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PRIMI MODELLI EXPORTLED
Individuano nella funzione trainante delle esportazione la chiave di lettura della crisi e
dello sviluppo dell’Italia.
Non sono stati in grado di spiegare come lo sviluppo del commercio estero o della
domanda interna abbia mutato la struttura industriale ed economica del Paese.
GRAZIANI: MODELLO EXPORTLED
Individua tre aspetti che caratterizzano – apertura verso i mercati esteri
un’economia in via di sviluppo: – dualismo industriale
– distorsione nei consumi.
Le economie in via di sviluppo necessitano di importare i macchinari e gli impianti dai
Paesi più avanzati. Tuttavia per mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti,
senza ricorrere a politiche deflazionistiche, è necessario incrementare le esportazioni
ad un tasso almeno pari al tasso di crescita del reddito. È essenziale quindi avere
prezzi competitivi, al fine di tenere alte le esportazioni.
Il dualismo industriale è dato dal fatto che si viene a contrapporre al comparto
efficiente, relativo alle esportazioni, quello arretrato, diretto al mercato interno (delle
importazioni), soprattutto dal punto di vista tecnologico.
Il comparto delle importazioni, trovandosi con basse crescita, capacità di spesa e
produttività, inasprisce il dualismo del sistema, favorendo una distorsione dei consumi
verso beni non necessari.
Ciò spiegherebbe il crescente divario tra il triangolo industriale e il resto del Paese.
MODELLO DEMAND-PUSH: CIOCCA, FILOSA e REY
Considerano un fattore determinante per la crescita la domanda interna.
Gli accordi internazionali e l’apertura dei mercati vincolarono l’Italia
all’industrializzazione intensiva, resa possibile – l’alta elasticità della forza lavoro
grazie a: – un processo di accumulazione del capitale fisso, favorito
dallo Stato.
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A causa della politica monetaria cauta, quasi nullo fu l’effetto delle esportazioni.
Negli anni 1951-58 la crescita fu sospinta dagli investimenti, favoriti dai bassi salari.
Gli anni 1965-71 furono caratterizzati da una modesta dinamica degli investimenti e
da un sottoutilizzo delle risorse. Solo il terziario aumentò gli occupati.
Le ultime due analisi rilevano alcuni punti d’accordo:
le politiche adottate dal governo hanno condizionato il processo
d’industrializzazione;
la crescita tra il 1959-63 fu dovuta all’aumento delle esportazioni e degli
investimenti;
il basso costo del lavoro e la produttività stimolarono le esportazioni, favorendo
nuovi investimenti;
ci furono, in questi anni, solo aumenti dei consumi privati, non pubblici;
si accentuò il divario fra zone industrializzate ed arretrate;
si accentuarono le differenze tra settori ad alta produttività e settori residui.
LE TENDENZE ESPRESSE DAI SETTORI INDUSTRIALI
I settori più dinamici divennero quindi quelli trainati dalla domanda, di beni di
consumo, privata, interni ed esterni.
La produttività dei tre settori dell’economia varia inversamente al peso del singolo
settore. La produttività dell’economia assume sempre più un andamento simile a
quello della produttività del secondario.
L’elemento nuovo, rispetto al periodo prebellico, è l’apertura dell’economia italiana
agli scambi esteri.
Riducendosi il peso dello Stato nell’economia, ora i settori meccanico, dei mezzi di
trasporto e chimico sono trainati dalla domanda privata.
Il ciclo caratterizzato dai bassi costi del lavoro arriverà a termine con l’esplosione di
una rivolta da parte di lavoratori e studenti in tutto il mondo occidentale, segno della
fine di quel modello di crescita.
Si chiudeva anche l’era della stabilità monetaria con la dichiarazione di non
convertibilità del Dollaro, nel 1971, da parte di Nixon, ponendo fine al regime di
Bretton Woods.
Iniziò una nuova fase segnata dal – i cambi diventano fluttuanti
venir meno di ogni parametro di stabilità: – il prezzo del petrolio, nel 1973,
quadruplica, a causa del cartello dei Paesi produttori.
LA PROGRAMMAZIONE DALLA RICOSTRUZIONE AL MIRACOLO
ECONOMICO
Videro la luce diversi documenti volti a chiarire quale fosse il cammino di sviluppo
previsto, caratterizzati dalla volontà di affrontare, in maniera organica, il problema
dello sviluppo e risolvere i problemi riguardanti: – la disoccupazione;
– il disavanzo della bilancia dei pagamenti;
– gli squilibri nord-sud.
Tuttavia emergeva spesso una sproporzione tra obiettivi proposti e mezzi disponibili.
I comunisti, rinunciando a qualsiasi forma di interventismo statale, rinunciarono alla
richiesta di pianificazione da parte dello Stato; i democristiani d’altra parte insistettero
per orientare le dinamiche economiche verso fini sociali; la destra storica rifiutava una
pianificazione che costringesse le scelte individuali.
Alla fine l’azione pubblica realizzò numerosi interventi settoriali:
programma straordinario di opere pubbliche nel Meridione
piano settennale per incrementare l’occupazione con la costruzione di case per
gli operai
riforme fondiarie.
La più completa proposta programmatoria della Sinistra fu il Piano del lavoro,
presentato dalla CGIL nel 1949.
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Mentre si avviavano opere pubbliche per intervenire con strumenti straordinari, la
politica macroeconomica era contraddistinta da una politica di bilancio e di cambio
deflazionistica.
SCHEMA VANONI
Il primo documento programmatorio risultò lo Schema Vanoni, presentato nel 1954:
ipotesi di programmazione globale in cui vi è l’esplicazione di azioni coordinate per
raggiungere un insieme organico di obbiettivi: – creazione di 4 milioni di posti di
lavoro nei settori extragricoli;
– mantenimento a pareggio della bilancia dei
pagamenti; – eliminazione del divario di reddito Nord-Sud.
Tale crescita si fondava su una prospettiva di rapida industrializzazione, alimentata
dalla fuoriuscita dal Primario, nei settori propulsivi e regolatori del sistema (controllati
dal Governo).
Nel frattempo nella Democrazia cristiana veniva meno la forte guida di De Gasperi.
La crescita economica successiva confermò i dati dello Schema: il tasso di crescita
rimase superiore al 5%.
Ciononostante questa rapida crescita continuò ad inasprire il divario tra Nord e Sud, in
cui il reddito pro capite si ridusse del 68%. L’industrializzazione si era ancora
concentrata nell’area nord-occidentale, generando effetti migratori interni.
La rapida industrializzazione risultò incompatibile con la riduzione del divario
Nord-Sud.
In una fase di forte industrializzazione emersero squilibri nell’insieme del sistema
economico.
NOTA LA MALFA
Fu presentata in preparazione di una nuova fase politica ed economica, ponendo
l’accento sui possibili effetti distorsivi di una crescita accelerata.
Evidenziava tre distorsioni – tra agricoltura e industria;
nel modello di sviluppo – tra il Nord-Ovest ed il resto del Paese;
perseguito: – tra consumi pubblici e privati, definiti opulenti.
La Nota affrontava la necessità d’interventi pubblici per creare esternalità favorevoli
alla crescita industriale, ma anche alla ridefinizione della qualità dello sviluppo
economico, favorendo localizzazioni produttive finora marginali. Necessità d’intervento
nel campo dei consumi e dei servizi pubblici, in particolare nell’istruzione.
Si precisava inoltre che la programmazione dovesse riguardare anche investimenti
privati, implicando una sorta di concentrazione, senza però esplicarne le modalità
d’attuazione.
LA PROGRAMMAZIONE NEGLI ANNI DI CRISI
Nel 1962 fu istituita la Commissione nazionale per la programmazione economica
(CNPE) con l’obiettivo di definire un programma poliennale di sviluppo coerente. Il suo
lavoro era orientato a rendere coerenti ed economiche azioni di vasta portata che si
svolgono in settori diversi in vista di finalità di sviluppo civile equilibrato.
Il programma diviene uno schema di compatibilità da aggiustare in continuazione,
dato che il bilancio dello Stato non ammetteva determinate proiezioni.
Il rapporto non fu mai sottoposto a votazione.
Fuà e Sylos-Labini posero in evidenza i gravi squilibri nei consumi che consideravano
necessarie un’indicazione verso gli investimenti pubblici e una più chiara
redistribuzione dei salari, con l’intervento dei sindacati.
Era necessario attivare un’azione straordinarie, con le imprese pubbliche, gestite
tuttavia con gli stessi criteri di mercato con cui erano amministrate le imprese private.
Secondo diversi studiosi la presenza di mercati monopolistici, o comunque fortemente
concentrati, genera situazioni che non possono essere corrette solo con indicazioni o
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interventi straordinari, ma richiedono una pianificazione economica attuata con
strumenti adeguati, come:
• un’efficace legislazione antitrust;
• un sistema organico d’incentivi e disincentivi;
• un nuovo sistema fiscale;
• interventi sul commercio;
• l’istituzione delle Regioni;
• maggiori autonomie locali.
Infine si delineò un’ipotesi di programmazione definita “democratica”: un inestricabile
groviglio per la quale le forze del giovane Centro-Sinistra risultarono subito
inadeguate.
Nel frattempo, l’accelerazione tra il 1958 e il 1962 portò a tensioni inflazionistiche
interne.
Si optò quindi per una fortissima manovra di politica monetaria, messa in atto nel
1963.
Ciò porto ad una diminuzione: – della produzione industriale;
– dei redditi;
– degli investimenti;
– dei consumi;
– dell’occupazione.
Venne quindi predisposto il Piano Giolitti, molto simile allo Schema Vanoni, che però
ebbe vita breve, a causa della crisi ministeriale che si risolse con un nuovo Governo.
Gli obbiettivi non furono raggiunti nonostante un tasso di crescita superiore al 5%.
L’espansione del reddito era stata ottenuta ricercando sostanziali aumenti di
produttività, a parità di capacità installata, piuttosto che espandendo la base
produttiva.
La soluzione fu quella di attribuire le funzioni di programmazione al Ministero del
Bilancio, istituendo l’Istituto per gli studi per la programmazione economica (Ispe),
frantumando la struttura ministeriale. Così il ministero politicamente più fragile si
trova a non avere i poteri delegati, né la forza d’imporre un coordinamento in grado di
dare vita ad una trasformazione delle regole.
Nel 1973 venne presentato il Progetto del secondo programma nazionale, relativo al
1973-77, non p