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IV
il 25 gennaio 1924 fu emanato il decreto di scioglimento della camera e le elezioni politiche furono indette
per il 6 aprile 1924. Il partito dominante aveva mezzi e poteri legali e illegali per assicurarsi la vittoria. La
legge Acerbo aveva posto le condizioni per una maggioranza parlamentare precostituita. La strategia del
PNF nei confronti dei partiti che lo avevano aiutato a insediarsi al potere divenne chiara (“il partito fascista
respinge nettamente ogni proposta di alleanza elettorale”): porre tutti gli altri partiti in posizione
subordinata, agendo allo stesso tempo per favorirne il declino sia tramite la distruzione per azione
diretta, sia con l’assorbimento.
Il principale artefice e coordinatore di questa strategia d’azione contro i partiti era Michele Bianchi,
segretario del PNF e segretario generale all’Interno. Fu questa la sorte che toccò al Partito sardo d’azione,
che rappresentava il maggior ostacolo per l’insediamento nell’isola: la fusione avvenne il 26 aprile 1923.
La strada perseguita da Mussolini per disgregare il PPI fu, da una parte, l’azione diretta contro le sedi ed
esponenti locali, accusati di antifascismo, e dall’altra la pressione esterna esercitata tramite il Vaticano, con
il quale Mussolini avviò subito una politica di apertura.
Fin dal 30 dicembre 1922 Mussolini aveva dato personalmente l’ordine di arrestare tutti i delegati al IV
congresso dell’Internazionale a Mosca, fra i quali Bordiga e Gramsci: per effetto della repressione il numero
degli iscritti al PCd’I calò rapidamente. Altro bersaglio fu la stampa dei partiti antifascisti.
Molti notabili del liberalismo, come Salandra e Orlando e lo stesso segretario del PLI, si lasciarono
aggregare.
Visto il clima di violenze, il partito comunista, guidato da Gramsci, propose la tattica del fronte unico, ma la
proposta fu respinta da Matteotti, il quale temeva che un blocco dei partiti operai avrebbe precluso la via
ad un accordo con le forze democratiche borghesi (“il nemico è attualmente solo uno:il fascismo. Complice
involontario del fascismo è il comunismo”).
Le elezioni del partito dominante avevano portato alla camera una nuova classe politica in camicia nera,
che rappresentava anche la generazione delle trincee. Infatti, i dati più significativi della nuova camera
riguardano la maggiore rilevanza del combattentismo e del giovanilismo, che ovviamente erano anche i
caratteri distintivi dei dirigenti del PNF. I risultati elettorali erano per i fascisti una clamorosa conferma alla
pretesa del loro partito di essere considerato l’unico, autentico interprete della nuova Italia nata dalla
guerra.
Il 30 maggio Matteotti denunciò la violenze, le illegalità e i brogli commessi dai fascisti durante la campagna
elettorale. Il 10 giugno Matteotti veniva sequestrato e Ucciso. L’uccisione del deputato socialista
rappresentava l’episodio più grave di una lunga serie di aggressioni e omicidi. Il 13 giugno i partiti di
opposizione approvarono un ordine del giorno col quale deliberavano di astenersi dal partecipare ai lavori
della camera.
I partiti antifascisti, con la loro mozione, chiedevano la formazione di un nuovo governo che mettesse fine
al sistema di potere instaurato dal fascismo. Era evidente che la loro richiesta non poteva che essere rivolta
al re. Il quale, tuttavia, si trincerò nel rispetto formale del più rigido costituzionalismo.
Il delitto Matteotti fece vacillare effettivamente il potere fascista portandolo sulla soglia di una grave crisi
che avrebbe potuto travolgerlo: quattro ministri presentarono le dimissioni. Mussolini modificò allora
l’ordinamento del MVSN, per attenuare il suo carattere di milizia del partito, inserendola come parte
integrante delle forze armate dello stato.
Tuttavia,in questa situazione, l’integralismo fascista prese l’iniziativa di una rivincita, rilanciando la
mobilitazione dello squadrismo: la loro aggressività era alimentata, probabilmente, più che dalla certezza
della propria forza, dal timore di perdere il potere.
V
Fra i partiti che risentirono subito negativamente della loro relazione con il fascismo al potere fu il partito
popolare. Fin dall’inizio del 1923 Sturzo aveva sollecitato la convocazione del congresso nazionale per
discutere sull’atteggiamento verso il governo e soprattutto per difendere l’autonomia e l’identità del
partito. Sturzo si dimise il 20 maggio dalla direzione del partito; infine il 24 ottobre 1924, minacciato di
morte dai fascisti, fu persuaso dal cardinale di stato a lasciare l’Italia.. nello stesso tempo il partito subì un
processo di disgregazione interna, anche a seguito della legge Acerbo.
Ogni altra strada di opposizione al fascismo era preclusa al Partito popolare dalla legittimazione esterna
della Chiesa. I cattolici filofascisti il 12 agosto 1924 fondarono il centro nazionale cattolico.
Neppure di fronte al fascismo trionfante i socialisti riuscirono a rimanere uniti. La scissione dei riformisti dal
PSI, nell’ottobre 1922, aveva creato due partiti socialisti, che fino al 1930 non riuscirono a ritrovare ragioni
sufficienti per riunire le loro sparse energie contro il comune nemico.
Al IV congresso dell’internazionale, tenuto alla fine del 1922, fu decisa la riunificazione dei due partiti. Il
nuovo partito avrebbe assunto il nome di partito comunista unificato d’Italia. Ma nel PSI ci fu una rivolta
contro la fusione, animata da Nenni.
Il 14 gennaio, su iniziativa dello stesso Nenni, fu costituito un comitato nazionale di difesa socialista, per
sostenere l’autonomia del partito: il XX congresso fu interamente dominato dalla contrapposizione fra
defensionisti e fusionisti. Da allora furono completamente troncate le relazioni fra il PSI e il Comintern:
quest’ultimo iniziò una feroce campagna contro i dirigenti del partito, mentre questi accusavano il
Comintern di essere diventato solo uno strumento dello stato russo.
Tutta la vicenda della mancata fusione non fece altro che inasprire i rapporti tra massimalisti e comunisti.
Nella lotta contro il fascismo si era rafforzata nei socialisti riformisti la convinzione che il regime
parlamentare, le libertà civili e politiche dello stato liberale erano conquiste fondamentali anche per la
classe lavoratrice e bisognava salvaguardarle e consolidarle democrazia parlamentare come caposaldo
del socialismo.
La necessità di affermare il primato del partito e l’intransigenza antifascista si poneva per Matteotti
soprattutto nei confronti della CGdL. I dirigenti sindacali, corteggiati da Mussolini con offerte di
collaborazione governativa, apparivano talvolta troppo sensibili ad ascoltare la sirena mussoliniana. Alla
possibilità di far nascere un partito del lavoro, come una necessità del movimento operaio, fu osteggiata
tenacemente da Matteotti: la proposta, se accettata, avrebbe ridotto il partito a organo di
fiancheggiamento delle organizzazioni economiche.
Con la morte di Matteotti venne a mancare al PSU la principale energia organizzativa. Confidando nel
declino inevitabile del fascismo, Turati operò sempre nella prospettiva di una soluzione parlamentare.
Il PSU fu il primo partito antifascista ad essere sciolto nel 1925. Tuttavia, nel giro di poche settimane, per
iniziativa del gruppo disciolto, venne costituito un nuovo partito, il Partito socialista dei lavoratori, che
aveva come obiettivo di affrontare la lotta contro il regime fascista con la più recisa intransigenza.
Il regime fascista il 9 novembre 1926 decretò la soppressione dei partiti antifascisti.
Neppure il PRI fu risparmiato dal dramma delle scissioni. All’inizio del 1923, dopo il XVI congresso nazionale
tenuto a Roma, che aveva confermato una linea politica di intransigente antifascismo, erano usciti dal
partito i repubblicani, che avrebbero voluto un atteggiamento neutrale nei confronti del governo di
Mussolini. Dalla scissione sorse una Federazione autonoma della Romagna e delle Marche, che staccò dal
partito circa il 20 % delle sezioni e degli iscritti: le aggressioni fasciste e la repressione poliziesca
sembravano rafforzare l’impegno dei repubblicani nella lotta contro il partito dominante. I repubblicani
avevano intuito molto presto la vocazione totalitaria del partito milizia. L’antifascismo repubblicano
scaturiva direttamente e spontaneamente dallo loro intransigente opposizione alla monarchia.
Dalla tradizione dell’attivismo mazziniano, rinnovata dall’interventismo democratico, derivò la sua
ispirazione ideale l’associazione “Italia libera”, costituita nel 1923 per iniziativa di alcuni esponenti del PRI.
Era un movimento di ex combattenti sorto per contrastare l’atteggiamento di apoliticità filofascista assunto
dall’ANC dopo la marcia su Roma. Nonostante la matrice repubblicana, l’Italia libera intendeva essere un
movimento antifascista al di fuori dei partiti: patriottico ma antinazionalista e antimperialista.
I repubblicani furono tra i primi ad insorgere alla camera dopo il delitto Matteotti, accusando direttamente
Mussolini.
All’origine della crisi vi fu il dissesto sulla condotta politica dell’opposizione aventiniana. I principali
esponenti sostenevano la necessità dell’alleanza anche con altri partiti antifascisti, anche monarchici e
costituzionali, perché ritenevano che il primo obiettivo era abbattere il fascismo. Dissentivano i
repubblicani intransigenti, che ritenevano che la lotta al fascismo non poteva essere disgiunta dalla lotta
alla monarchia che lo aveva portato al potere. L’antifascismo non poteva solo opporsi senza pensare ad un
“dopo il fascismo”. Vi erano anche repubblicani che non escludevano il ricorso alla violenza contro il
fascismo.
Bergamo nel 1922 si era fatto promotore della costituzione di una corrente denominata Repubblica sociale
che aveva sostenuto la necessità di orientare il partito verso il proletariato e la lotta di classe.
Nato da una scissione, il partito comunista fu l’unico dei partiti organizzati che non subì ulteriori scissioni
dopo l’avvento del fascismo al potere, anche se fu travolto fa crisi acute, provocate dai contrasti con il
Comintern e Bordiga e Gramsci. Anche se il pcd’i era sorto dichiarando adesione completa
all’internazionale, i rapporti con il com’interno non erano affatto facili.
I primi contrasti erano sorti già durante il III congresso dell’internazionale (1921) quando i comunisti italiani
non avevano aderito alla tattica del fronte unico, ribadendo la posizione contraria alla fusione col PSI (il
massimalismo era una forma di opportunismo tanto pericolosa quanto il riformismo). Bordiga faceva
ricadere sul comintern la responsabilità di avere aggravato la crisi di efficienza e di organizzazione del
partito aggiungendo una crisi interna di direttive generali. Di fronte questo atteggiamento il comintern
reagì cer