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La politica demografica fascista e le sue conseguenze

Lo Stato fascista in Italia implementò diverse misure per controllare la popolazione, tra cui il divieto di controllo delle nascite, la censura sull'educazione sessuale e l'imposizione di una tassa speciale sui celibi.

La politica demografica fascista aveva una doppia faccia. Da un lato, era fortemente normativa. Gli esperti ritenevano che le donne non fossero sufficientemente preparate alla maternità e che potessero generare una prole "anormale". Per correggere queste presunte mancanze, lo Stato fascista cercò di modernizzare il processo di parto e la cura dei figli.

D'altro canto, la politica fascista in difesa della razza giustificava una politica di non intervento, almeno per quanto riguardava i cittadini più poveri. Le conseguenze di questa politica bifronte furono gravi. Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, desideravano avere meno figli e praticavano una pianificazione familiare basata principalmente sull'aborto.

Dato che gli aborti erano tutti clandestini, le donne correvano elevati rischi di infezioni invalidanti e di danni fisici permanenti.

morte.

La politica del lavoro

Il fascismo teorizzava una rigida divisione del lavoro: gli uomini si occupavano della produzione e del sostentamento della famiglia; le donne della riproduzione e del governo della casa. Anche i dirigenti fascisti erano però sufficientemente realistici da riconoscere che le donne lavoravano; secondo i dati forniti dal censimento del 1936 il 27% dell'intera forza lavoro era costituito da donne, e circa il 25% delle donne in età da lavoro possedeva un'occupazione. La caratterizzazione sessuale favorì la femminilizzazione dei lavori impiegatizi e in conseguenza della legge Sacchi del 1919 le donne vennero riconosciute idonee alla maggior parte degli impieghi statali, tranne alcune eccezioni fra cui le principali riguardavano le forze armate e la carriera giudiziaria e diplomatica. Alla fine, il fascismo sviluppò la legislazione per impedire alle donne di competere con gli uomini sul mercato del lavoro e per tutelare le madri lavoratrici.

Ma lo scopo era anche di impedire che le donne considerassero il lavoro retribuito il trampolino di lancio per l'emancipazione. Mentre il lavoro era indispensabile alla costruzione di una solida identità maschile, come dichiarò Mussolini, "il lavoro distrae dalla generazione, fomenta un'indipendenza e conseguenti mode fisiche - morali contrarie al parto". Alla metà degli anni '30 esistevano svariate misure discriminatorie. La legge fascista sul lavoro, vietando gli scioperi e centralizzando le trattative sindacali, danneggiò gli interessi dei lavoratori in generale. Ma colpì in modo particolare le lavoratrici abbassando i salari maschili a livelli competitivi con quelli delle donne e dei ragazzi e favorendo infine i lavoratori più avvantaggiati, vale a dire quelli specializzati, quelli con maggiore anzianità e quelli impiegati in settori di importanza politica la maggior parte dei quali erano uomini. Una seconda

La forma di discriminazione era costituita dalle significative innovazioni introdotte dalla dittatura nel campo della legislazione protettiva. Nel 1938, le lavoratrici avevano obbligatoriamente diritto di un congedo di maternità della durata di due mesi coperti da sussidio di maternità pari alla paga media percepita nello stesso arco di tempo, a un congedo non retribuito lungo fino a sette mesi, e a due pause giornaliere per l'allattamento finché il bambino non avesse compiuto un anno. Questi provvedimenti combaciavano con il più efficace tipo di misure discriminatorie vale a dire le leggi di esclusione vere e proprie. Il provvedimento più drastico fu il decreto legge del 5 settembre 1938 che fissò un limite del 10% all'impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. La politica fascista nei confronti del lavoro femminile mostrò quindi una serie di paradossi. Il regime cercò di saziare la fame industriale di manodopera.

A basso prezzo, la quale avrebbe potuto essere soddisfatta tanto alle donne che agli uomini. Intendeva però assicurare il mercato del lavoro ai capi famiglia maschi, per non rischiare di intaccare l'amor proprio che si trovavano disoccupati e per non incidere sulla sanità della razza e la crescita demografica. I legislatori fascisti affermavano di voler escludere dal lavoro le donne. Ma sapendo che ciò non sarebbe accaduto, si misero a proteggere le lavoratrici nell'interesse della stirpe. Contando sui vecchi pregiudizi sessuali del mercato del lavoro la dittatura emanò norme protettive, diffuse atteggiamenti discriminatori e promulgò leggi di esclusione. Il primo effetto fu di riservare agli uomini i posti di alto prestigio e sempre meglio retribuiti all'interno della burocrazia statale, frenando la tendenza verso la femminilizzazione dei lavori d'ufficio almeno nelle amministrazioni centrali dello stato. Incapaci di difendere il

Proprio diritto al lavoro sulla base della parità sessuale, le lavoratrici ridimensionarono aspirazioni e rivendicazioni. Per giustificare il bisogno di lavorare addussero a pretesto la "necessità famigliare", o il fatto che si trattava solo di un ripiego temporaneo, oppure che i posti da loro occupati erano troppo umili o troppo segnatamente femminili per essere adatti agli uomini. Le professioniste stesse, che una volta avevano fatto causa comune con le donne della classe operaia e adesso erano organizzate in istituzioni fasciste del tutto separate legittimarono questi atteggiamenti. Esse difendevano il diritto femminile di accedere alle carriere purché non contrastasse con i doveri familiari, e sostenevano la formazione professionale delle donne nei ruoli di assistente sociale, di infermiera e di insegnante, tutte occupazioni che oltre ad addirsi in modo particolare alle qualità femminili davano maggiore assicurazione di promuovere il progresso nazionale.

6“L’Occupazione femminile, ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione, fomenta unaindipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”(Mussolini in un articolo di giornale del 1930)

La mobilitazione femminile di massa cominciò solo all’ inizio degli anni ’30. Il primo appello per aumentare l’iscrizione ai fasci femminili fu lanciato all’ inizio della depressione; le volontarie appartenenti alle classisuperiori dovevano “andare verso il popolo” prestando la propria opera nelle cucine popolari e negli ufficidell’ assistenza sociale, per nutrire o assistere i poveri. Il successivo appello fu rivolto alle “donne d’Italia” altempo della guerra d’ Etiopia, allo scopo di rendere ogni famigli resistente contro le sanzioni imposte dallaSocietà delle Nazioni. Il terzo appello tentò di trasformare “l’ amore di patria” delle donne in una

più penetrante e attiva "sensibilità nazionale"; ciò avrebbe dovuto prepararle alla guerra totale e far crollare ogni distinzione tra dovere privato e servizio pubblico, tra abnegazione personale, interessi della famiglia e sacrificio sociale. Alla fine il sistema fascista di organizzazione delle donne fu messo alle strette da un paradosso. Il compito delle donne era la maternità. Come "custodi del focolare" la loro vocazione primaria era quella di procreare, allevare i figli e amministrare le funzioni familiari nell'interesse dello Stato. Ma per poter eseguire questi doveri occorreva che fossero coscienti delle aspettative della società. Se non fossero state tratte fuori dell'ambito familiare dai nuovi impegni, sarebbero state incapaci di congiungere gli interessi singoli a quelli della collettività. In linea di massima, durante il fascismo la via che conduceva fuori dal focolare domestico non portò

all'emancipazione ma a nuovi doveri nei confronti dello Stato, non all'autonomia ma ad obbedire a nuovi padroni. Il fascismo decise fin da principio di trattare le donne come un'entità unica legando il loro comune destino biologico di "madri della razza" alle ambizioni dello Statonazionale. Le leggi, i servizi sociali e la propaganda affermavano la suprema importanza della maternità; tuttavia la povertà, il magro sistema di assistenza sociale e infine la guerra resero l'essere madre un'impresa assai ardua. Il patriarcato fascista fu quindi il prodotto di un'epoca in cui la politica demografica si identificava strettamente con la potenza nazionale. Attraverso il mercato del lavoro e le gerarchie d'autorità all'interno dell'unità familiare, esso scaricò il maggior peso possibile sulle donne. Cenni di costume La mancanza di potere politico, o forse proprio per questo, conferivaalle donne un particolare ascendente nei confronti di un pubblico di lettrici in grande espansione nel periodo interbellico. Sotto la dittatura le donne scrittrici e critiche poterono sperimentare la loro fama attraverso i libri, riviste prettamente femminili e le colonne dell'"Almanacco della donna italiana". Gli argomenti trattati esprimevano le esigenze del pubblico ed erano legate all'osservazione della vita quotidiana, parlavano d'amore, maternità, classe sociale e razza. Alla fine degli anni Venti, i romanzi avevano per lo più come protagonisti donne innamorate abbandonate da uomini volgari, aspiranti artiste costrette a scegliere fra carriera e famiglia, eroine lacerate dal dilemma tra passione e dovere. Nel 1930 il Gran Consiglio del Fascismo dichiarò che anche se la donna si fosse dimostrata abile nello sport non doveva distogliersi dal suo ruolo più importante: essere una buona madre. Ma nel 1936 l'italiana Ondina Valla

conquistò la medaglia d'oro nel salto ad ostacoli durante le Olimpiadi di Berlino. L'anno dopo la partecipazione delle donne ad attività sportive registrò circa 5000 partecipanti.

Negli anni '30 nasce a Roma Cinecittà, la città del cinema. Nacque con lei una realtà virtuale a misura dei sogni, tutto sommato modesti, dell'italiano di Mussolini, in produzioni cinematografiche che aderivano al gusto del divertimento diffusosi nelle platee italiane.

Al fascismo si deve anche il lancio della moda italiana. Il regime ebbe sempre verso la moda un rapporto ambiguo: ritenendola un fenomeno frivolo, la incoraggiava soltanto per fini economici. La moda tuttavia fu un ingrediente fondamentale di quella tipologia piccolo-borghese che si riconobbe nel fascismo: all'eleganza non si voleva non si doveva rinunciare e la "signora" piccolo borghese misurava il proprio benessere contando il numero dei cappellini conservati nella

cappelliera (che le distingueva dalle donne dei ceti inferiori che andavano a testa nuda oppure raccoglievano i capelli nel fazzoletto, come in campagna). Nell'arte culinaria il fascismo non manca di appellarsi alla sobrietà e all'autarchia e promuove una rigorosa
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Publisher
A.A. 2007-2008
17 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/04 Storia contemporanea

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher trick-master di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia sociale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Bologna o del prof Sorcinelli Paolo.