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Tragedie, dibattiti e trattati non furono che l'aspetto più evidente, compatto e ideologicamente organizzato, di
complessi insiemi di attività teatrali, che condizionarono in concreto i repertori, la cultura e le prassi dei
professionisti, modificando i loro contesti operativi.
Nel corso del secolo, le posizioni degli intellettuali nei confronti del teatro presentano differenze e svolte, che
riflettono sia l'immissione di nuovi modelli, sia le emergenze spettacolari del momento, e descrivono nell'
insieme un campo di applicazioni culturali suscettibile di adattamenti e oscillazioni. Nel periodo che corre dai
primi fermenti della riforma letteraria fino alle istituzionalizzazioni del periodo giacobino, individuiamo 3
successive tendenze. Lungo la prima fase, che inizia con la fondazione dell'Arcadia (1690) e culmina nella
formalizzazione delle nuove forme tragiche, si viene via via a radicare un pensiero teatrale che percepisce le
particolari realtà dello spettacolo italiano in quanto insieme di carenze, irregolarità e difetti, e si riferisce
soprattutto ai testi della rinata drammaturgia letteraria, visti come modelli e strumenti d'attuazione del teatro
quale avrebbe dovuto essere. Fra gli esiti di questo periodo ricordiamo: la riattivazione in senso normativo
della Poetica di Aristotele; la nascita della storia del teatro come storia dei generi; la caduta in disuso delle
forme di esposizione praticate dalla trattatistica del '600; la perdita di interesse per la conservazione dei
documenti sugli spettacoli.
Verso la metà del sec., la riflessione si fa più articolata e flessibile, estende il proprio interesse all'opera, la
recitazione e i teatri materiali. Il rinnovamento degli studi venne in gran parte suscitato dalle manifestazioni
della drammaturgia professionale, che fornirono al dibattito colto argomenti contemporanei e noti a una larga
base sociale. Tuttavia i nuovi repertori finirono per confermare le proiezioni, le diffidenze e i valori dell'
ideologia riformista. Non solo la riforma era venuta dai testi, ma sembrava anche essersi fermata ad essi. Sia
teatro musicale che recitato seguirono percorsi di mutamento opposti a quelli indicati dai drammaturghi. Nel
primo, prese sempre maggiore importanza una vocalità virtuosistica e indifferente ai valori drammatici; nel
secondo, si assestò uno stile recitativo di tipo declamatorio, tendente a suscitare forti emozioni e basato sulle
energie fisiche dell'attore. Eccitati dall'irruzione di Metastasio e Goldoni e poi disillusi dai successivi sviluppi
del teatro professionale, gli intellettuali svilupparono 2 tendenze complementari: da un lato, approfondirono il
proprio interesse nei riguardi del testo, dall'altro, individuarono la necessità di riferirsi a un garante
istituzionale, che imponesse alle strutture produttive l'esecuzione e il rispetto dei repertori letterari. Il teatro
italiano continuò ad essere visto come una realtà del passato costantemente sul punto di vista del risorgere, ma
ancora lontana da questa meta.
Le opere della grande drammaturgia professionale alimentarono una trattatistica che si rivolgeva in linea di
principio contro il teatro esistente, mentre di fatto contribuiva a formare un substrato culturale permeato dai
gusti e dalle emergenze dell'epoca. Nel secondo '700 Signorelli indica nelle prassi spettacolari contemporanee
la tomba del teatro e di chi lo studia. A partire dagli anni '70, gli interventi degli intellettuali vennero
improntati a una più concreta articolazione progettuale. Questa caratteristica derivava dall'emergere di una
sensibilità civile che vedeva nelle manifestazioni pubbliche altrettante occasioni per celebrare e formare
culturalmente l'intera comunità. Nell'insieme, la civiltà teatrale nel '700 si configura come un'armonia fondata
su prassi e culture diverse, che si traducono ognuna in evidenti manifestazioni sceniche o letterarie, le quali
irradiano sul contesto generale un'influenza discontinua ma incisiva, oppure lo modificano attraverso i sistemi
di relazione attivati nel giungere a compimento.
Il pubblico.
I viaggiatori stranieri che visitarono l'Italia nel corso del '700 descrivono un pubblico teatrale turbolento,
brulicante, occupato da conversazioni mondane e da giochi di società, ma anche capace di entusiasmarsi fino a
perdere il controllo di sé. Un quadro d'insieme ci mostra come le differenze fra i teatri europei non
riguardassero soltanto i vari aspetti formali, di ordine architettonico, letterario, musicale e recitativo, ma
investissero il rapporto nodale spettatore/spettacolo. Dalle osservazioni degli italiani all'estero, siano essi
avventurieri o intellettuali d'alto livello, traspare la comune abitudine a percepire gli spettacoli in quanto fonti
di piaceri sensuali che non implicavano affatto l'attivazione di norme comportamentali specifiche, come
l'immobilità, il silenzio e l'attenzione al referente letterario. In Italia, al posto di un codice di fruizione forte e
riconosciuto rinveniamo un instabile equilibrio di reazioni e comportamenti, la cui dinamica è deducibile da
gruppi di documenti di diversa entità. Sia i trattatisti che i corrispondenti e i viaggiatori vedono nelle azioni e
nei comportamenti del pubblico italiano una specie di irregolarità generalizzata che viene via via accolta con
curiosità, ironia, disprezzo o con l'inquietudine di chi riconosce una pericolosa scissione fra i principi culturali
e le manifestazioni collettive della propria civiltà.
Il pubblico italiano non era un'unità, ma un insieme di gruppi sociali gerarchicamente ordinati e disposti in
zone diverse della sala: l'aristocrazia e i ceti abbienti prendevano posto nei palchetti, mentre la piccola
borghesia, il popolo e i servitori della nobiltà presente assistevano dal parterre e dall'ultimo ordine di logge
detto “piccionara”. Una volta dentro il teatro, gli aristocratici e i loro accompagnatori non assumevano un
contegno informato dalla necessità di seguire e far seguire lo spettacolo, ma seguitavano a praticare senza
alcuna soluzione di continuità le forme di intrattenimento e relazione consone al proprio grado sociale. Nei
palchetti si conversava, si mangiava, si giocava a carte, e ci si celava alla vista tirando una tendina. Di certo, il
piacere di mettersi in scena e costituire di per sé uno spettacolo fu tra le cause della grande passione della
nobiltà per il teatro. Ben più determinante, sia da un punto di vista economico che per quanto riguarda la
strutturazione gerarchica del pubblico, era il privilegio che consentiva ai dipendenti o familiari dei personaggi
altolocati di accedere al teatro gratis o pagando prezzo ridotto. Non tutti i governi italiani considerarono con
eguale grado di condiscendenza questa prassi che ledeva gli interessi degli impresari.
Sprovvista di luoghi deputati era la borghesia abbiente. Nei teatri del '700, questa classe tende a mimetizzarsi
infiltrandosi ai margini dell'area nobiliare. Per individuarne le posizioni occorre precisare che il prezzo e il
significato sociale dei palchi erano connessi alla modalità del loro possesso e risultavano inversamente
proporzionali al num. dell'ordine. Uscendo dalla prestigiosa fascia centrale si entrava in una zona intermedia
spesso tenuta a disposizione degli impresari, dove i borghesi, e non solo loro, trovavano una sistemazione
confacente al proprio stato. Naturalmente le maggiori possibilità finanziarie della borghesia e la consuetudine
di subaffittare i palchi determinarono una certa promiscuità sociale, che non implicava però il cancellamento
delle distinzioni aristocratiche.
La composizione sociale del pubblico del loggione e della platea variava a seconda dei teatri e dei generi
spettacolari, tuttavia, anche alle costose rappresentazioni dell'opera seria intervenivano numerosi artigiani e
piccoli commercianti. In Italia, il basso costo dei biglietti consentiva la presenza di una base popolare di medio
livello, che in certi teatri scendeva ulteriormente di grado facendo della platea un ambiente malfamato, dove ci
si recava con grave pregiudizio del proprio decoro e integrità fisica. Il pubblico popolare è oggetto di
numerose e divergenti descrizioni; alcuni contrapponendolo alla nobiltà che si annoia ad ascoltare, ne lodano
la sensibilità drammatica e le competenze musicali, altri rievocano con sgomento la violenza delle sue reazioni
(spesso grida e fischi imponevano agli attori sgraditi di uscire di scena). Così come la nobiltà importava
all'interno dei teatri i comportamenti del bel mondo, il pubblico popolare infiltrava nello spettacolo una
partecipazione attiva e socialmente connotante fatta di incitamenti, ingiurie ed esplosioni di entusiasmo.
In Italia il pubblico esercitava il diritto di esprimere le proprie valutazioni estemporanee, che, osservate
dall'esterno, suscitavano l'impressione di un'immotivata anarchia, mentre, dall'altra parte, coglievano tutt'altro
che impreparati i professionisti della scena, le cui forme spettacolari si connettevano perfettamente al modo di
fruizione della sala. Le reazioni del pubblico popolare non erano però la sola forma di contatto fra la sala e
l'accadere scenico; i rapporti fra la nobiltà e gli artisti si traducevano infatti in veri e propri partiti che,
sostenendo questo o quel virtuoso/attore/teatro, sfogavano una competitiva volontà di autoaffermazione. La
partecipazione passionale del popolo e quella ostentata degli aristocratici costituivano un composto instabile,
in cui bastava una scintilla affinché le emozioni si propagassero facendo di questo insieme di fazioni e gruppi
sociali un pubblico unitario. In quei momenti, la composita folla degli spettacoli assumeva gli impulsi e la
logica di una massa che partecipa a un fatto reale.
Scorrendo le testimonianze dell'epoca, si ha l'impressione che l'indifferenza rivolta alla tessitura d'insieme
dello spettacolo fosse la condizione per poter provare emozioni intense e dirette, che non tolleravano sviluppi
o prolungamenti, ma solo ripetizioni. Accanto alle manifestazioni di un pubblico presente in quanto folla,
incominciava a costituirsi un comportamento riconoscibile come “teatrale” e basato sull'adesione a un corpus
di norme e convenzioni mirato a garantire l'ordine e il buon funzionamento dei teatri. Lentamente le micro-
città teatrali del '700 svaporavano nel contesto dell'istituzione. Per articolare una più precisa fenomenologia
dello spettatore settecentesco basta individuare i due corni essenziali del problema: 1) i momenti di piena
corrispondenza emotiva e l'allucinata percezione che assimilava gli eventi drammatici a dei fatti reali,
individuano una sola forma di fruizione che consisteva nella pura e semplice ricezione sensoria dell'accadere
scenico; lo spettacolo veniva quindi percepito come as