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NAZIONALIZZAZIONE SETTORE ELETTRICO: ENEL
A questa posero mano i Governi di centro-sinistra, con l’apertura della DC ai Socialisti.
Le riforme trovarono espressione nella programmazione, delineata nel 1962 dalla Nota
aggiuntiva di La Malfa, prospettando interventi e riforme per l’industrializzazione del
Mezzogiorno e delle altre aree depresse, per: – la valorizzazione dell’agricoltura;
– lo sviluppo dei consumi pubblici;
– una pianificazione territoriale ed urbanistica.
Alla programmazione dovevano partecipare i rappresentanti delle principali organizzazioni
economiche e sindacali; tuttavia alla fine un tavolo di concertazione tra i vari attori non si
realizzò.
Il primo piano quinquennale, relativo al 1966-70, fu approvato solo nel 1967, causando 3 effetti:
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allarmò la maggioranza degli imprenditori con lo spettro di una pianificazione socialista;
• l’affermazione del comando politico delle Partecipazioni Statali;
• pose le basi di una contrattazione tra Stato e grande capitale privato che prese poi il
• nome di contrattazione programmata.
Almeno i Socialisti raggiunsero l’obbiettivo della nazionalizzazione dell’industria elettrica, con la
creazione dell’Enel, alla fine del 1962, senza però raggiungere il fine di ridimensionare i Gruppi
di controllo monopolisti, andando inoltre a favorire i maggiori azionisti, a discapito dei minori.
Come opzione possibile per effettuare la nazionalizzazione, fu scelta quella dell’indennizzo,
versato alle società di produzione elettrica, che si trovarono a possedere ingenti capitali, senza
quindi scomparire dal sistema economico.
I piccoli risparmiatori che avevano investito nella sicura rendita elettrica non parteciparono
all’indennizzo, se non indirettamente.
Questa modalità venne adottata a causa delle pressioni del Governatore della Banca d’Italia,
Guido Carli, succeduto a Menichella nel 1959, il quale intendeva rafforzare il polo
imprenditoriale privato, a discapito di quello pubblico, che accresceva il suo potere con la
nazionalizzazione; voleva fornire alle vecchie aziende elettriche le risorse per aprire una nuova
stagione dell’industria italiana.
Tuttavia il denaro si disperse in iniziative inconcludenti.
LA “VERA” MANUTENZIONE STRAORDINARIA
Le privatizzazioni invece portarono solo ad una riduzione del debito pubblico.
La causa dell’insuccesso della Manutenzione Straordinaria fu politica.
Occorreva una modifica del blocco sociale dominante e/o un sistema di riforme istituzionali che
consentisse ai Governi di perseguire un disegno di sviluppo non contradditorio e mantenuto
coerente per lungo tempo.
La gestione di questa fase critica finì per rivelarsi la vera opera di Manutenzione Straordinaria;
ma non venne condotta dal Governo, bensì dalla Banca d’Italia. Nel 1961 ci fu un grande
squilibrio monetario, in pieno boom, a causa: – di poderosi aumenti della domanda;
– una crescita degli investimenti di oltre il 12%;
– una crescita dei consumi del 7,5%;
– in concomitanza con un aumento delle
esportazioni.
L’utilizzo della capacità produttiva degli impianti giunse ai limiti massimi e l’occupazione era
vicina ad essere piena nel Triangolo industriale, in concomitanza con un rapidissimo
inurbamento e l’abbandono delle campagne, innalzando il costo della vita dei lavoratori.
Il costo del lavoro s’innalzò bruscamente, l’inflazione aumentava, profilando il rischio di un
deficit nei conti con l’estero.
Carli, nonostante fosse perfettamente conscio della grave situazione, si preoccupò solo della
riduzione delle possibilità di autofinanziamento delle imprese, che si sarebbero ridotte, a causa
delle minacce dovute al mutato quadro politico. Per mantenere un rapido ritmo di crescita degli
investimenti optò per una politica monetaria espansiva, alimentando l’inflazione, introducendo il
controllo della distribuzione del reddito tra i profitti e salari nella funzione obbiettivo della
Banca d’Italia. Questa scelta fu fortemente criticata da La Malfa.
Si chiude quindi il Miracolo economico, aprendosi una nuova fase di sviluppo.
LA CHIAVE DEL SUCCESSO
Le origini del rapido sviluppo che produsse il miracolo ne sottolineano gli squilibri e il
conseguente incepparsi del meccanismo di accumulazione di capitale per i loro effetti sui
profitti.
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Era stato avviato a soluzione il problema industriale italiano, con un’accumulazione di capitale
prodotta dalla mobilitazione delle migliori energie del Paese. La sua attuazione però risultò alla
fine interrotta.
Come questo miracolo fu dovuto alla non propensione, del capitalismo privato italiano, di
ricercare protezioni e posizioni monopolistiche, viene illustrato in due modelli di accumulazione
di capitale e di sviluppo delle imprese:
– modello un flusso continuo di creazione di nuove imprese e una progressiva
concorrenziale: crescita interna di quelle già attive, contribuendo ad aumentare la
domanda; l’adeguamento dell’offerta avviene con una riduzione dei prezzi
o un aumento dei costi per potenziare le proprie vendite, riducendo
quindi i margini di profitto;
– modello caratterizzato – mancanza dell’atto di fede concorrenziale;
oligopolistico: da: – ingresso di nuove imprese limitato da barriere all’entrata;
– decisioni d’investimento prese tra pochi concorrenti.
La crescita a scapito dei rivali può risultare molto costosa, causa una
grossa dipendenza dalle previsioni sullo sviluppo della domanda.
L’accumulazione di capitale si adegua alla domanda, non la stimola; è
soggetta ad un calcolo di convenienza rispetto a investimenti finanziari, o
in altri settori.
In questo ambito, l’impresa dipende molto dalle condizioni ambientali
relative a: – il mercato dei prodotti;
– le strutture proprietarie e di controllo;
– il sistema finanziario.
La propensione a sfuggire alla competizione è alta quando non vi è
separazione tra proprietà e controllo. Si tenderà verso una diversificazione
per cogliere rendite e opportunità poco rischiose di aumento della
ricchezza personale. Quando i manager sono esterni semmai tendono
troppo sulla crescita.
La gestione e le strategie delle imprese oligopolistiche sono poi soggette
al vaglio del sistema finanziario.
Gli anni ’50 ed i primi anni ’60 costituirono invece uno dei rari momenti della storia economica
italiana in cui si combinano crescita concorrenziale e condizioni di stimolo delle maggiori
imprese. Tra il 1951 ed il 1961 le imprese manifatturiere aumentarono del 45%. Nel 1961 gli
addetti in Italia quintuplicarono.
Si riduce inoltre il grado di monopolio e, ad una crescente accumulazione di capitale si
accompagna una tendenziale discesa dei margini di profitto.
Il ruolo svolto dalle imprese a partecipazione statale fu uno degli assi portanti del miracolo degli
anni ’50.
Nel modello di accumulazione – l’aumento della propensione all’investimento;
oligopolistica, gli effetti sono: – progetti industriali innovativi che non sarebbero realizzati.
La realizzazione di progetti così lungimiranti trova la sua spiegazione in questo originale
public company
capitalismo manageriale pubblico, tramite le , rispetto al capitalismo familiare
del grande capitale privato.
Due – IRI: nazionalizzazione della siderurgia a ciclo integrale, con l’Ilva e la Finsider,
esempi fortemente osteggiata dal grande capitale italiano;
significativi: – ENI: di Mattei che creò una potente industria petrolifera.
Attraverso le partecipazioni statali si realizzò dunque quel ricambio ai piani alti del capitalismo,
auspicato dai più profondi conoscitori dei problemi storici dell’economia italiana.
L’Italia si giovò, anche – crescita della domanda offerte dall’ampliamento del mercato
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in questo sviluppo della: – affermarsi di modelli di consumo da società fordista.
Queste opportunità stimolarono anche forti investimenti degli oligopoli privati.
Individuiamo quindi il motore del miracolo nel mercato dei beni.
La particolare intensità dell’accumulazione si spiega con le sue modalità:
crescita dal basso delle imprese in regime concorrenziale;
Ø dinamismo impresso dalle Partecipazioni Statali ai mercati oligopolistici.
Ø
DUE PUNTI CRITICI
La grande scelta dell’apertura dell’economia fu realizzata attraverso una liberalizzazione
controllata. Essa si presentò più come un’opportunità per avviare progetti industriali
lungimiranti che come una necessità di adeguamento. Non si pose quindi mano né a un
ridisegno della disciplina societaria e fallimentare né a una normativa antitrust.
L’istituzione – Consob è del 1973;
della: – Autorità Garante della concorrenza e mercato, del 1990;
– riforma del Diritto Societario completata solo nel 2003.
Manca ancora la revisione della parte fallimentare.
Il sistema finanziario evolse senza sostenere più la concorrenza; le grandi banche, con la legge
bancaria del 1936, avevano perso il loro ruolo di controllo dell’impiego dei capitali e di stimolo
alla riallocazione proprietaria.
Mediobanca usò la sua autonomia per la difesa del controllo dei maggiori Gruppi privati e non
per stimolarne l’orientamento verso la concorrenza.
C’era dunque un ritardo nell’adeguamento di regole e di istituzioni che fissassero
l’orientamento verso la concorrenza, contribuendo così a consolidare la soluzione del problema
industriale.
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PARTE 2: INTERMEZZO
IL “CAPITALISMO ASSISTITO”
IL CAMBIO DI ROTTA
Vi erano dunque due grandi questioni lasciate aperte, dalla spettacolare corsa dell’econoica:
I. il consolidamento del modello di accumulazione che saldasse una vivace crescita dal
basso, con forti spinte competitive al vertice dell’industria, indirizzando verso la
concorrenza anche le componenti più restie ad accettarla. Si trattava di passare dal
compromesso straordinario, che consenti la creazione dei primi grandi Gruppi familiari,
a una regolazione ordinaria che fissasse il confronto nei 3 grandi – dei beni;
mercati: – del lavoro;
– dei capitali.
Il tema della concorrenza non fu ripreso con forza e si esaurì con la nazionalizzazione
dell’industria elettrica. Si rinunciò ad utilizzare il mercato azionario. La Riforma della
disciplina societaria entrò nel programma del Governo solo nel 1963, lasciando la Borsa
in mano di pochi per esercitare un esteso controllo sulle imprese.
II. La correzione degli squilibri