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Il Regno avrebbe potuto evitare di ereditare i debiti ma si sarebbe posto un problema
ben più grosso: le entrate erano minori delle uscite, dunque serviva indebitarsi.
Rinnegando i debiti sarebbe diminuita la fiducia degli altri stati che non avrebbero
comprato i titoli emessi successivamente.
Il debito che si accollò il Regno era per il 60% del regno di Sardegna; il fatto causò lo
scontento nel popolo che si doveva accollare un debito non suo.
Inoltre, oltre a ereditare il debito, il Regno d’Italia dovette sostenere grandi costi: la
costruzione di edifici per l’organizzazione amministrativa, l’armare esercito e flotta, la
creazione di infrastrutture come reti ferroviarie, scuole, ospedali, sistemi di
telecomunicazione (telegrafo).
Tutto ciò portò a una crescita del rapporto debito pubblico/pil nel primo decennio post-
unitario dal 45 al 95%, in quanto le entrate, rappresentate da imposte dirette e
indirette non superavano le uscite, ovvero gli investimenti. La conseguente soluzione
non era agire sulle entrate, bensì indebitarsi emettendo titoli del debito pubblico,
trovando finanziatori dello stato.
I titoli son resi appetibili dalla propensione al rischio dell’investitore: un basso
rendimento rappresenta un investimento che dà sicurezza nel recupero del capitale,
mentre un alto rendimento no. Meno un soggetto è affidabile, quindi, più è costretto
ad offrire un rendimento maggiore per trovare investitori.
Debito pubblico:
Nell’Italia postunitaria il problema delle maggiori uscite rispetto alle entrate rischiava
di diventare insostenibile nel medio-lungo periodo.
Nel 1862 le entrate corrispondevano solamente al 60% delle uscite. L’imposta
fondiaria era l’entrata più importante per il Regno, colpiva i terreni. Se, ad oggi, esiste
un unico catasto nazionale che definisce la rendita e quindi la corrispondente imposta
su un terreno, al tempo i catasti erano 22, tutti formati con criteri differenti. È quindi
chiaro come spesso, a parità di condizioni di un terreno, il carico fiscale era diverso
(fenomeno della sperequazione del carico fiscale).
La soluzione di un catasto unico arrivò negli anni ’80 dell’800 e questo fu ultimato in
circa 50 anni.
Altre entrate dello stato erano il dazio consumo, un’imposta sui consumi che gravava
soprattutto sulle persone in miseria; l’imposta di ricchezza mobile, istituita dal 1864,
colpiva i redditi da capitale; la tassa sul macinato, istituita dal 1868, anche questa era
molto gravosa sui poveri e il gioco del lotto.
Queste entrate non erano sufficienti però a coprire le uscite, e non bastarono
nemmeno le ulteriori proposte di vendere i beni demaniali sottratti alla Chiesa e di
dare in concessione ai privati la gestione delle linee ferroviarie in cambio di un canone.
Dati anche gli ingenti investimenti dell’epoca per costruire il Regno, l’Italia fu costretta
ad indebitarsi emettendo titoli di stato con il nome di “Rendita italiana 5% lordo”.
I titoli del debito pubblico possono essere:
- Redimibili: prevedono la restituzione del capitale e il pagamento periodico degli
interessi;
- Irredimibili: non prevedono la restituzione del capitale, bensì una rendita
perpetua data dal pagamento degli interessi. È un titolo più facile da gestire
perché prevede solo il pagamento degli interessi, e non la restituzione del
capitale.
Es. Oggi presto 100 allo stato e ogni anno mi torna 5, senza mai tornarmi il
capitale conferito.
Dunque, “Rendita italiana 5% lordo” era un titolo irredimibile del debito pubblico. Il
rendimento del 5% era calcolato sul valore nominale del titolo, mentre questo era
scambiato e negoziato al valore di mercato, che poteva essere sopra o sotto la pari in
base alla domanda.
Es. Essendo lo stato poco affidabile, compro i titoli del debito pubblico dal valore
nominale 100 pagandoli 90, ma percepisco comunque 5 di interessi, che son quindi
calcolati sul valore nominale.
Nel 1866, “Rendita italiana” veniva negoziata a un valore di mercato di 36, delineando
un’operazione altamente rischiosa ma con altrettanto alti rendimenti e una situazione
di svantaggio per l’Italia.
I titoli emessi dall’Italia al tempo vennero collocati soprattutto all’estero, sulla piazza
di Parigi, andando a creare una dipendenza finanziaria del Regno dai compratori esteri.
Infatti, dal 1861, il debito pubblico ebbe una crescita costante che andò a pari passo
con la diminuzione del valore di mercato dei titoli, acquistati sempre più sotto la pari
dati i crescenti elementi di rischio.
La questione è attualizzabile con un esempio: ad oggi il debito pubblico del Giappone
è il 260% del suo PIL, quello della Turchia il 32%. Nonostante questo, sui giornali non si
parla mai dell’indebitamento del Giappone, mentre ricorre spesso quello turco. La
differenza sta nel fatto che il debito giapponese è posseduto in larga parte da soggetti
residenti (banca centrale, banche e società assicurative, fondi), solo il 10% circa è in
mano a investitori stranieri. Per quanto riguarda la Turchia, invece, è posseduto in
larga parte da soggetti stranieri e ne è quindi dipendente.
Sistema monetario:
Un sistema monetario è un complesso economico che regola la circolazione e la
produzione di moneta.
Alla nascita del Regno, vi circolavano all’interno 900 milioni di lire, delle quali 881
erano monete metalliche (il 60% era d’argento, il 40% d’oro).
Bisognava però unificare la circolazione e scegliere il metro monetario. Si scelse il
modello francese del sistema bimetallico, che prevedeva la circolazione di monete
d’oro e argento.
La legge Pepoli dell’agosto 1862 (prende il nome dal suo ideatore Gioacchino
Napoleone Pepoli) definiva la lira come unità di conto per le contabilità pubbliche e
private e come unità di pagamento.
Per legge si definì un rapporto di 1 grammo : 15,5 grammi tra oro e argento.
Es. 5 lire d’argento pesavano 25 grammi
4 monete da 5 lire d’argento, quindi 20 lire d’argento pesavano 100 grammi
20 lire d’oro (la moneta d’oro dal taglio più piccolo) pesavano 6,45 grammi
100:6,45=15,5 grammi, quindi il rapporto legalmente veniva rispettato.
La legge Pepoli fu preceduta da due decreti, uno nel maggio 1861 che disciplinava la
nuova impronta delle monete d’oro e d’argento e uno nel luglio 1861 che conferiva
valore legale alla lira nuova di Piemonte, denominata “lira italiana”, e stabiliva la
circolazione temporanea delle monete presenti negli stati preunitari.
Il rapporto legale di 1:15,5 tra oro e argento era stabilito dalla legge ed era fisso;
quindi, non teneva conto delle eventuali variazioni del valore di mercato dei due
metalli date da domanda e offerta.
Il problema sarebbe sorto a seguito di un grosso scostamento di valore di mercato dei
due metalli; già nel 1862 era arrivato a 1:15,36 e si decise dunque di coniare le
monete d’argento con meno metallo prezioso, passando da 900 millesimi a 835. Negli
anni ’70 il problema però crebbe, in quanto il rapporto di mercato diventò 1:20 circa, la
gente preferiva quindi utilizzare monete d’argento.
L’Italia scelse il bimetallismo per via dei forti legami con la Francia, anche se non era
l’unico sistema monetario presente in Europa al tempo, ad esempio, l’Inghilterra usava
il modello del monometallismo aureo.
Nel 1865 Italia, Francia, Belgio e Svizzera diedero vita all’Unione Monetaria Latina
(detta anche Lega Latina), nella quale si usava lo stesso metro e monetario e le
monete d’argento emesse a pieno titolo (900 millesimi) circolavano liberamente tra i
paesi membri e potevano essere usati come mezzo di pagamento. Nel 1868 si unì
anche la Grecia.
Il sistema crollò a metà degli anni ’80 e si sciolse definitivamente nel 1926.
Gli istituti di emissione erano le banche autorizzate a emettere biglietti cartacei
convertibili in moneta metallica. Nel Regno non esisteva ancora la Banca d’Italia, nata
nel 1893 e divenuta unico istituto di emissione solo nel 1926. Vi erano ben 5 istituti nel
1861, che divennero 6 nel 1870 ed erano:
- La Banca nazionale degli Stati sardi: oltre a emettere biglietti, faceva sconti di
cambiali a breve scadenza (<3 mesi) con l’avvallo di almeno 3 persone,
anticipava titoli di stato e faceva operazioni di pegno. Riceveva depositi in conto
corrente, accettava in custodia titoli, documenti e preziosi. Era inoltre obbligata
ad anticipare su pegno di titoli del debito pubblico allo Stato fino a 2/5 del
capitale depositato, chiedendo un interesse che non poteva superare il 3%. Nel
1867 prese il nome di Banca nazionale nel Regno d’Italia;
- La banca nazionale Toscana: le principali operazioni erano analoghe a quelle
della Banca nazionale nel Regno d’Italia;
- La banca Toscana di credito per le industrie e il commercio: concedeva
anticipazioni su titoli di rendita pubblica e su valori industriali, faceva prestiti
allo Stato e ai comuni, riceveva depositi in conto corrente, scontava cambiali e
collocava azioni e obbligazioni, effettuava la compravendita di valori mobiliari e
divise estere;
- Il banco di Napoli: insieme a quello di Sicilia, svolgeva operazioni di servizio
apodissario; dunque, rilasciava titoli a fronte di depositi in contanti. Queste
ricevute erano nominative, ma trasferibili mediante girata e prendevano il nome
di fedi di credito per importi depositati superiori a 50 lire, e polizze o polizzini
per importi inferiori a 50 lire. Inoltre, scontava cambiali, faceva anticipazioni su
pegno di titoli del debito pubblico, di azioni e obbligazioni cui lo Stato garantiva
un interesse, concedeva anticipazioni su pegno di oggetti preziosi, mercanzie e
metalli grezzi.;
- Il banco di Sicilia: svolgeva operazioni analoghe a quelle del Banco di Napoli,
con l’unica differenza che i depositi venivano trattenuti in cassa e non impiegati
per altri scopi;
- La banca romana (dal 1870): scontava buoni del Tesoro, lettere di cambio,
biglietti e altri effetti all’ordine, teneva depositi, concedeva anticipazioni.
I biglietti cartacei emessi avevano potere liberatorio legale e quindi andavano
accettati nell’estinzione delle obbligazioni, non si potevano rifiutare. Solitamente
circolavano nelle regioni o in aree circoscritte dove operavano le banche emittenti.
I rapporti soprattutto tra la Banca nazionale nel Regno d’Italia e il Tesoro furono da
subito molto stretti e collaborativi, in particolare la Nazionale partecipò con particolare
e crescente impegno ai prestiti pubblici.
I biglietti non potevano essere emessi in modo illimitato, ma vi erano delle quantità
definite dagli statuti dei singoli istituti di emissione:
- La banca nazionale nel Regno d&r