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Roma,che anche nell'ideale politico di Dante era il centro naturale dell'Impero; e può
essere che la condanna del volgare di Roma sia voluta per sottolineare il declino di
quella città e la sua inadeguatezza rispetto ai compiti a lei riservati.
Lo stesso Marcantonio Sabellico, di scuola romana e vissuto in Veneto, notava un
processo di livellamento linguistico a Roma, e proprio questa osservazione fu il
fondamento della teoria di Calmeta. La sua maggiore opera, Della volgar poesia, in cui era
contenuta la sua teoria linguistica, è andata perduta e se vogliamo conoscere le sue idee
dobbiamo ricorrere alla confutazione fatta da Bembo. Egli ritiene che la lingua usata alla
corte romana, e presa a modello da Calmeta, sia una lingua usata non dai romani di
nascita ma da quelli che abitano a Roma e sarebbe nata dal mescolamento di lingue
come lo spagnolo, il francese, il milanese, il napoletano e altre. All'obiezione che una
tale lingua non potesse trovare regolamentazione stabile, Calmeta avrebbe risposto con
un paragone con il mondo classico, poi ripreso da Trissino: il volgare avrebbe potuto
stabilizzarsi ugualmente, così come la koinè diàlektos greca si era imposta sulle lingue
attica,ionica,eolica e dorica.
Anche Castelvetro riporta alcune idee di Calmeta, che però non collimano con quelle che
si leggono in Bembo, ed è probabile che quest'ultimo le abbia modificate a scopo
polemico: secondo Castelvetro la teoria cortigiana faceva riferimento ad una fiorentinità
della lingua comune, la quale si doveva apprendere dai testi di Dante e Petrarca, e
doveva poi essere affinata attraverso l'uso della corte di Roma.
Sta di fatto che il fascino di Roma come centro elaboratore della lingua non aveva
attirato solo il Calmeta, ma anche Mario Equicola, letterato campano vissuto tra Ferrara
e Mantova, aveva parlato della centralità della corte romana capace di dar vita ad una
lingua 'commune', non disponibile a ridursi all'imitazione di Petrarca e Boccaccio, usata
da lui stesso del De natura de amore e da Castiglione nel Cortegiano.
Trissino e la riscoperta del De vulgari eloquentia (Marazzini)
Nel 1529, il vicentino Gian Giorgio Trissino, decide di pubblicare il trattato di Dante dal titolo
De vulgari eloquentia,ma non nella veste latina originale, bensì traducendolo in italiano, e
facendo firmare la prefazione ad uno sconosciuto del mondo delle lettere, Giovanbattista Doria
di Genova. Il testo latino gli doveva essere sembrato troppo rozzo per il gusto dei
contemporanei,ma oscuro era il motivo per cui non firmò egli stesso la prefazione: così facendo
gli avversari contestarono l'autenticità di quel libro, del quale circolava solo la traduzione e
non l'originale. Come gli esponenti della teoria cortigiana, Trissino era convinto che la lingua
volgare non potesse essere identificata con il fiorentino, ma fosse costituita da parole comuni
ad ogni parte d'Italia. Il dialogo Il Castellano fu pubblicato nel 1529: protagonista e portavoce
delle idee dell'autore è Giovanni Rucellai, appunto il castellano, che discorre con il fiorentino
Filippo Strozzi, al quale paradossalmente tocca il compito di combattere le tesi filofiorentine.
Ne Il Castellano vi è un aneddoto molto significativo: si racconta come un'analisi della lingua di
Petrarca alla ricerca dei vocaboli prettamente fiorentini e toscani, per distinguerli da quelli che
sono di altre regioni, avesse dimostrato che solo una percentuale minore della decima parte dei
vocaboli era stata riconosciuta propria di Firenze. Un'analisi condotta su Boccaccio avrebbe
dato risultati diversi,e in ciò sta la grande differenza di Trissino rispetto a Bembo, che aveva
come modello fondamentale il Decameron, seppur epurato della parti dialogiche, più popolari.
Nella stessa opera inoltre c'è un riferimento interessante ad una polemica nata attorno ad
un'affermazione contenuta nella dedica a papa Clemente VII della Sofonisba del Trissino stesso,
nella quale egli aveva dichiarato di aver scritto in lingua italiana. Questa era la definizione da
lui preferita, invece dell'aggettivo commune, usato dagli esponenti della teoria cortigiana.
A tal proposito il Dialogo della volgar lingua di Pierio Valeriano chiarisce che la denominazione
italiana per la lingua prima detta cortigiana deriva da Dante, o meglio dalla traduzione
trissiniana del De vulgari eloquentia; la denominazione comune si rifaceva invece al concetto
greco di koinè. Che dunque fosse in discussione in primis il nome della lingua era evidente,ma
ciò non significa che dietro il nominalismo de Il Castellano non ci siano altre questioni
importanti: è in gioco, ad esempio, il modo stesso di concepire la lingua, se come bene comune
e come patrimonio regionale.
Alla cultura toscana non piacque il De vulgari eloquentia di Trissino, e la più interessante
reazione a questa pubblicazione è sicuramente il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua di
Machiavelli,che però rimase inedito fino al 1730, quando fu stampato in appendice all'Ercolano
di Varchi. Col suo discorso, critico nei confronti nell'errore di lettura di Trissino che aveva
preso alla lettera il De vulgari eloquentia utilizzandolo come chiave di lettura della Commedia, il
Machiavelli intendeva stabilire una volta e per tutte il primato del fiorentino puro,rispetto al
quale le divergenze fonetiche e morfologiche delle altre lingue italiane si configuravano come
vitia,difetti. La polemica sull'autenticità del trattato dantesco, assente in Machiavelli, avrebbe
presto preso piede, anche perchè Trissino non rese mai pubblico l'originale latino,quando forse
avrebbe potuto farlo. Il testo originale saltò fuori solo nel 1577,quando lo pubblicò a Parigi
Jacopo Corbinelli, che non mancò di sottolineare il valore polemico,nei confronti degli
intellettuali che avevano circondato i Medici,della sua iniziativa editoriale. Nemmeno la
pubblicazione del manoscritto,tuttavia,fugò le ombre sull'autenticità del trattato perchè la
traduzione di Trissino continuò a circolare più dell'originale latino.
Come dicevamo prima, nelle Prose di Bembo si sottolineava l'importanza della durata
dell'occupazione barbarica e si precisava il concetto di miglioramento progressivo; la stessa tesi
la troviamo espressa nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni, in cui emerge la coscienza della
scarsa purezza dell'italiano, e quindi della sua servitù di fronte ai barbari. Tuttavia Sperono
nota che c'era stata sì una catastrofe,ma ad essa era seguita una crescita di qualità progressiva,
il che non solo ribadisce il principio del miglioramento progressivo delle lingue, ma sembra
fissare una regola applicabile anche ai popoli dell'epoca classica, secondo la quale la barbarie è
una condizione rimediabile.
In ambito toscano la questione dell'origine dell'italiano fu risolta in altro modo: il fiorentino
Pierfrancesco Giambullari nel Gello riportò la lingua toscana ad un popolo prelatino, gli
Etruschi, negando che essa fosse una forma di latino corrotto. Tale formulazione ebbe un certo
seguito,modulata in una tesi più cauta, sostenuta nel Cesano da Tolomei,secondo la quale oltre
che dalle invasioni barbariche, il toscano era nato da una corruzione più antica, prodottasi
dalla mescolanza del latino con l'etrusco. Si è potuto riconoscere in ciò un'anticipazione dei
moderni concetti di sostrato e superstrato.
Girolamo Muzio invece, rigettava la successione delle fasi etrusca,latina e barbarica e riteneva
che l'etrusco si fosse estinto precocemente,subito dopo la conquista romana, e piuttosto grande
importanza avevano avuto le incursioni barbariche, vera causa del cambiamento linguistico
(seguendo l'impostazione di Bembo). Tuttavia, meglio di altri, Muzio si impegnava ad indicare i
luoghi in cui le popolazioni germaniche si erano insediate in maniere duratura, e arrivava a
concludere che la Toscana era stata immune da un'invasione che aveva invece riguardato
l'Abruzzo, la Campania, la Lombardia e la Romagna. La conclusione era sorprendente: se la
lingua dei barbari era all'origine del volgare italiano,allora il Settentrione che aveva subito
maggiormente il peso delle invasioni e in cui l'insediamento era divenuto stabile,era anche la
culla della nuova lingua. Veniva quindi ribaltato il primato della Toscana come patria del nuovo
volgare italiano,e questa tesi non a caso fu ben accolta proprio nelle regioni in cui si soffriva di
un complesso di inferiorità rispetto alla Toscana.
Le tesi di Muzio furono esaminate in quello che può essere definito il più importante trattato di
linguistica del secondo 500, l'Ercolano del Varchi: nel Quesito quinto, sotto il titolo
Quando,dove,come,da chi e perchè ebbe origine la lingua volgare,Varchi afferma che i Goti erano stati
venduti come schiavi in Toscana e quindi avevano potuto originare qui la lingua volgare,oltre
al fatto che Desiderio era stato duca di Toscana; al che Muzio ribattè nella Varchina che sarebbe
dovuto accadere l'opposto,e cioè che i Goti apprendessero la lingua del posto e non i paesani
quella dei prigioneri.
Tutti i critici hanno riconosciuto che uno degli obiettivi principali di Varchi è fare i conti con la
teoria di Bembo,e infatti egli mirò a rimettere in gioco il fiorentino vivo,dandogli quel ruolo e
quella dignità che gli erano stati sottratti dalla Prose; ma un rapporto ancor più importante è
quello tra l'Ercolano e il De vulgari eloquentia. Per riconoscere le analogie tra le due opere basta
osservare il punto di avvio del discorso, in entrambi incentrato sulla differenza tra parlare e
favellare: solo il favellare implica il possesso reale della parola. La lingua infatti risulta essere il
favellare di uno o più popoli,quando usano gli stessi vocaboli con gli stessi significati; infatti le
lingue si riconoscono dall'emissione di messaggi e dalla comprensione, e si distinguono in
originali,che cioè sono da sempre nel luogo in cui si parlano,vive,morte e mezze vive, cioè che
si scrivono ma non si parlano più , altre cioè incomprensibili e diverse che invece possono
essere comprese in maniera approssimativa. Varchi accetta la teoria della catastrofe e ritiene
che alla corruzione corrisponda la generazione di qualcosa di nuovo e migliore, ma rifiuta la
teoria dello svantaggio dei toscani proposta da Bembo, ritenendo invece che la condizione dei
Fiorentini sia vantaggiosa, al punto che egli stabilisce la superiorità del fiorentino sulle altre
varietà del toscano. Varchi accetta la designazione di volgare, ma naturalmente respinge quella
di lingua cortigiana o italiana.
Le uniche teorie che prescindessero da quella della catastrofe erano dunque quella etrusca di
Giambullari e quella bruniana, secondo la q