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PARAGRAFEMATICI.
Lo scrivenbte tende a portare nello scritto tratti tipici dell’oralità, come avviene oggi negli sms.
Ormai il rapporto tra grafemi e fonemi si è stabilizzato e le incertezze riguardo l’alfabeto si contano
sulle dita di una mano. Due riguardano i nomi delle lettere: la “v” dovrebbe pronunciarsi “vu”, ma
sia alNord che al Sud viene chiamata “vi”. Lo stesso vale per la “j” che dovrebbe pronunciarsi “i
lunga” e viene più comunemente detta “gei”.
In materia di ortografia occorre osservare due criteri:
- Diagnostico= legato alla registrazione lessicografica di una variante ortografica “antiquata”.
L’arcaismo è percepito come una condanna solo nel lessico, mentre altrove sarebbe
considerato come errore (l’articolo i davanti a s+consonante = “i stemmi” – nei Sepolcri e il
congiuntivo “vada” adoperato da Leopardi).
- Prognostico (utile per capire quale delle due varianti s’imporrà) è legato alla pratica della
videoscrittura e del correttore automatico.
L’uso di i non vocale ma semiconsonante, segno diacritico. Tre tipologie:
- In alcune parole si continua a scrivere i in omaggio alla grafia latina o all’italiano antico, per
evitare l’omografia: cielo < CAELUM ma la i semiconsonantica non si pronuncia più perché
è stata assorbita dal fonema palatale precedente. A differenza di GELU >gielo > gelo in cui
la i è assorbita anche graficamente, in cielo la i rimane per non confonderlo con il
sostantivo del verbo “celo” < CELARE. Non esiste una regola precisa, in generale la i
superflua non è ammessa fuori d’accento (tranne scienziato, coscienza) e solitamente la i
latineggiante tende a mantenersi (specie).
- Nella quarta persona dei verbi a tema nasale palatale (bagniamo) la i è superflua dal punto
di vista fonetico, mentre graficamente serve a ricordare la desinenza –iamo, ma
l’eliminazione della i è frequente.
- Il plurale dei sostantivi singolari in –cia/-gia, la i è superflua e per decidere se applicarla o
meno anche nel plurale, si ricorre a due criteri: uno vede applicare la i al plurale laddove
ciò non avveniva anche in latino (fiducie, provincie, ciliegie, rocce). L’altro criterio, empirico,
prevede la i se preceduta da una sola consonante (fiducie, ciliegie) e nulla se preceduta da
due consonanti (province, rocce). In due esempi su quattro i criteri convergono.
Altro caso è costituito dalla rappresentazione delle consonanti scempie o doppie, nel
raddoppiamento fonosintattico. Quattro casi:
- Ciononostante, no cionnonostante;
- Senonchè 0 segnalato errore anche dal correttore automatico;
- Soprattutto che vive accanto a sopratutto;
- Vieppiù che andrebbe scritto con una p.
- Caffelatte = caffellatte;
- Piuccheperfetto = piucchepperfetto = piucheperfetto.
Forme più recenti derivano dallo scioglimento di alcuni acronimi: TG= tiggì o tigì; AN= aenne; DS=
diesse.
Dei segni paragrafematici come l’apostrofo, un abside è errore solo perché non si sa che abside è
femminile. Altre forme errate sono qual’è e un pò (in luogo di qual è e un po’ ). L’imperativo di dare,
fare, stare e andare ammette le forme apostrofate e quelle senza apostrofo.
Attenzione a non usare l’apostrofo al posto dell’accento (come accade anche nella e maiuscola).
Nella scrittura infantile abbonda l’uso delle maiuscole nei nomi comini. Inoltre molti nomi comuni
hanno la maiuscola in base a ragioni ideologiche, sociali, tradizioni (Papa, Dottor monti, Seicento).
Per la parola Dio, la regola vuole che si usi la maiuscola nel caso di una divinità pagana e
maiuscola per quella monoteistica.
Esiste la possibilità di usare la maiuscola con funzione semantica (lo Stato italiano e lo stato delle
cose).
L’accento obbligatorio va sulle parole tronche, anche se formate da più paole l’ultima delle quali,
da sola, non andrebbe accentata.
Vogliono l’accento alcuni monosillabi per differenziarsi dagli omografi (dà, è, là, lì, né, sé, sì, tè).
Eccezione sgradevole è la parola sé. Secondo la regola perde l’accento davanti a stesso, perché il
vero accento cadrebbe sulla parola successiva. Ma scriviamo comunque a sé stante, in cui le
codizioni sono le stesse. Altri osservano che davanti a stessoè inutile l’accento perché non si
confonderebbe con la congiunzione ipotetica. Ma ciò non varrebbe per il plurale: se stessi/stesse –
sé stessi/stesse.
Infine è scarsamente economico applicare la regola a seconda del contesto.
Poco giustificabile è l’accento sulla prima persona del verbo dare, io do. È scarsamente probabile
che si confonda con la nota, anzi andrebbe accentata proprio la forma meno frequente e quindi la
nota.
Un tipo di accentuazione facoltativa è quella applicata alle parole sdrucciole, usata per distinguerle
dalle parole piane e dalle omografe.
CAPITOLO 12. LA PUNTEGGIATURA.
Il trattino è adoperato con varie funzioni: andare a capo, collegare due parole, due cifre ma può
servire anche per sottolineare frasi oggetto di ironia o viva ripulsa. L’ironia può essere evidenziata
dalla sillabazione della parola come si fa nell’orale.
La virgola non deve mai separare il soggetto da un predicato, né il predicato dall’oggetto. Può
capitare però che compaia se il soggetto è composto da un insieme di nomi come per marcare la
pausa che si fa nell’orale. Ma motivare una deflessione non significa riconoscerne la legittimità.
Non è possibile inserire una virgola prima di una relativa limitativa o quando dipende da un
modello tradotto (in tedesco le virgole separano ogni subordinata) o quando le virgole incidentali si
applicano alla parola sbagliata.
I quattro segni d’interpunzione che godono maggior fortuna sono: il punto, la virgola, il punto
interrogativo e il punto esclamativo.
Si abusa dei due punti nel momento in cui si superano elementi legati al corpo precedente (come i
soggetti col predicato).
Non si può separare con un segno d’interpunzione un’oggettiva o soggettiva dalla reggente.
3 usi del punto e virgola:
- Separare unità coordinate complesse;
- Si adopera davanti un connettivo forte;
- Segnala una pausa marcata tra due elementi coordinati tra i quali non sarebbe necessario
nessun segno d’interpunzione.
Godono immeritata fortuna, soprattutto tra i giovani, le virgolette metalinguistiche, usate per
segnalare parole inusitate o di formazione particolare, cariche di contenuti ironici o polemici.
CAPITOLO 13. IL NOME: FEMMINILE IDEOLOGICO E PROFESSIONALE; PLURALE DEI
FORESTIERISMI.
Il tema del sessismo linguistico è da sempre una spina nel fianco nel mondo della grammatica.
Solitamente il mondo ha una visione maschile delle parole. Alcuni esempi:
- In campo politico vi è una netta distinzione tra politici maschi e femmine, i primi nominati
semplicemente per cognome, le seconde con l’articolo davanti (la Thatcher, la Moratti) o
semplicemente chiamate per nome.
- Regresso del titolo di signorina per le donne nubili con distribuzione di signora/signorina
solo in base all’età e parallela rivendicazione, per le donne sposate, del cognome di
nascita.
Per quanto riguarda invece le professioni, la distinzione si presenta più incerta:
- Si aggiunge il suffisso in –essa (dottoressa, professoressa, studentessa) ma in alcuni casi
può avere una connotazione ironica, in base al contesto in cui viene usato (giudicessa).
- Trasformazione al femminile del suffisso –iere (infermiera, cameriera…)
- Con la marcatura al femminile di nomi epiceni, ossia di nomi di forma invariabile sia al
maschile che femminile (la presidente, la pediatra).
Alcune professioni al femminile esistono solo virtualmente, in quanto dal punto di vista
grammaticale ci sembrano strane (l’ingegnera, la soldata).
C’è chi si rifugia poi nel compromesso di usare sostantivo maschile e articolo femminile.
Il secondo tema è la formazione del plurale nei forestierismi non adattati e immediatamente
riconoscibili dato che terminano o per consonante o per vocale ma sono riconosciute straniere.
Se usiamo come esempio parole straniere come flash e retablo, tutti sappiamo dare una
definizione del primo, mentre non tutti sanno che il retablo è una pala d’altare. Per questo la parola
conosciuta ed entrata nella lingua italiana rimane invariata al plurale, mentre quella spagnola dovrà
usare il plurale straniero (retablos). In italiano solitamente i plurali di parole straniere riconosciute e
che terminano in vocale vengono comunque lasciate inalterate (kamikaze o euro). Mentre per gli
anglicismi vale questa regola, per i francesismi la cosa è diversa, in quanto vengono considerati
prestiti di lusso e quindi vi è una maggiore consapevolezza linguistica.
CAPITOLO 14. IL VERBO: SINTASSI DEL GERUNDIO; SCELTA DEGLI AUSILIARI.
Tra tutti i modi indefiniti del verbo, il gerundio è quello più duttile, quello che può fare le veci di
diverse proposizioni subordinate (modali, temporali, causali, ipotetiche, relative). Questa flessibilità
vede di contro il vincolo di corrispondere al soggetto del verbo finito ad esso collegato. Ciò non
vale per il gerundio assoluto o quando il gerundio e il verbo finito abbiano soggetto generico
(Sbagliando s’impara). Il gerundio non può essere coordinato a una principale. Nella sequenza di
più gerundi e necessario che tutti seguano il medesimo rango logico-sintattico, altrimenti uno di
questi deve essere trasformato in modo finito (frate Alberto si reca a casa di lei giustificando…
dichiarando…/ frate Alberto va a casa di lei e giustifica…dichiarando…).
Due sono le tendenze evolutive che interessano il gerundio nell’italiano contemporaneo. La prima
è l’espansione del gerundio semplice ai danni del composto e l’altra è la conseguente indicazione
temporale in base alla posizione anteriore o posteriore alla principale.
Per quanto riguarda invece l’uso degli ausiliari, l’incertezza tra essere e avere come ausiliari dei
verbi intransitivi costituisce un problema sconosciuto alle altre lingue. A parte verbi con ausiliare
stabile, alcuni li ammettono entrambi come vivere, servire (a) e piovere.
Avere risulta essere il più richiesto da un verbo servile seguito dall’infinito. Le grammatiche
affermano che l’ausiliare è quello dell’infinito, ma aggiungono anche che se il verbo retto è
intransitivo, è possibile l’ausiliare avere (ho dovuto