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Una netta contrapposizione tra l’italiano e i dialetti non sembra più
verosimile: le linee di ricerca ora ricordate [Bruni] trovano
conferma dalle indagini di Bianconi, che dimostrano la circolazione
dell’italiano scritto e anche parlato nella Svizzera italiana, e da
Testa, che porta in piena luce l’italiano «nascosto» nelle scritture
non letterarie anche dell’epoca preunitaria.
Ne conseguono due possibili implicazioni:
1) Una lingua che gli alfabetizzati riuscivano in qualche modo a
mettere per iscritto era inevitabilmente anche una lingua che
al momento opportuno poteva essere letta ad alta voce o
pronunciata. In sostanza, chi bene o male scriveva poi in un
modo o nell’altro doveva essere in grado di adottare, accanto
al dialetto, la stessa lingua nella comunicazione parlata;
2) È molto probabile che questa stessa lingua tendenzialmente
comune assumesse nelle interazioni parlate una coloritura
locale, a partire dall’intonazione.
Se, insomma, è vero che prima dell’Unità gli italiani non parlavano
tutti allo stesso modo una lingua in tutto e per tutto uniforme, ciò
non esclude che nei diversi frangenti comunicativi non
strettamente letterari facessero affidamento su una lingua
tendenzialmente comune, per quanto mutevole, soprattutto nelle
occasioni in cui si incontravano persone di zone diverse.
In sostanza, la prospettiva variazionale, sia in sincronia che in
diacronia, dovrebbe permettere di abbandonare definitivamente la
«tendenza a considerare la realtà linguistica come se fosse
costituita da blocchi non comunicanti».
D’altronde, non sono solo i letterati a scrivere, così come non sono
solo i letterati a comunicare al di fuori di una cerchia ristretta di
conterranei: coloro che si muovono da un luogo all’altro hanno
sempre avuto necessità di una «lingua itineraria», secondo la
definizione data da Ugo Foscolo, che non era uguale all’italiano
letterario, ma non era neanche un dialetto. Nella variegata
categoria dei viaggiatori rientrerebbero alcuni che vanno
riconosciuti come professionisti della parola: attori, predicatori,
mercanti, avvocati, cortigiani, diplomatici, ambasciatori, insegnanti
[…]. Costoro nel tempo hanno cercato di allontanarsi da un uso
integralmente spontaneo del proprio dialetto materno e hanno
puntato verso l’italiano.
2. Natura e «ars» nella comunicazione
La distanza che corre tra un modo di parlare spontaneo e una
lingua appresa attraverso lo studio è sottolineata in un noto
passaggio delle Prose della volgar lingua di Bembo. Parlando dei
fiorentini, egli afferma che il loro svantaggio consisterebbe nella
tendenza a ritenersi dotati di una spontanea e nativa padronanza
della lingua, che li porterebbe a trascurare lo studio necessario.
Nella dicotomia natura/ars, per Bembo solo la seconda strada
garantisce il raggiungimento degli obiettivi. Nella prospettiva di
Bembo è fondamentale la distinzione tra parlare e scrivere, in
quanto solo con la scrittura si può coltivare l’ambizione di
comunicare con i posteri.
Di fronte a questa impostazione potremmo avere la curiosità di
sapere come parlasse Bembo. Ce lo dice il bellunese Pierio
Valeriano nel Dialogo delle lingue dove, a uno dei personaggi,
Marostica, viene attribuita la curiosità di verificare come parlava
Bembo. Bembo parla con «quella simplicità naturale che s’usa fra
galantuomini», d’altra parte egli si tiene lontano dalle affettazioni
di altri che ostentano una lingua più artificiosa proponendosi come
«correttori della lingua».
3. Lo spazio per gli elementi locali nell’italiano parlato
Nel dibattito noto come «questione della lingua» si manifestano
indizi di un interesse per la lingua parlata e di una consapevolezza
delle differenze tra lingua parlata e lingua scritta.
Dal punto di vista del parlante, già si costituisce la prospettiva di
chi vuole uscire dal proprio volgare materno per adottarne un altro
di portata più ampia. Tanto più ciò è vero per coloro che puntano
non tanto verso il toscano, quanto verso una lingua da identificare
con la lingua «italiana comune a tutti».
Dal punto di vista della variazione diatopica, è interessante il
dialogo Il Castellano di Gian Giorgio Trissino, che auspica a «una
lingua generale come il risultato di una serie di sottrazioni
dell’elemento locale apportate alle varie lingue regionali». Nella
classificazione di Trissino il criterio discriminante è connesso alla
diffusione geografica: la lingua di più ampia diffusione è quella
italiana «che include le lingue regionali, le cittadine, le
circondariali, le rionali, le familiari, fino ai singoli idioletti». Il
passaggio verso l’italiano si compie attraverso la rimozione di
pronunzie e parole di ciascun livello.
Questa prospettiva è piuttosto diversa dalla soluzione proposta da
Bembo: nel caso di Bembo l’ipotesi è quella di sostituire
completamente, almeno nella scrittura, la spontaneità naturale con
la lingua letteraria trecentesca. La soluzione bembesca, implicando
l’adesione ad una norma, comportava l’adozione di un modello che,
però, esponeva al rischio di approssimazioni e ipercorrettismi.
Ecco come vedeva le cose, invece, Dominico Manzoni, autore nel
1564 di un Libro mercantile, nel quale precisava di aver adottato
un «italiano puro et commune», poiché per la sua scrittura non
reputava adatta la lingua trecentesca. La cautela di Dominico nel
chiarire le sue scelte linguistiche dimostra che nel Cinquecento
anche un autore che scrive di ragioneria avverte la necessità di
mostrarsi aggiornato sul dibattito linguistico in corso.
4. Usi locali nella prospettiva di Benedetto Di Falco
Nella prima metà del Cinquecento il napoletano Benedetto Di Falco
si mostra attento a problemi linguistici e letterari.
Di Falco interviene nel dibattito sulla lingua con uno scritto sui
luoghi dubbi di Ariosto nel quale prende le difese di Dante. Di
Falco ribadisce la sua insofferenza verso le affettazioni arcaizzanti.
Nella sua Dichiaratione fa capire come si realizzasse nella pratica
il percorso verso il «parlare comune emendato» e come si attuasse
nella conversazione corrente l’eliminazione delle caratteristiche
linguistiche del parlare «rozzo e vile».
Quando l’attenzione si sposta sul lessico, viene notata la
concorrenza tra forme alternative che oggi etichetteremmo come
geosinonimi. In un punto è detto chiaramente che, in caso di
concorrenza tra voci diverse, la preferenza dev’essere accordata
alla forma romana, perché a Roma il «parlare è più generale e
lodevole». È possibile che qualificando il parlare romano come più
generale intenda esattamente più comune. In sostanza, quindi, la
lingua romana, in quanto più generale, sarebbe più italiana. In
questa prospettiva chi vuole usare regolatamente il parlare
comune emendato deve puntare a una lingua generale, che eviti le
forme proprie di una lingua di area più ristretta.
5. La prospettiva diastratica e «la civil conversazione» di Stefano
Guazzo
Per i teorici del Cinquecento è ben chiaro che il modo di parlare
cambia e nella loro interpretazione risalta anche la variazione
diastratica tra parlanti che in uno stesso luogo sono in possesso di
diverse competenze linguistiche.
Secondo il fiorentino Benedetto Varchi il modo di parlare di un
determinato luogo si divide in tre parti. Le categorie di parlanti
sarebbero in realtà quattro, ma l’autore non intende considerare
l’infima plebe. Per quanto riguarda gli altri parlanti, Varchi
distingue tra:
1) Letterati: coloro che con la lingua natìa conoscono anche il
latino e talvolta il greco;
2) Idioti: che non solo non conoscono altre lingue ma non sanno
ancora favellare correttamente la natìa;
3) Non idioti: coloro che, sebbene non conoscano altre lingue,
parlano la lingua natìa correttamente.
Meno articolata è la divisione tra il parlare della «goffa gente» e
quello delle «nobil persone» di Giovan Battista Del Tufo. L’autore,
mentre dichiara di voler lasciare da parte «il parlare che fa quel
popolaccio», ne dà poi ampia descrizione. Individua però il
«favellar gentil napoletano» come simile al toscano e superiore al
favellare di Milano. Non si può avere alcun dubbio che il favellar
gentile, per quanto affine al toscano, rivelasse una componente
napoletana più o meno vistosa, anche se ne erano state sottratte le
caratteristiche più connotate. Si trattava quindi probabilmente di
un italiano parlato alla napoletana.
Stefano Guazzo, un contemporaneo piemontese di Del Tufo, in una
La civil conversazione,
sua opera intitolata allude a un quadro
linguistico variegato, dal quale risulta che per scrivere felicemente
va seguito il modello degli scrittori toscani, appreso attraverso un
lungo studio, mentre quando si parla «la lingua deve avere la
forma che dimostri a qualche segno l’origine di colui che parla».
Anche per Guazzo un uomo nobile non può parlare la favella
paesana al modo di plebei e contadini, ma non può neanche cadere
nell’affettazione e nella pretesa di parlare in tutto e per tutto in
toscano. Facendo il paragone con i tessuti, secondo Guazzo si deve
evitare un tessuto di un solo colore, ma bisogna anche evitare che
le due lingue si accostino tra loro come i colori di una divisa
bipartita in zone distinte. La soluzione giusta è quella che combina
lingua materna rozza con quella toscana che è «polìta».
Guazzo accenna a diverse varietà, differenziate tra scritto e
parlato, ma anche in prospettiva diastratica e naturalmente
diatopica. Proponiamo dunque uno schema della prospettiva
linguistica di Guazzo:
- Toscano letterario scritto degli autori
- Toscano parlato dai toscani
- Toscano parlato dai non toscani (con inevitabile affettazione)
- Lingua mista ben mescolata
- Lingua sfoggiata (con toscano e lingua materna accostati, ma
non mescolati)
- Lingua schietta (parlare materno)
La lingua schietta è ritenuta accettabile solo se viene parlata dai
toscani.
Sul finire del Cinquecento il grecista materano Ascanio Persio
propugnava la necessità di conservare nell’uso le forme locali, pur
migliorandole e pronunciandole in modo acconcio. La difesa delle
parole locali è dovuta al fatto che Persio individua la base greca di
diverse voci meridionali
6. L’italiano regionale nelle scrit