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Caratteristiche della civitas italiana

La civitas italiana aveva delle caratteristiche ben precise: elevato numero di abitanti e ampia superficie occupata, consistenza economica, controllo degli assetti politici e territoriali, possesso di un contado. Tale titolo, però, resta prerogativa di pochi luoghi: le sedi diocesane; il nesso tra città-diocesi nasce dal fatto che i vescovi erano stati costituiti proprio nelle antiche civitates, ossia nelle località che già prima avevano officiali propri e una loro giurisdizione su un territorio. Da qui il numero relativamente scarso di città nell'Italia centro-settentrionale e una conseguente estensione notevole dei contadi, o meglio di distretti urbani, nati dall'aggregazione di distretti minori, rimasti spesso estranei al controllo della città, che si presentano come organismi territoriali confinanti l'uno con l'altro senza interruzioni. Su questi distretti il controllo cittadino si è ben presto piegato al potere del comune urbano.

Nasce da questo, quindi, la netta distinzione tra la città, da un lato, e tutto quello che resta, e che città non è (campagna, o meglio il contado, intendendo non più soltanto poderi e coltivazioni, ma anche terre e comuni, centri popolati da mercanti, piccoli e medi proprietari). “Quasi città”, dunque, non perché mancassero di popolazione o di estensione sufficienti, non perché non ripetessero il modello urbano; bensì perché risultavano prive di alcuni essenziali caratteristiche politico-istituzionali: l'autonomia rispetto ad altri centri, il ruolo di capoluogo civile di un territorio, e si trovavano invece comprese in un contado. 1. Lotte per diventare città Sebbene il periodo tardomedievale, dopo il tramonto della città-stato e la formazione degli stati regionali, si era presentato abbastanza favorevole all'emancipazione e alla crescita di alcuni centri o distretti rurali, la forzaeconomica/politica della città limitò il processo di formazione dell'istituto della "terra separata" e ben pochi territori riuscirono a raggiungere tale condizione. Un istituto che esclude ogni possibile intromissione, anche indiretta, del centro urbano e delle magistrature provinciali, poiché la terra deve fare riferimento soltanto al principe, presupponendo uno statuto proprio e libero, attraverso il quale poter raggiungere un'autonomia giuridica e politica, non è sicuramente ben visto dalle civitates. Là dove comunque privilegi di separazioni (parziali o totali) vennero concessi, la possibilità per questi centri di acquisire "un certo tono urbano" era più consistente. Ma per ottenere il titolo formale di città, la strada è ancora lunga e tortuosa. Le richieste, da parte di centri minori, volte a ottenere l'honor civitatis attraverso la via obbligata della concessione della dignità vescovile,

erano numerosissime; ma le effettive promozionia città risultavano molto scarse, soprattutto in area lombarda, piùincentrata su un modello urbano di organizzazione del territorio. Lasituazione risultava meno grave ai margini dell'area comunalepadana, dove vari centri riuscirono ad ottenere rango urbano evescovile (es. in Piemonte o in Toscana).Un incremento nel numero delle città si può notare solo a partire daltardo Cinquecento, un cambiamento che procede di pari passo conil mutare del concetto di città.

Capitolo VI – “Legislazione statuaria e autonomie nell'areabergamasca”

1. La condizione di autonomia come presupposto dellostatuto

Le comunità che disponevano degli statuti erano sicuramente quellepoche che si caratterizzavano per una propria tradizione diautonomia nei confronti del comune cittadino e dello statoregionale. È, ad esempio, il caso delle quattro comunità (Treviglio,Romano, Martinengo, Mozzanica),

comprese oggi tutte entro i confini della provincia di Bergamo, appartenenti in quel periodo a diocesi diverse. Trovandosi tutte in una zona di confine, avevano ottenuto la concessione, da parte dei signori, di una condizione di autonomia, diversa per ognuna di esse ma tale da conferir loro una fisionomia diversa dalle altre comunità rurali. 2. Caratteri dello statuto Si trattava di statuti ricchi e articolati, capaci di gestire una consistenza demografica ed economica maggiore di quella delle altre comunità rurali. Un ordinamento quindi complesso, riconosciuto dagli stati regionali e in grado di amministrare, in modo autonomo, al di fuori dei controlli della città, la vita interna. Questi statuti si collocano al centro tra gli statuti rurali e quelli urbani, costituendo una categoria a sé. Analizziamo, ad esempio, lo statuto di Treviglio del 1393, lo statuto di Martinengo del 1428, lo statuto di Romano del 1428 e lo statuto di Mozzanica del 1435. Una caratteristica comune

Ai quattro statuti è il rifiuto totale delle città; viene innanzitutto sottolineata la diretta dipendenza della comunità dal principe. Lo statuto di Martinengo stabilisce che nessun funzionario cittadino poteva esercitare il suo officio nel territorio della comunità: se ci avesse provato, sarebbe stato passibile di alcuni giorni di carcere o di una multa. In caso di evidente carenza dello statuto locale in merito ad una questione da risolvere, venivano citate numerose fonti di diritto alternative (ordini/decreti ducali, consuetudini ecc), ma mai lo statuto urbano. La volontà di escludere quella legislazione, insomma, era evidente, al fine di evitarne ogni possibile interferenza nella vita giuridica della comunità. Tale ostilità è rintracciabile anche nelle norme che riguardano l'amministrazione della giustizia: ogni comunità è sede di tribunali, naturali e legittimi per i loro abitanti. I tribunali estranei non venivano considerati.

Non soltanto a causa delle maggiori spese, ma anche per il timore che amministrassero giustizia secondo principi e norme tali da mettere in difficoltà gli abitanti della comunità.

Un altro aspetto significativo della legislazione delle comunità era il divieto di vendere terra ai forenses, a coloro cioè che non abitavano nella comunità. Le motivazioni erano diverse: preservare l'economia e conservare le proprietà fondiarie degli abitanti, evitare che le tasse per ogni proprietà venissero pagate alla città e non più alla comunità; tutte le terre della giurisdizione dovevano essere considerate soggette ai tributi della comunità, da chiunque fossero possedute.

Capitolo VII - "Principe e comunità alpine"

Qual era l'assetto politico-istituzionale dei territori alpini della Lombardia alla fine del Medioevo? Ma soprattutto, qual era la loro collocazione all'interno del ducato di Milano?

Attenuazione dell'influenza urbana

Il costituirsi dello stato visconteo produce crea una situazione nuova, che vede come prima conseguenza il forte allentarsi dei legami con le città, soprattutto in territorio alpino. Il governo principesco appare incline ad offrire autonomia a quei centri e territori che abbiano forza sufficiente per rivendicarla, concedendo immunità, esenzioni e privilegi di separazione. Mentre in pianura si riafferma in larga misura l'egemonia delle città, in montagna tali acquisizioni restano più ampie e durature. Tali territori erano riusciti a stabilire, con i nuovi signori, un rapporto di immediata dipendenza, che riconosce pienamente la sovranità dei signori di Milano, escludendo ogni mediazione da parte della città. Mentre nel resto della Lombardia le province del nuovo stato regionale ricalcano il modello del vecchio distretto urbano, in montagna si deline una geografia amministrativa di piccoli distretti separati.

Loro propri magistrati e ordinamenti. Nasce una vera e propria linea di confine politico-amministrativo, che separa due aree ormai lontane: una "padana" (permeata dall'influenza delle città) e una "alpina".

Capitolo VIII - "Alienazioni d'entrate e concessioni feudali"

Alla morte di Francesco Sforza, il ducato affrontò gravissime difficoltà finanziarie; Galeazzo Maria, salito al trono da pochi mesi, decise di far fronte a questi problemi attraverso una vendita d'entrate. Dopo aver scelto cinque procuratori, li autorizzò a procedere alla cessione di tutte le terre dello stato per cui si trovassero acquirenti. Le entrate che erano state scelte dal governo erano entrate minori, da riscuotersi localmente: tassa dell'imbottato (che colpiva il vino, il fieno, le biade e i legumi conservati nelle case dei rurali) e il dazio del pane, del vino e della carne; più raramente, vennero ceduti diritti fiscali di altro genere.

Rare sono le alienazioni di "censi" (somme annue che alcune comunità avevano convenuto con il ducato di pagare in sostituzione di altri oneri); c'era l'ordine preciso di non porre mai in vendita i proventi della tassa del sale, dell'alloggiamento dei cavalli o della mercanzia. L'alienazione aveva carattere perpetuo; comprendeva anche il diritto, per i duchi, di riscuotere i dazi e gli altri proventi nella misura prevista dal contratto, senza possibilità di aumento. I pagamenti dovevano essere effettuati in pezzi d'oro e d'argento.

1. Gli effetti sul potere signorile nelle campagne

L'operazione ebbe un grande successo: la notizia della vendita si diffuse rapidamente per tutto il dominio e suscitò vivo interesse, soprattutto tra coloro che avevano già credenziali per acquistare e estendere la loro autorità su un territorio rurale, ossia per i proprietari di beni, "gentiluomini" che possedevano già

una forte base locale di influenza. Numerosi acquirenti si trovavano in particolare tra nobili e signori che già possedevano un feudo, e che videro quindi la possibilità di ampliare la loro signoria e villaggi e territori vicini. Altri, che non avevano la forza di creare una propria signoria, approfittavano di questa possibilità per cautelarsi dal pericolo di diventare sudditi di qualche potente. Le vendite e le trasformazioni che esse provocarono nella geografia locale del potere provocarono però anche reazioni di malcontento, sia da parte delle città (preoccupate per le erosioni che le nuove giurisdizioni feudali portavano nei loro contadi), sia da parte dei singoli cittadini (proprietari di terre che vedevano minacciata la tranquillità del loro possesso dalla comparsa di un nuovo signore nel villaggio) che dalle comunità.

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Publisher
A.A. 2012-2013
17 pagine
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SSD Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche M-STO/01 Storia medievale

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher soscuola di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia medievale e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Roma La Sapienza o del prof Chittolini Giorgio.