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Al contempo, secondo Putnam, viene utilizzata dai realisti tradizionali un’accezione
ingenua di “significato”: il significato di una parola non si esaurisce nell’insieme delle
proprietà che ricadono sotto di essa. Prendiamo un esempio: il significato della parola
“oro” non può essere “elemento con numero atomico 79”, perché l’insieme delle proprietà
chimiche di un oggetto non può in alcun modo definire l’intera gamma di funzioni che tale
oggetto può assumere nella molteplicità dei contesti particolari, né la pluralità di significati
che il termine che denomina il suddetto oggetto può avere.
Ma c’è un problema più grande che emerge non appena si riflette meglio sulle premesse
del realismo tradizionale che abbiamo appena considerato. Putnam espone tale problema
da un punto di vista autobiografico, poiché racconta in prima persona come in passato gli
3 Ibidem, p. 16.
4 Ibidem, p. 17
si presentò questo dilemma e di come si rese conto della sua portata. Cita infatti le opere
Realismo e ragione e Models and Reality che scrisse lui stesso negli anni ‘70, in un
periodo in cui sosteneva ancora proprio quelle tesi che adesso si sta apprestando a
confutare. Il problema consiste nel considerare il rapporto che sussiste tra percezione,
linguaggio e realtà. Il linguaggio è uno strumento per riferirci alla realtà, mentre tramite la
percezione riusciamo a entrare in contatto con il mondo. Ma come è possibile determinare
il riferimento delle parole in un contesto di realismo tradizionale? Putnam racconta che si
rese conto della difficoltà considerando il cosiddetto paradosso di Skolem in matematica:
esso afferma che esistono diverse interpretazioni possibili per ogni teoria matematica e
che quindi il linguaggio matematico non si può riferire in modo univoco agli oggetti che
sono propri della matematica. Ciò significa che il linguaggio matematico non riesce a
determinare il riferimento dei suoi termini. Ma tale paradosso, ha dimostrato Putnam, può
essere esteso a qualsiasi tipo di linguaggio e in particolare al nostro linguaggio ordinario.
Ciò significa che il riferimento dei nostri termini è indeterminato, non abbiamo strumenti
per riferirci alla realtà. Possediamo solo sensazioni, le quali non sono altro che imput
percettivi, “qualia” (nel senso di aspetti qualitativi immediatamente esperibili dal soggetto),
“dati di senso”, ma non c’è alcun modo per determinare gli oggetti a cui questi imput
sarebbero - secondo quanto appunto afferma la teoria realista - connessi causalmente. In
ciò consiste l’antinomia del realismo: non è possibile riferirci alla realtà in un contesto di
realismo tradizionale.
Putnam tentò di risolvere il problema in passato tramite la sua teoria del realismo interno,
detta anche semantica verificazionista, che prendeva le mosse da Michael Dummett pur
ponendosi in un’ottica diversa: tale teoria identifica “vero” con “essere sufficientemente
5
verificato da garantire l’accettazione in condizioni epistemiche sufficientemente buone” . In
questo modo si ha il vantaggio di considerare il soggetto che percepisce immerso in un
contesto che coinvolge il mondo e non soltanto la propria esperienza percettiva “privata”.
Tuttavia ad un’analisi più approfondita emerge che il problema che abbiamo prima
considerato permane, poiché sussiste la difficoltà di spiegare in che modo abbiamo
accesso a queste “condizioni epistemiche ideali” e quindi, in ultima analisi, al mondo.
L’antinomia resta, proprio perché la teoria del realismo interno è ancora legata all’idea che
ci sia un’interfaccia tra il soggetto e il mondo e quindi ad una forma implicita di teoria dei
dati sensoriali. Putnam ammette l’errore e lo riconosce proprio nel fatto che all’epoca della
formulazione di tale teoria sottoscriveva una forma di funzionalismo secondo il quale le
proprietà mentali non sono altro che proprietà computazionali del cervello; questa è perciò
5 Ibidem, p. 34
un’immagine ancora cartesiano-materialistica della mente in cui gli imput percettivi (i
qualia di cui parlavamo prima) sono considerati mere occorrenze fisiche all’interno del
cervello.
3) Critica alle teorie dei dati sensoriali
Ciò a cui ambisce Putnam come si è detto è ritornare ad un nuovo tipo di realismo, un
realismo ingenuo, ma non nel senso tradizionale e spregiativo dell’espressione: si vuole
pervenire ad una “seconda ingenuità”, nel senso di ritornare in contatto col mondo senza
correre il rischio di incappare nei paradossi delle teorie realiste tradizionali, in particolar
modo nelle difficoltà della teoria dei dati di senso e delle sue diverse varianti. Già altri
autori sono individuati da Putnam come iniziatori di questa via di indagine: James,
Wittgenstein, Husserl, Austin. Per una questione di spazio e di chiarezza espositiva però
tiene in considerazione soltanto quest’ultimo filosofo il quale con grande decisione ha
tentato di confutare le teorie dei dati sensoriali che si oppongono al realismo ingenuo,
soprattutto nella sua opera Senso e sensibilia.
C’è un argomento utilizzato dagli epistemologi tradizionali per arrivare alla conclusione che
ciò che esperiamo non sono gli oggetti della realtà “là fuori” ma soltanto entità mentali
intermedie tra noi e il mondo. Tale argomento è sottoscrivibile da pensatori dell’inizio
dell’epoca moderna come Cartesio, ma anche dai teorici dei dati sensoriali, ed è il
seguente: ci capita di avere esperienze percettive non verifiche, ma tali esperienze hanno
la stessa qualità di quelle genuinamente veridiche. Il caso più lampante è quello del
sogno: quando sogniamo sembra chiaro che non percepiamo qualcosa di fisico, perché di
fatto stiamo dormendo, dunque ciò che vediamo, udiamo, odoriamo in sogno deve essere
qualche cosa di mentale. Ma poiché, sostengono gli epistemologi tradizionali, non c’è
distinguibilità tra esperienza veridica e sogno (come anche nel caso delle illusioni
percettive) dunque dovremmo concludere che i due tipi di esperienza sono
qualitativamente uguali. Il che significa che non c’è alcuna differenza tra percepire di
compiere una certa azione in un certo contesto o sognare di compiere la stessa azione
nello stesso contesto: le due esperienze sono indistinguibili. E poiché abbiamo detto che
ciò che percepiamo nel sogno è qualcosa di mentale, allora anche le esperienze
genuinamente percettive che abbiamo da svegli dovrebbero consistere in qualcosa di
mentale, poiché abbiamo dichiarato la loro indistinguibilità. Ciò che percepiamo
direttamente non è l’oggetto esterno ma un intermediario mentale, che possiamo chiamare
dato sensoriale.
Austin risponde a questo argomento in questi termini: innanzitutto non è assolutamente
detto che ciò che non è fisico sia qualcosa di mentale. Questa non è una premessa
accettabile, anche perché è basata sull’assunzione che mentre sogniamo “percepiamo”
qualcosa, e non è detto che sia così, potremmo dire che “ci sembrava di percepire
qualcosa, ma in realtà era solo un sogno”. Ma anche se concedessimo che nel sogno
percepiamo effettivamente qualche cosa bisognerebbe appurare che cosa sia questo quid
che percepiamo. Un ipotetico oggetto, per di più mentale? Ci sarebbe da definire un po’
meglio cosa si intenda per “oggetto” e per “mentale”, il che non è un compito semplice e i
teorici dei dati di senso non saprebbero rispondere a questo punto se non in modo
confuso invocando questi presunti dati di senso che non hanno alcuna valenza univoca.
Inoltre Austin critica l’ambiguità che c’è nelle parole “diretto” e “indiretto”: non si capisce
cosa intendano gli epistemologi tradizionali quando affermano che “il dato sensoriale è
percepito direttamente, mentre l’oggetto ci è dato in modo indiretto”. Questi sono termini
che i filosofi usano a sproposito, secondo Austin, senza rendersi conto che acquisiscono
significati diversi a seconda delle circostanze in cui li si pronunciano e che non c’è una
sostanziale dicotomia tra “diretto” e “indiretto” come vorrebbero farci credere, poiché lo
stesso oggetto può essere percepito allo stesso tempo direttamente e indirettamente a
seconda di come si pone la questione.
Un’altra critica è rivolta all’affermazione che veglia e sogno siano qualitativamente
indistinguibili: nel nostro linguaggio ordinario noi uomini comuni effettivamente siamo in
grado di distinguere il sogno dalla veglia, tant’è vero che parliamo di una “qualità del
sogno” differente dalla esperienza veridica da svegli. Se non ci fosse questa distinguibilità
non avrebbe senso l’espressione “qualità del sogno”, anzi non esisterebbe nemmeno.
Inoltre dal fatto che a volte ci sbagliamo e consideriamo simili due esperienze di cui una è
genuinamente percettiva mentre l’altra è un sogno o un’illusione non deriva la conclusione
che il nostro rapporto con il mondo sia indiretto; significa soltanto che siamo esseri fallibili,
nulla di più.
Infine Austin attacca l’assunzione infondata secondo la quale oggetti con nature diverse
non possono apparire simili: sognare di vedere un oggetto e vederlo realmente da svegli
sono certamente due esperienze di natura diversa, anche se ci appaiono simili.
L’epistemologo del dato sensoriale potrebbe replicare a queste critiche affermando che
nonostante tutto i dati sensoriali sono la migliore spiegazione avanzata finora per spiegare
il fatto che l’esperienza di sogno a volte è qualitativamente uguale (o per lo meno ci
sembra molto simile) a quella veridica. Ma il problema è che (oltre al fatto che riformulando
la questione in questo modo il teorico dei dati di senso ha già fatto pesanti concessioni ai
suoi avversari) questi dati sensoriali che egli invoca sono entità quanto meno misteriose
ed utilizzano processi oscuri. Per questi motivi tale teoria non è scientificamente
accettabile, senza contare il fatto che c’è un vasto disaccordo tra gli stessi fautori dei dati
sensoriali.
C’è anche una versione materialistica della teoria dei dati di senso ed è la cosiddetta
teoria dell’identità, diffusasi nella seconda metà del ventesimo secolo. Secondo tale teoria
6
“le sensazi