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LETTERE EDIFICANTI E CURIOSE DI MISSIONARI GESUITI
DALLA CINA (1702-1776)
Matteo Ricci, Daniello Bartoli e gli eleganti sacerdoti francesi,
che un secolo dopo inviarono in Occidente le loro “Lettere
edificanti e curiose”, ammiravano ogni giorno i miracoli della
“etichetta” cinese e li raccontavano ai Sacerdoti e alle dame
d’Europa.
Tra i lettori delle “Lettere edificanti e curiose” c’era qualcuno,
come Rousseau, che detestava i cinesi: “questo popolo non conosce
altra umanità che quella dei saluti e delle riverenze”. Ma i
missionari gesuiti vedevano negli eleganti gesti cerimoniali
l’incarnazione terrena di quel mirabile ordine cosmico, di quel
gioco perfetto di corrispondenze che Dio aveva creato tra le
costellazioni, i pianeti e la terra: scorgevano nella cortesia
l’arte di moderare l’impeto violento ed egoistico delle passioni.
Chi coltivava la forma, onorava il bene_ senza forma, non poteva
esistere né bellezza spirituale né azione virtuosa. Essi avevano
imparato dai loro maestri europei a procedere dall’interno verso
l’esterno, dal cuore verso i gesti.
Alla fine il viaggio dei missionari gesuiti nel paese della
simmetria e del capriccio si concludeva nel Palazzo
dell’imperatore – il centro nascosto dal quale dipendeva il mondo
visibile. Come quello di Dio, il suo sguardo vasto e tollerante,
profondo e meticoloso abbracciava tutti i luoghi dell’immenso
impero: vegliava come un padre sul benessere del suo popolo,
alleviando tributi e inviando riso dove avevano infierito la
siccità l’inondazione; e si chiudeva come un sacerdote antico nel
Palazzo digiunando e pregando, invocando dal Cielo il miracolo
della pioggia. Intorno a lui un’aristocrazia elettiva di
mandarini, nella quale i missionari scorsero un’immagine dei
filosofi-legislatori di Platone, diffondeva o ispirava la sua
parola. Così lo Stato cinese diventava quello Stato virtuoso, che
da migliaia di anni gli uomini avevano inutilmente sognato e che
tornarono disperatamente a sognare alla vigilia della Rivoluzione,
I missionari osservavano che. In Cina, la penna si era imposta
alla spada: chi possedeva la parla scritta sovrastava la brutalità
della forza.
Nel 1693, l’imperatore K’ang-hsi donò ai missionari un terreno
nella cinta del Palazzo, dove costruirono una chiesa. Le lettere
che i padri dopo di allora inviarono in Francia erano di studiosi,
di viaggiatori, di uomini di mondo, di “amateurs”, piuttosto che
di gravi missionari. Con occhi aperti, curiosi e vivaci
contemplavano la varietà dell’universo. Ma, all’imperatore e ai
mandarini, mostravano un altro volto. Avevano compreso che
l’immenso paese, che li aveva accolti, era disposto ad assimilare
le cose più estranee, purché assumessero forme cinesi. Così si
trasformarono assumendo nomi cinesi: indossarono le fogge dei
mandarini; mangiarono cibi cinesi, dipinsero come i cinesi, ebbero
funerali cinesi, adattarono i riti cristiani a quelli cinesi,.
Cercarono di uccidere in sé le tracce dell’Occidente: quella
“certa attività turbolenta, che vuol fare tutto e conquistare
tutto d’assalto”; e a poco a poco, acquistarono la prudenza. La
calma, la gravità, la moderazione, la lentezza maestosa e passiva,
che ammiravano nei loro allievi.
Già padre Matteo Ricci ave va intuito che la via più sicura per
penetrare nella Cina era quella della cultura. Così i missionari
mostrarono alla corte i bei volumi rilegati, gli astrolabi, gli
orologi, i prismi di vetro, le carte geografiche e i mappamondi
che avevano portato dall’Europa; e quando i mandarini videro
finalmente tutta l’estensione della Terra, con l’America e
l’Africa, questi paesi che non avevano conosciuto nemmeno
nell’immaginazione, si meravigliarono che il loro immenso paese
occupasse un “posto così piccolo”.
L’episodio più singolare avvenne quando K’ang-hsi, al culmine del
potere e sovranamente distaccato da ogni potere, volle coltivare
la scienza europea. Tutte le mattine alle quattro, padre Thomas,
padre Gerbillion e padre Bouvet attraversavano in portantina la
città ancora addormentata la campagna piena di canali, portando
con sé i libri di aritmetica, di geometria e gli elementi di
Euclide. L’imperatore li attendeva nel suo Palazzo d’estate.
Passavano insieme due ore ogni mattina e due ore ogni pomeriggio.
Seduti l’uno accanto all’altro sul palco imperiale, come se
nessuna distanza dividesse il Figlio del Cielo e gli oscuri
messaggeri d’Europa. La sera i 3 gesuiti tornavano a Pechino,
passando parte della notte a preparare le lezioni dell’indomani, e
il loro allievo ripeteva con la diligenze di uno scolaro
volenteroso ciò che aveva appreso e lo spiegava ai figli. Questa
era la strada di Cristo. I gesuiti avevano capito che potevano
penetrare in quel paese geloso, così innamorato della simmetria,
solo facendo appello alla virtù della precisione.
Sebbene fossero così curiosi della via spirituale della Cina,
padre Ricci e i missionari francesi non compresero la ricchezza
della sua religione, Con un’ostinazione e una tenacia da
illuministi, videro in molte delle sue tradizioni soltanto
“stravaganze” e “superstizione”. I bonzi buddisti sembrarono loro
selvaggi e feroci asceti medioevali, che mascheravano sotto un
aspetto grave ogni specie di vizi e chiudevano nei sotterranei dei
conventi fanciulle rapite; e videro in essi, con i loro abiti
gfino alle calcagna e le maniche lunghe, la contraffazione
demoniaca dei sacerdoti cristiani. Del Taoismo non conobbero quasi
nulla; e disprezzarono la mirabile alchimia cinese.
La religione cinese era, per loro, quella dell’imperatore e dei
mandarini confuciani, che pregavano il Cielo. Quel Cielo pareva
loro così prossimo al Dio che avevano esaltato nelle chiese e nei
libri: il Dio creatore, che non si segrega dal mondo, non si
chiude in un Nulla inattingibile agli occhi umani, ma si riflette
nelle molteplici meraviglie della creazione. Questa fiducia che la
terra è lo specchio del cielo: che tutto quanto accade tra noi
obbedisce ad un ordine provvidenziale: che tutti gli avvenimenti
storici manifestano la volontà di Dio: che i buoni sono
ricompensati e i cattivi puntiti in terra: che gli uomini, se
fossero virtuosi, sarebbero anche felici – doveva insieme
commuoverli e turbarli.
Col favore dell’imperatore, ispirati da una fede chiara e
semplificata, i gesuiti intrapresero l’evangelizzazione della
Cina. Mentre l’Europa si stava allontanando da Cristo, essi gli
preparavano una nuova patria qui, in questa terra che sembrava
loro “naturaliter christiana”. Se avessero congiunto le verità
religiose del Vangelo con le massime morali di Confucio; se
avessero insegnato la fede all’imperatore virtuoso e alla pacifica
aristocrazia di mandarini filosofi: se avessero congiunto la
simmetria cinese con la loro passione religiosa: se avessero unito
lo spazio, il tempo, i riti, i gesti, i colori, i suoni, i vestiti
d’Occidente e d’Oriente – la terra sarebbe diventata lo specchio
trasparente del Cielo. Primi risultati nutrirono la loro
speranza; 300 mila cinesi si convertirono e nelle province si
moltiplicarono le chiese. I principi digiunavano, frequentavano i
sacramenti, leggevano libri devoti, si inginocchiavano
modestamente in un angolo, confusi tra il popolo “senz’essere
visti che da Dio solo”.
Il grande sogno non durò a lungo, Nel 1724, l’imperatore Young
Cheng – proprio colui che i missionari gesuiti proponevano
all’ammirazione dei sovrani europei – dichiarò loro; “Non mancherà
nulla alla Cina, quando cesserete di esservi, e la vostra assenza
non causerà alcuna perdita. Nono tollereremo nessuno che ne violi
la legge, e che cerchi di distruggerne i costumi. Che direste se
mandassi un gruppo di bonzi e di lama nel vostro paese per
predicare la loro legge? Come li ricevereste?”. Il cristianesimo
venne proscritto: le chiese confiscate, i fedeli delle famiglie
principesche e popolane perseguitati; e nella seconda parte del
secolo i missionari, relegati a Pechino, tornarono tristemente
alle loro occupazioni di una volta – riparare orologi, fabbricare
automi, dipingere ritratti di principi e paesaggi di seta. Nel
1773, papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù. L’ultima
grande utopia europea era tramontata: qualche anno dopo, posseduta
da sogni e fantasie meno eleganti, l’Europa sarebbe stata travolta
dalla Rivoluzione.
Dalle loro lontane enclavi in territorio americano o cinese, i
Gesuiti hanno avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione delle
idee e delle mentalità del Secolo dei Lumi. Le loro “Lettere”
hanno conosciuto un enorme successo di pubblico. Hanno
appassionato Voltaire, Montesquieu e, più in generale, gli
“intellettuali”, eruditi o filosofi che fossero.
I tentativi di evangelizzazione della Cina sono stati occasione
per una feconda collaborazione intellettuale tra Oriente e
Occidente.
I Gesuiti appaiono come veri e propri “mediatori culturali”: a
Parigi le loro lettere diffondono dei “reportages” sulla Cina e
alimentano la sinofilia degli ambienti illuminati; a Pechino,
grazie al loro talento di astronomi, pittori, meccanici, pungolano
la curiosità di mandarini e imperatori, facilitando così la
penetrazione delle conoscenze europee.
“Il gesuita che partiva per la Cina si armava del telescopio e del
compasso. Appariva alla corte di Pechino con la cortesia propria
della corte di Luigi XIV, e circondato dal corteggio delle scienze
e delle arti”.
Questo quadro trionfalistico non deve far dimenticare le dure
realtà dell’apostolato. La Missione si è insediata lentamente, a
prezzo di mille difficoltà; e se ha potuto prosperare è perché la
Compagnia mandava in Cina uomini di valore, forse proprio l’élite
dei suoi membri. Gli esordi della Missione sono dominati da due
figure esemplari: quelle di Francesco Saverio e di padre Ricci.
Padre Ricci definì gli orientamenti fondamentali che la Missione
gesuita avrebbe mantenuto per ben due secoli: una politica
aristocratica, un alto livello scientifico, un abile adattamento
ai cstumi cinesi. Egli aveva capito che, per stabilirsi in modo
durevole in Cina, occorreva ottenere l’amicizia dei letterati, dei
principi e, infine, dello stesso imperatore. Questa preziosa
amicizia la doveva alle sue capacità: valente mate