Anteprima
Vedrai una selezione di 10 pagine su 42
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 1 Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 2
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 6
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 11
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 16
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 21
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 26
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 31
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 36
Anteprima di 10 pagg. su 42.
Scarica il documento per vederlo tutto.
Riassunto esame Storia della lingua italiana , Prof. De Blasi Nicola, libro consigliato Geografia e storia dell’italiano regionale, Nicola De Blasi Pag. 41
1 su 42
D/illustrazione/soddisfatti o rimborsati
Disdici quando
vuoi
Acquista con carta
o PayPal
Scarica i documenti
tutte le volte che vuoi
Estratto del documento

Una netta contrapposizione tra l’italiano e i dialetti non sembra più

verosimile: le linee di ricerca ora ricordate [Bruni] trovano

conferma dalle indagini di Bianconi, che dimostrano la circolazione

dell’italiano scritto e anche parlato nella Svizzera italiana, e da

Testa, che porta in piena luce l’italiano «nascosto» nelle scritture

non letterarie anche dell’epoca preunitaria.

Ne conseguono due possibili implicazioni:

1) Una lingua che gli alfabetizzati riuscivano in qualche modo a

mettere per iscritto era inevitabilmente anche una lingua che

al momento opportuno poteva essere letta ad alta voce o

pronunciata. In sostanza, chi bene o male scriveva poi in un

modo o nell’altro doveva essere in grado di adottare, accanto

al dialetto, la stessa lingua nella comunicazione parlata;

2) È molto probabile che questa stessa lingua tendenzialmente

comune assumesse nelle interazioni parlate una coloritura

locale, a partire dall’intonazione.

Se, insomma, è vero che prima dell’Unità gli italiani non parlavano

tutti allo stesso modo una lingua in tutto e per tutto uniforme, ciò

non esclude che nei diversi frangenti comunicativi non

strettamente letterari facessero affidamento su una lingua

tendenzialmente comune, per quanto mutevole, soprattutto nelle

occasioni in cui si incontravano persone di zone diverse.

In sostanza, la prospettiva variazionale, sia in sincronia che in

diacronia, dovrebbe permettere di abbandonare definitivamente la

«tendenza a considerare la realtà linguistica come se fosse

costituita da blocchi non comunicanti».

D’altronde, non sono solo i letterati a scrivere, così come non sono

solo i letterati a comunicare al di fuori di una cerchia ristretta di

conterranei: coloro che si muovono da un luogo all’altro hanno

sempre avuto necessità di una «lingua itineraria», secondo la

definizione data da Ugo Foscolo, che non era uguale all’italiano

letterario, ma non era neanche un dialetto. Nella variegata

categoria dei viaggiatori rientrerebbero alcuni che vanno

riconosciuti come professionisti della parola: attori, predicatori,

mercanti, avvocati, cortigiani, diplomatici, ambasciatori, insegnanti

[…]. Costoro nel tempo hanno cercato di allontanarsi da un uso

integralmente spontaneo del proprio dialetto materno e hanno

puntato verso l’italiano.

2. Natura e «ars» nella comunicazione

La distanza che corre tra un modo di parlare spontaneo e una

lingua appresa attraverso lo studio è sottolineata in un noto

passaggio delle Prose della volgar lingua di Bembo. Parlando dei

fiorentini, egli afferma che il loro svantaggio consisterebbe nella

tendenza a ritenersi dotati di una spontanea e nativa padronanza

della lingua, che li porterebbe a trascurare lo studio necessario.

Nella dicotomia natura/ars, per Bembo solo la seconda strada

garantisce il raggiungimento degli obiettivi. Nella prospettiva di

Bembo è fondamentale la distinzione tra parlare e scrivere, in

quanto solo con la scrittura si può coltivare l’ambizione di

comunicare con i posteri.

Di fronte a questa impostazione potremmo avere la curiosità di

sapere come parlasse Bembo. Ce lo dice il bellunese Pierio

Valeriano nel Dialogo delle lingue dove, a uno dei personaggi,

Marostica, viene attribuita la curiosità di verificare come parlava

Bembo. Bembo parla con «quella simplicità naturale che s’usa fra

galantuomini», d’altra parte egli si tiene lontano dalle affettazioni

di altri che ostentano una lingua più artificiosa proponendosi come

«correttori della lingua».

3. Lo spazio per gli elementi locali nell’italiano parlato

Nel dibattito noto come «questione della lingua» si manifestano

indizi di un interesse per la lingua parlata e di una consapevolezza

delle differenze tra lingua parlata e lingua scritta.

Dal punto di vista del parlante, già si costituisce la prospettiva di

chi vuole uscire dal proprio volgare materno per adottarne un altro

di portata più ampia. Tanto più ciò è vero per coloro che puntano

non tanto verso il toscano, quanto verso una lingua da identificare

con la lingua «italiana comune a tutti».

Dal punto di vista della variazione diatopica, è interessante il

dialogo Il Castellano di Gian Giorgio Trissino, che auspica a «una

lingua generale come il risultato di una serie di sottrazioni

dell’elemento locale apportate alle varie lingue regionali». Nella

classificazione di Trissino il criterio discriminante è connesso alla

diffusione geografica: la lingua di più ampia diffusione è quella

italiana «che include le lingue regionali, le cittadine, le

circondariali, le rionali, le familiari, fino ai singoli idioletti». Il

passaggio verso l’italiano si compie attraverso la rimozione di

pronunzie e parole di ciascun livello.

Questa prospettiva è piuttosto diversa dalla soluzione proposta da

Bembo: nel caso di Bembo l’ipotesi è quella di sostituire

completamente, almeno nella scrittura, la spontaneità naturale con

la lingua letteraria trecentesca. La soluzione bembesca, implicando

l’adesione ad una norma, comportava l’adozione di un modello che,

però, esponeva al rischio di approssimazioni e ipercorrettismi.

Ecco come vedeva le cose, invece, Dominico Manzoni, autore nel

1564 di un Libro mercantile, nel quale precisava di aver adottato

un «italiano puro et commune», poiché per la sua scrittura non

reputava adatta la lingua trecentesca. La cautela di Dominico nel

chiarire le sue scelte linguistiche dimostra che nel Cinquecento

anche un autore che scrive di ragioneria avverte la necessità di

mostrarsi aggiornato sul dibattito linguistico in corso.

4. Usi locali nella prospettiva di Benedetto Di Falco

Nella prima metà del Cinquecento il napoletano Benedetto Di Falco

si mostra attento a problemi linguistici e letterari.

Di Falco interviene nel dibattito sulla lingua con uno scritto sui

luoghi dubbi di Ariosto nel quale prende le difese di Dante. Di

Falco ribadisce la sua insofferenza verso le affettazioni arcaizzanti.

Nella sua Dichiaratione fa capire come si realizzasse nella pratica

il percorso verso il «parlare comune emendato» e come si attuasse

nella conversazione corrente l’eliminazione delle caratteristiche

linguistiche del parlare «rozzo e vile».

Quando l’attenzione si sposta sul lessico, viene notata la

concorrenza tra forme alternative che oggi etichetteremmo come

geosinonimi. In un punto è detto chiaramente che, in caso di

concorrenza tra voci diverse, la preferenza dev’essere accordata

alla forma romana, perché a Roma il «parlare è più generale e

lodevole». È possibile che qualificando il parlare romano come più

generale intenda esattamente più comune. In sostanza, quindi, la

lingua romana, in quanto più generale, sarebbe più italiana. In

questa prospettiva chi vuole usare regolatamente il parlare

comune emendato deve puntare a una lingua generale, che eviti le

forme proprie di una lingua di area più ristretta.

5. La prospettiva diastratica e «la civil conversazione» di Stefano

Guazzo

Per i teorici del Cinquecento è ben chiaro che il modo di parlare

cambia e nella loro interpretazione risalta anche la variazione

diastratica tra parlanti che in uno stesso luogo sono in possesso di

diverse competenze linguistiche.

Secondo il fiorentino Benedetto Varchi il modo di parlare di un

determinato luogo si divide in tre parti. Le categorie di parlanti

sarebbero in realtà quattro, ma l’autore non intende considerare

l’infima plebe. Per quanto riguarda gli altri parlanti, Varchi

distingue tra:

1) Letterati: coloro che con la lingua natìa conoscono anche il

latino e talvolta il greco;

2) Idioti: che non solo non conoscono altre lingue ma non sanno

ancora favellare correttamente la natìa;

3) Non idioti: coloro che, sebbene non conoscano altre lingue,

parlano la lingua natìa correttamente.

Meno articolata è la divisione tra il parlare della «goffa gente» e

quello delle «nobil persone» di Giovan Battista Del Tufo. L’autore,

mentre dichiara di voler lasciare da parte «il parlare che fa quel

popolaccio», ne dà poi ampia descrizione. Individua però il

«favellar gentil napoletano» come simile al toscano e superiore al

favellare di Milano. Non si può avere alcun dubbio che il favellar

gentile, per quanto affine al toscano, rivelasse una componente

napoletana più o meno vistosa, anche se ne erano state sottratte le

caratteristiche più connotate. Si trattava quindi probabilmente di

un italiano parlato alla napoletana.

Stefano Guazzo, un contemporaneo piemontese di Del Tufo, in una

La civil conversazione,

sua opera intitolata allude a un quadro

linguistico variegato, dal quale risulta che per scrivere felicemente

va seguito il modello degli scrittori toscani, appreso attraverso un

lungo studio, mentre quando si parla «la lingua deve avere la

forma che dimostri a qualche segno l’origine di colui che parla».

Anche per Guazzo un uomo nobile non può parlare la favella

paesana al modo di plebei e contadini, ma non può neanche cadere

nell’affettazione e nella pretesa di parlare in tutto e per tutto in

toscano. Facendo il paragone con i tessuti, secondo Guazzo si deve

evitare un tessuto di un solo colore, ma bisogna anche evitare che

le due lingue si accostino tra loro come i colori di una divisa

bipartita in zone distinte. La soluzione giusta è quella che combina

lingua materna rozza con quella toscana che è «polìta».

Guazzo accenna a diverse varietà, differenziate tra scritto e

parlato, ma anche in prospettiva diastratica e naturalmente

diatopica. Proponiamo dunque uno schema della prospettiva

linguistica di Guazzo:

- Toscano letterario scritto degli autori

- Toscano parlato dai toscani

- Toscano parlato dai non toscani (con inevitabile affettazione)

- Lingua mista ben mescolata

- Lingua sfoggiata (con toscano e lingua materna accostati, ma

non mescolati)

- Lingua schietta (parlare materno)

La lingua schietta è ritenuta accettabile solo se viene parlata dai

toscani.

Sul finire del Cinquecento il grecista materano Ascanio Persio

propugnava la necessità di conservare nell’uso le forme locali, pur

migliorandole e pronunciandole in modo acconcio. La difesa delle

parole locali è dovuta al fatto che Persio individua la base greca di

diverse voci meridionali

6. L’italiano regionale nelle scrit

Dettagli
Publisher
A.A. 2023-2024
42 pagine
SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-FIL-LET/12 Linguistica italiana

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher Anthea_01 di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia della lingua italiana e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli studi di Napoli Federico II o del prof De Blasi Nicola.