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LA LINGUA DELLA PROSA
La poesia in volgare è arrivata presto nella splendida corte di Federico II. Il volgare ha qualche diEicoltà in
più a conquistarsi un proprio spazio nella prosa di tipo argomentativo e narrativo; mercanti, imprenditori,
notai, giudice politici costituiscono il tessuto connettivo della vita cittadina e promuovono una nuova
cultura, con alle esigenze pratiche e agli ideali laici del Comune.
La prosa volgare comincia a raccogliere alcuni frutti promettenti, rispondendo alla necessità di stendere
documenti economici e amministrativi.
TESTI PRATICI, MANUALI DI SCRITTURA, VOLGARIZZAMENTI
L'esistenza di ceti medi alfabetizzati, sollecita l'impiego del volgare nelle scritture di tipo pratico-tecnico,
per usi commerciali, amministrativi, notarili..
IL latino continua ad essere la lingua più usata, ma cominciano a profilarsi nelle città italiane tradizioni di
scrittura pratica.
Gli operatori economici toscani, utilizzavano il volgare fin dai decenni a cavallo tra 11º e XII
secolo; queste scritture sono prive di aspirazioni letterarie, ed hanno un particolare valore dal punto di
vista linguistico.
La nuova cultura volgare di stampo borghese elabora infatti un proprio modello di grafia, la mercantesca,
mentre la scrittura uEiciale si orienta verso la minuscola cancelleresca, insegnata nelle scuole notarili.
Anche da altre regioni d'Italia provengono testi di carattere pratico.
A Venezia troviamo un testo del 1253, che rappresenta una descrizione di terreni posseduti da una
famiglia della città. Si tratta del più antico documento originale in volgare veneziano.
E significativo lo spazio che il volgare acquista nell'ambito della scuola e dell’università, istituzioni legate
al latino, ma sensibili alle nuove esigenze della vita civile e politica.
Fu proprio a Bologna dove gli aspiranti notai dovevano saper leggere e scrivere in volgare e in latino.
Guido Faba, notaio e maestro di retorica Latina, realizzò Gemma Purpurea, un prontuario di formule
epistolari volgari, in cui riprende adatta gli artefici della retorica latina, al fine di conferire dignità ed
eleganza ai suoi modelli di prosa in bolognese illustre.
Anche Giovanni da Viterbo compose il Liber de regimine civitatum, che fornisce modelli per i discorsi
pubblici dei podestà.
Guida da Bologna invece, scrive Fiore di retorica, volgarizzamento di uno dei testi fondamentali della
retorica latina, la Rhetorica ad Herennium.
Dalla metà del 200 in poi si amplia la pratica dei volgarizzamenti: dalla latinità classica e medievale la
cultura volgare tra i temi e ispirazioni.
I volgarizzatori medievali si concedevano una grande libertà, aggiungendo spesso commenti e glosse
esplicative, eliminando parti. Le traduzioni dal latino venivano realizzate da notai o giudici.
Si traduce anche molto dal francese, e le versioni venivano spesso realizzate da mercanti o dilettanti,
motivo per cui c'erano spesso fraintendimenti.
La quota più consistente della prosa duecentesca di argomento storico, dottrinale o scientifico, è
costituita da volgarizzamenti.
Attraverso l'esercizio del tradurre il giovane idioma, si impadronisce di se stesso e del mondo culturale.
Escludendo i volgarizzamenti di Brunetto Latini e di Bono Giamboni, in questa fase l'interesse per la
divulgazione dei contenuti tende a prevalere sulla considerazione della qualità formale del testo di
partenza.
CAPITOLO 5: DANTE
Il primo insuperato capolavoro in volgare, la commedia dantesca, irrompe sulla scena linguistica e
culturale italiana in un momento dove la scrittura è dominata dal latino, lingua della comunicazione
elevata, e che dà luogo a una produzione letteraria molto ricca.
A tale supremazia non sono in grado di opporsi le varietà locali, alla ricerca di una propria identità;
qualche varietà riesce talvolta ad assurgere a dignità letteraria: ad esempio il siciliano della celebre
scuola poetica della corte di Federico II di Svevia. si tratta però di episodi rari, che non hanno la capacità
di fondare una tradizione.
Il largo impegno che in Italia si fa, di altri volgari romanzi dotati già di prestigio letterario è il provenzale.
LE IDEE LINGUISTICHE DI DANTE
Le due opere teoriche nelle quali Dante discorre dei temi linguistici: il convivio ed il De Vulgari eloquentia,
datate all’inizio del trecento, ma entrambe incompiute.
La lingua che si estende per quasi tutte le parti dell’Italia è il volgare, immaginata da Dante come un
insieme virtualmente unitario, nonostante le molteplici articolazioni.
Dante aveva avuto occasione di soEermarsi su argomenti linguistici, ad esempio per giustificare
l’adozione del volgare in Vita Nuova, poiché egli vuole farsi intendere dalla propria donna, alle cui
orecchie in latino suonerebbe incomprensibile.
Dal convivio, la riflessione si fa più profonda, e cresce la preferenza di Dante per il volgare, strumento che
avrebbe potuto unificare dal punto di vista linguistico l’Italia, favorendo la coesione sociale e culturale
degli italiani.
Inizialmente il non mette in dubbio il primato del latino, ma identifica un pubblico nuovo al quale
rivolgersi, ovvero un’ampia platea composta da persone che non hanno avuto l’opportunità di studiare e
che ignorano il latino. → lo scrittore ha il ruolo di dispensatore di coscienza.
Le logge con cui si chiude il capitolo introduttivo del trattato , è un atto d’amore nei confronti del volgare
italiano, ritenuto capace di rivaleggiare in ogni campo con il latino.
Il destino presagito per il volgare trova più salde fondamenti teoriche nel trattato in latino De Vulgari
eloquentia, la cui stesura inizia nel 1304, intrecciandosi con la composizione del convivio.
Già la scelta di scrivere in latino per celebrare il volgare indica che Dante si rivolge a interlocutori ben
diversi da quelli del convivio: li ha persone non letterate, qui ha una schiera di studiosi. A loro Dante vuole
destinare il primo e più importante trattato di linguistica composto nell’Europa medievale.
L’autore svolge un’ampia digressione sull’origine del linguaggio, ed aEerma il principio della variabilità
delle lingue nello spazio e nel tempo: questo riconoscimento rappresenta uno dei punti più alti della
dottrina linguistica di Dante.
Nell’ottica del De Vulgari eloquentia la mutevolezza degli idiomi costituisce un fattore negativo, risultato
del castigo divino che colpì i costruttori della torre di babele.
L’incomprensione tra gli uomini dipende dall’eredità di un peccato, alla quale i colti avrebbero rimediato
attraverso l’elaborazione di una grammatica artificiale, per porre freno alla continua trasformazione delle
parlate e garantire quella stabilità che alla base dell’esistenza di una letteratura.
Il latino nel giudizio dantesco non è mai mai stato una lingua realmente parlata; di conseguenza non
esisterebbe una linea di sviluppo dal latino al volgare, ma anzi grammatici avrebbero prelevato molte
parole dalle lingue vive, e in in particolare dal volgare italiano.
Dante analizza le lingue europee, riconoscendo una base comune nelle parlate degli italiani, dei francesi
e dei provenzali. All’origine di questa famiglia di lingue secondo Dante non c’era latino, ma uno dei tre
idiomi giunti in Europa in seguito alla confusione babelica: l’ydioma tripharium (triplice), da cui sono
fatte discendere, oltre alle varietà del gruppo romanzo, quelle del gruppo germanico e quelle
riconducibili al greco. Lo sguardo dell’autore si concentra anche sulla lingua del sì, più nobile e illustre tra
tutte quelle presenti in Italia.
La variazione in diacronia dei volgari d’Italia era già stata messa in luce nel convivio.
Dalla ben più ampia e complessa esposizione De Vulgari Eloquentia emerge con chiarezza che le lingue
in atto sono un prodotto dell’uomo. Ne consegue che l’evoluzione linguistica obbedisce alle logiche
proprie dell’intelletto umano, e in nessun modo può essere messa sullo stesso piano dalle modifiche
riguardanti la realtà fisica e materiale.
Nel De vulgari eloquentia trovano uno sviluppo maggiore il tema della variazione diatopica, illustrata in
dettaglio per l’intera Italia. Dante osservava che gli idiomi mutano non solo da regioni a regione, ma
anche in località vicine tra loro. Perfino gli abitanti di due zone diEerenti di una città, una periferica e
l’altra centrale, parlano diversamente.
Il principio di mutamento nello spazio costituisce il solido nucleo teorico che gli permette di cogliere con
estrema chiarezza l’identità autonoma del volgare italo-romanzo.
Dante distingue 14 macroaree con i rispettivi volgari, soggetti a variabilità interna, e arriva ad aEermare
che, se si dovesse tener conto di tutte le diEerenze di primo, di secondo e di terzo grado, in Italia si
conterebbero più di 1000 varietà del volgare.
Se la linguistica domina nel primo libro dell’opera, nel secondo libro l’attenzione si rivolge alla retorica.
Ricordiamo il concetto della superiorità della poesia sulla prosa: si tratta di una nozione che a Dante non
doveva apparire del tutto scontata, Poiché in quegli stessi anni, nel convivio, lo scrittore individuava nella
prosa la modalità espressiva più indicata per rivelare la “ naturale bellezza di una”, ma riconosceva che la
poesia era più utile alle sorti di un idioma perché ne garantiva la sregolatezza e la conseguente stabilità.
Nel de vulgari eloquentia il primato della poesia è sancito sulla base della sua maggiore capacità,
rispetto alla prosa, di costruirsi come modello.
Il secondo libro del trattato introduce l’uso del volgare poetico, proponendo un ideale di lingua nobile e
raEinata ed elaborata impreziosita.
LE VARIETÀ DEL VOLGARE ITALIANO SECONDO DANTE
Il De vulgari eloquentia si interrompe bruscamente nel mezzo del cap. 14 del 2^ libro. Il primo libro
aEronta temi linguistici e stilistici di carattere generale; il secondo tratta di retorica, con riferimento allo
stile più nobile della poesia lirica.
Dante aEerma che il volgare e la lingua più nobile, perché usata per prima , universalmente e poiché è
naturale anziché artificiale.
Nel cap. XII Dante passa a trattare del siciliano, che può vantare il primato nella produzione poetica
italiana. Le ragioni dell'egemonia siciliana sono individuate nella politica illuminata di Federico II e del
successore Manfredi, la cui reggia accoglieva i migliori intellettuali d'Italia.
Nel cap. XIII, Dante combatte duramente la pretesa delle parlate toscane di identificarsi con il volgare
illustre. Il suo attacco, rivolto non solo alla lingua popolare ma anche all'uso dei poeti che