomma riservate agli amanti. In conclusione amore giova a
tutti e insegna molte cose.
Da ultimo interviene Lavinello, secondo il quale amore può essere buono o reo a seconda
della qualità del fine – determinato dalla nostra volontà: se amiamo una donna onesta e
valorosa e le sue parti dell’animo più che quelle del corpo, allora amore si considera
buono, mentre al contrario è reo. Il buono amore è desiderio di bellezza che nasce dalla
proporzione, convenienza e armonia. Per Lavinello ciò che si cerca con olfatto, tatto e
gusto (e non con vista, udito e pensiero) non coincide con il buono amore. Il giovane
continua il discorso recitando tre canzoni sulle tre innocenti maniere di diletti. Riferisce poi
di un suo incontro, avvenuto quella mattina, con un anziano signore, il quale anche
propone un suo punto di vista sull’amore; secondo il Romito, amore e desiderio non
coincidono: infatti noi possiamo amare anche ciò che non desideriamo – come ad esempio
tutte le cose che già possediamo – così come è possibile talvolta odiare qualcosa senza
temerla. 4
A volte scegliamo, come oggetto del nostro amore, cattivi obiettivi; ciò perché seguiamo il
senso e non la ragione. Viene poi spiegata la dottrina dei gradi, da cui deriva che ciò che
distingue gli uomini dalle altre specie è proprio la ragione; se l’uomo l’abbandonasse, si
snaturerebbe, proprio come una belva che perdesse i suoi appetiti.
Il nostro animo ci fu concesso da un dio, e, nonostante la prigionia del corpo, è sempre
desideroso di tornare a lui; le bellezze costituiscono però un incentivo a non dimenticare il
divino. La parte migliore della vita coincide con quella in cui l’animo viene liberato dalla
schiavitù degli appetiti. Il buono amore non è desiderio di bellezza e basta, ma della vera
bellezza, che è divina e immortale.
A questo punto si colloca la favola delle Isole Fortunate, allegoria di un tipo di giudizio
univer