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Questi rifiuta l’idea di un’interferenza tra dialetto e italiano come avevano pensato gli
autori del dialetto massiccio. E’ connotato negativamente il modo di parlare
toscaneggiante dei più colti con il quale si giunge a una varietà intermedia. Sono anche
giudicati i nobili che seguono le mode del momento come francesismi.
Nuovi francesismi in napoletano
Dalle parole di Serio si comprende che il napoletano è aperto in diverse variazioni. Gli
esempi riferiti al modo di parlare dei cortigiani alludono ai francesismi: fricandò è il
fricadeau, crocchè da crocuette, gattò da gateau, sartù da sur tout. Probabilmente si
diffusero nel 700 quando le famiglie ricche potevano permettersi un cuoco. Sappiamo che
negli anni venti dell’800 accanto alle forme in napoletano erano utilizzate quelle in
francese: rangè ordinato, frambuas per lampone.
Letteratura dialettale non popolare
Dopo Basile e Cortese che avevano condotto il mondo popolare al ruolo di protagonista
proponendo un tipo di letteratura fruibile al popolo, la produzione in dialetto si orientò a
competere con quella in italiano come espressione di alcuni letterati accademici come
Lombardo e Corvo. Questi autori che parlavo l’italiano letterario ricorrevano al dialetto
nell’ambito di un’operazione letteraria e libresca che difficilmente avrebbe potuto puntare
su una diffusione presso il popolo. La letteratura dialettale insomma a parte che con il
teatro, dimostra la sua dipendenza da quella italiana. Ciò non è legato alle qualità estetiche
di questa, ma al fatto che la letteratura non può trasformare un idioma in una lingua se
l’uso di questa non è abituale in vari settori. Importante per il napoletano è il genere
dell’opera buffa che andava in scena presso il teatro dei Fiorentini a carnevale. Ciò apre
questo genere alla ripresa di forme miste presenti nella realtà e adeguate a un uso comico
del linguaggio.
L’italiano e l’immigrazione intellettuale
Il ruolo di capitale comporta una continua migrazione verso Napoli non solo da parte dei
nobili ma soprattutto dei poveri, per i quali re Carlo aveva fatto costruire un albergo dei
Poveri. Importante era la componente dell’immigrazione intellettuale cioè di tutti coloro
che giungevano a Napoli per studiare. La formazione di questi studenti era curata
dall’univeristà ed in seguito dal Collegio militare Nunziatella fondato nel 1787. In questo
Collegio svolse la sua prima attività di insegnante Francesco De Santis. Alla scuola del
marchese Basilio Puoti, De Santis acquisì la lingua e la forma dei testi del 300 ma imparò
anche a curare la pronuncia. L’obiettivo di Puoti era quello di dare ai suoi allievi la
possibilità di usare una lingua che avesse punti di riferimento stabili, adeguata ad ogni
contenuto culturale. In generale tutti gli studenti giunti a Napoli miglioravano la loro
conoscenza dell’italiano attraverso ogni disciplina. La preoccupazione di Puoti o di De
Santis era quella di spingere ad uscire dalla condizione linguistica di partenza per aderire
a prospettive più ampie.
Italiano locale del primo ottocento
Nella prima metà dell’800 vigeva una preoccupazione per la buona pronuncia. Una
conferma si trae da Cenno sulla diritta pronuncia italiana del purista Carlo Mele che
intende correggere la pronuncia dei napoletani che parlano italiano. Mele nota che un
napoletano non fa sentire la differenza tra globo e gobbo, libro e libbra; Segnala la
pronuncia rafforzata della G intervocalica, o la realizzazione come fricativa palatale della S
preconsonantica in parole come sc-pazio, fresc-cura. E’ evidente che quasi tutte le
caratteristiche segnalate sono presenti ancora nella fonetica dell’italiano parlato da un
napoletano. Oggi la s fricativa è presente solo in alcune province, mentre è comune la E
aperta degli avverbi e il raddoppiamento di B o G in parole come sabbato o reggione.
L’istruzione pubblica tra il 700 e il decennio francese
L’opera di Basilio Puoti e Carlo Mele rappresenta la punta di un processo culturale che
aveva portato in primo piano il problema dell’istruzione. A Napoli andava in questa
direzione un progetto di Antonio Genovesi che collegava l’istruzione alla necessità di
adottare l’italiano per qualsiasi disciplina. Durante il regno di Ferdinando IV di Borbone
fu avviata una riflessione sull’istruzione. Nel decennio francese fu promulgata una legge
che fissava le basi della pubblica istruzione e prevedeva che ogni anno fosse redatto un
dettagliato rapporto sulla pubblica istruzione del regno. In tale rapporto Matteo Galdi
ribadì l’importanza di un’istruzione pubblica per tutti attraverso la quale si poteva
colmare le differenze sociali. Nel progetto educativo era previsto l’insegnamento del
leggere e dello scrivere e tra le prime letture il Galateo di Monsignor Della Casa. Con
questo progetto si completa il persona che si era avviato tre secoli prima.
6. Napoli dall’Unità al XXI secolo
Subito dopo l’unità l’orizzonte cittadino si allarga con nuove strade e il perfezionamento
di quelle vecchie. Molti furono i lavori di risanamento dopo il colera: si sovrapposero alle
stradine medioevali moderni rettilinei. Questa nuova città entra in rapporti con quella
antica. Prima del risanamento il giornalista Rocco De Zerbi sottolineava le riserve del
tessuto urbano; secondo lui i cittadini effettivi erano solo 10.000 mentre gli altri non
leggevano giornali e non partecipavo alle abitudini sociali. Queste differenze di vita sono
ratificate nei quartieri residenziali nei quali si trasferiscono i ceti più ricchi: comincia a
disgregarsi la convivenza come nel palazzo microcosmo. Il centro antico subisce uno
spopolamento e dagli abitanti del Vomero era chiamato ‘giù napoli’. La città inglobò una
serie di comuni prima autonomi come San Giovanni a Teduccio, Secondigliano.
Conservazione e vitalità del dialetto
Dopo l’unità il numero degli abitanti era raddoppiato a differenza delle altre città in cui si
era quadruplicato. Il dialetto è ancora molto parlato poiché uno scarso incremento della
popolazione aveva portato alla conservazione della situazione precedente. Continuative
erano le condizioni abitative e le abitudini di vita; l’immigrazione si differenziava da zona
in zona e nei quartieri nuovi si concentravano nuovi nuclei familiari. Il centro antico
quindi è luogo di conservazione linguistica e culturale. Dopo 100 anni la vitalità del
dialetto permane pur’essendo modificato soprattutto i zone più isolate o periferiche
contenute comunque nella metropoli. Pierpaolo Pasolini mette in risalto il collegamento
tra la permanenza sul territori e la conservazione delle abitudini; tale concetto è
confrontato con la prospettiva di De Zerbi ma è chiaro che ciò è poco interpretabile.
Un’indagine di pochi anni fa ha mostrato che per tutto il 900 il 12% dei parlanti usa in
famiglia solo l’italiano e mai il napoletano; tale scelta potrebbe essere definita in relazione
alla vergogna per il dialetto che viene incolpato della sdialettizzazione. In sostanza le
famiglie provenienti da altre aree della Campania posso aver conservato un’adesione al
proprio dialetto.
Fortuna postunitaria del napoletano: canzone, teatro, cinema, letteratura.
Una delle novità più originali è stata la ripresa della letteratura in dialetto dopo l’unità. Il
dialetto era messo in pericolo dall’italiano, dunque fu concentrata su esso una tale
attenzione per non farlo scomparire. Dopo l’unità i dialetti vennero riconosciuti e
considerati positivi. Un esempio è Salvatore Di Giacomo che utilizza il dialetto in poesia;
la sua prima raccolta O Funneco verde nasce dalla consapevolezza che il fondaco verde
sarebbe scomparso. Al mutamento della realtà ponevano rimedio gli studi storici e
l’attenzione della rivista ‘Napoli nobilissima’ fondata proprio da Di Giacomo ed altri. Lo
studio era efficace per studiare sul finire del secolo XIX amore e riguardo verso Napoli. Il
linguaggio poetico si apre alla realtà in quanto il dialetto diventa funzionale per una svolta
nella letteratura. La connotazione letteraria dei versi di Giacomo suscitò polemica negli
ambienti culturali napoletani che accusavano il poeta di non usare il vero dialetto. Severo
fu il giudizio di Vittorio Pica che criticava l’uso di parole italiane non adatte all’indole dei
popolani. A Di Giacomo è stato contrapposto Ferdinando Russo la cui poesia è stata
considerata fedele alla realtà napoletana. Non possiamo affermare che il dialetto di
quest’ultimo sia esatto e quello di Di Giacomo no. I due poeti hanno obiettivi stilistici
differenti: Di Giacomo lirico e soggettivo, Russo naturalistico. Russo realizza in poesia il
ritratto degli ambienti cittadini segnati dalla povertà come nella raccolta E scugnizze in cui
il poeta utilizza riprese gergali. Polemiche simili a quelle rivolte a questi due investirono
anche gli autori teatrali come Eduardo Scarpetta che fu accusato di presentare sulla scena
personaggi non popolani che parlavano una lingua mista tra italiano e dialetto che viene
chiamato ‘miscuglio ingrato’ che per Scarpetta rappresenta un’adesione credibile alla
realtà borghese, che attraverso il personaggio Felice Sciosciammocca è messo al centro
delle commedie. Eduardo De Filippo crea commedie in dialetto talvolta italianizzate
dall’autore; anche in questo caso ci sono accuse per la poca fedeltà al dialetto ma non si
deve sottovalutare che attraverso la sua opera si segue non solo l’italianizzazione dei testi
ma anche la situazione linguistica di certi ambienti. Questi sono gli usi linguistici di una
parte dei napoletani diretti al bilinguismo come i personaggi di Filumena Marturano e
Don Mimì Soriano che rappresentano i limiti di un’intera classe imprenditoriale
napoletana. Un altro autore Raffaele Viviani con le sue opere Toledo di notte e Stazione
marittima riporta un dialetto più vicino agli usi popolari; questi è stato contrapposto a
Eduardo. Pertanto le differenze tra questi due non dipendono dalle caratteristiche della
lingua ma dal fatto che due autori rivolgono l’attenzione verso ambienti diversi. Un altro è
Annibale Ruccello: nel suo teatro la compresenza di italiano, dialetto e italiano locale
permette la rappresentazione di ambienti non tradizionali in cui la modernità si combina
con il degrado di provincia. Con la canzone ed il teatro il napoletano si diffonde anche in
una dimensione orale e non solo scritta e si conserva attraverso tale modalità. Sul versante
della creazione questi generi affondano in una dimensio