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LO GNOSTICISMO DEL II SECOLO E I SUOI AVVERSARI
Il II sec. È attraversato da una profonda inquietudine religiosa: sapere che Dio esiste e che entro
certi limiti è possibile conoscerlo razionalmente non è più sufficiente; ciò che si cerca è
un’assimilazione a Dio, un incontro personale con Dio. Lo gnosticismo risponde a questa esigenza
prendendo spunto da diverse filosofie (stoicismo, platonismo…)e religioni, riadattandole ai propri
scopi. Le coordinate temporali del fenomeno sono incerte , ma Giustino parla delle sette di
Marcione, Basilide e Valentino nel suo “Dialogo con Trifone”, composto tra il 150 e il 160 d.C. I
personaggi citati sono i più importanti esponenti delle dottrine gnostiche . Per “gnosi”s’intende un
sapere il cui possesso assicura la salvezza per liberazione da un errore originario legato alla storia
del mondo. Le differenti mitologie nascono inoltre tutte dal tentativo di risolvere il problema
filosofico dell’origine del male. Se il male è nella creazione e se Dio è assolutamente buono è
necessario riferire l’atto creatore a una divinità inferiore: il demiurgo. Per rimediare al suo errore il
Dio supremo avrebbe avviato un’opera di redenzione alla quale avrebbe preso parte anche Gesù
Cristo; in realtà gli gnostici riducevano il suo ruolo alla sola trasmissione del sapere che salva,
negando ogni significato alla sua passione e morte. In effetti le sette gnostiche facevano un uso
strumentale del cristianesimo,piegandolo ad esempio a un antigiudaismo che gli era in realtà
estraneo. A partire dalla II metà del II sec. una nuova generazione di autori cristiani s’impegna a
difendere l’autenticità ella dottrina cristiana dalle contraffazioni di parte gnostica.
Il pensiero di Ireneo ci è noto attraverso una traduzione latina il cui titolo, “Adversus haereses”,
sostituisce quello originario di “Esposizione e confutazione della falsa conoscenza “ (ghnosis).
L’opera si compone di 5 libri: il primo consiste in un esposizione delle dottrine gnostiche, il
secondo nella loro confutazione , gli ultimi tre nell’esposizione della dottrina cristiana. Ireneo
oppone infatti al “cosiddetto sapere” degli gnostici il “vero sapere” che è l’insegnamento degli
apostoli e la tradizione della Chiesa nel mondo intero. Dall’opera emerge la consapevolezza,
particolarmente tra i primi pensatori cristiani, che l’intelligenza era dalla parte della fede piuttosto
che da quella delle dottrine gnostiche. Si trattava cioè di riconoscere innanzitutto i limiti della
ragione umana: su molte questioni si doveva tacere e riservarle a Dio (“reservare Deo”); del resto le
soluzioni proposte dagli gnostici erano soltanto apparenti, come mostra il paradosso di una divinità
contrapposta a Dio (Demiurgo), ma in ultima istanza debitrice a Dio della propria esistenza. Per
quel che riguarda il nucleo positivo dell’opera, a Ireneo va riconosciuto il merito di aver sottolineato
i punti fondamentali della dottrina cristiana: l’idea di una “creatio ex nihilo” da parte di Dio per
mezzo del Verbo, l’idea di una assoluta bontà di Dio riflessa nello spettacolo del moondo e nella
provvidenza con cui ancora alo governa, e infine il modo dell’ascesa a Dio dell’uomo, considerato
l’unione di anima e corpo. Questa ascesa è dunque resa possibile dalle due facoltà dell’anima:
l’intelletto e il libero arbitrio, posto come fondamento della responsabilità morale e religiosa
dell’uomo. A questo proposito si è parlato per Ireneo di un “pelagianesimo ante litteram”; nei suoi
scritti non si trova però mai l’identificazione pelagiana di grazia e libero arbitrio, mentre
l’attenzione che riserva quest’ultimo può essere spiegata con l’intento anti-gnostico dell’opera:
Ireneo vuole infatti combattere distinzioni come quella tra uomini “psichici” e “materiali” in cui il
vero responsabile della nostra natura e comportamento diventa Dio. Al contrario è la libertà
dell’uomo, ridotta ma non distrutta dal peccato originale, l’unica spiegazione del male nel mondo.
La difesa della dottrina cristiana dalle eresie, sfociata in una critica dell’intera filosofia pagana che
ne sarebbe all’origine, prosegue con Ippolito (170ca - 238), autore di una “confutazione di tutte le
eresie”comunemente citata con il titolo greco di “Philosophoumena”.
LA SCUOLA DI ALESSANDRIA
Durante il III sec. Alessandria è il centro più fiorente dell’Impero cristiano; convergevano in questa
città molte culture e tradizioni spesso strettamente integrate tra loro, come mostra l’esempio di una
traduzione in lingua greca dell’Antico testamento per la comunità ebraica del luogo. In questo
ambiente si forma Filone, il massimo esponente dell’alessandrinismo ebraico, la cui esegesi
dell’Antico testamento attraverso elementi tratti dalla filosofia stoica e platonica doveva risultare
molto interessante non soltanto per i suoi correligionari ma anche per i cristiani. Nella città vi era
infatti anche una comunità cristiana sull’origine della quale si sa molto poco, e a partire dal 190 ca.
anche una scuola cristiana retta da un certo Panteno. Questo stoico convertito pare non abbia scritto
nulla ma Clemente d’Alessandria (150ca. – 215ca.) gli deve il meglio della sua formazione.
Clemente ha composto tre scritti: l’“Esortazione ai greci”, il “Paedagogus” e gli “Stromata” (lett.
“orditure, miscellanea”)Il primo consiste in un tentativo di conversione ei pagani che oppone il
valore della verità ai presunti doveri di fedeltà alla religione dei padri; il secondo è una esposizione
del modo attraverso cui il verbo ammaestra quanti si convertono, per realizzare un cristianesimo
egualmente distante dagli ascetismi dottrinari e dalla rilassatezza morale che alcuni suoi membri in
realtà si concedevano; il terzo è una riabilitazione della filosofia dagli attacchi che le provenivano
da parte di Taziano, Ireneo e Ippolito. Clemente s’inserisce infatti nel solco tracciato da Giustino,
come mostra la rappresentazione del cristianesimo attraverso l’immagine di una fonte nata nel
punto di confluenza di due fiumi corrispondenti alla Legge ebraica e alla filosofia greca, o la
formula secondo la quale ci sarebbero due antichi Testamenti e uno nuovo. In atre parole così come
la filosofia è servita ai greci per prepararsi alla Rivelazione, allo stesso modo può ancora essere
utile per approfondirne e chiarirne il senso; tuttavia questo comporta anche una precisa limitazione
nell’uso che può esserne fatto in materia di fede. Da un punto di vista dottrinale l’originalità di
Clemente si esprime in una definizione più complessa del rapporto Dio-Verbo e in una maggiore
consapevolezza del ruolo della grazia, complementare a quello del libero arbitrio sul quale si erano
già soffermati i suoi predecessori.
Tra i primi pensatori cristiani spicca la figura di Origene. Nato verso il 184 in Egitto egli seguì le
lezioni di Clemente di Alessandria e fu probabilmente allievo di Ammonio Sacca insieme a Plotino.
Dopo una serie di viaggi arrivò a Cesarea dove aprì una scuola. Durante le persecuzioni di Decio fu
arrestato e messo sotto tortura; morì a Tiro nel 253 d. C., verisimilmente per le sofferenze patite.
Origene fu un grande teologo, come dimostra la sua “Confutazione di Celso” e il trattato “De
principiis”. Con quest’opera Origene si rivolge a quanti hanno già abbracciato la fede cristiana ma
vogliono penetrarne più a fondo il senso. Egli è infatti consapevole che, per quanto tutti riconoscano
l’autorità delle Scritture, spesso gli attribuiscono significati divergenti e inesatti. Il suo invito è
quello di affidarsi alla tradizione e a quanti, oltre alla fede, hanno ricevuto dallo Spirito i doni di
Scienza e Sapienza e possono quindi avanzare un’interpretazione corretta delle Scritture
(aristocraticismo intellettuale di Origene). Essa infatti si articola su tre livelli: un primo consiste nel
senso letterale accessibile a tutti i fedeli, un secondo corrisponde al senso allegorico attraverso il
quale arrivare alla gnosi, cioè a una conoscenza che è nello stesso tempo unione, di Dio; il terzo
livello, detto “spirituale”, è esclusiva dei pochi che, attraverso una superiore contemplazione,
possono già trovare nella legge divina l’ombra della futura beatitudine. Dopo queste premesse di
metodo Origene passa a esporre il nucleo positivo della dottrina definendo Dio secondo gli attributi
di unità, semplicità, ineffabilità e perfezione. Quest’ultimo attributo implica del resto
l’immaterialità di Dio, nella misura in cui ciò che è perfetto non muta, e ciò che non muta e
immateriale. Il fatto che poi Dio sia Padre, Figlio e Spirito non ne compromette l’unità. In realtà
Origene mostra una certa difficoltà a definire il rapporto tra le prime due persone divine: da una
parte sostiene la coeternità del Figlio con il Padre e di conseguenza la loro coessenzialità (il Figlio
Dio come il Padre), dall’altra tende a subordinare il Figlio al Padre quando ne prende in
considerazione l’atto creativo. Origene parla infatti del Verbo come di “un Dio” primogenito della
creazione che genererà altri verbi dopo di sé in modo altrettanto libero del Padre. Si istituisce quindi
una gerarchia che va dal Padre al Figlio, dal Figlio alle Nature ragionevoli e da queste agli uomini,
in evidente assonanza con il sistema di Plotino del quale Origene fu del resto condiscepolo presso
Ammonio Sacca. L’aspetto interessante di questa gerarchia è che ogni sviluppo nasce da un atto
assolutamente libero dello Spirito, e in questo senso anche le anime degli uomini caduti nei corpi
possono recuperare la loro condizione originaria, in quanto puri spiriti che nulla destinava ad
animare dei corpi.. In questa ascesa verso Dio l’uomo è del resto favorito dall’Incarnazione del
Verbo e soccorso dalla grazia, che rende in definitiva possibile questo risolleva mento al quale pure
l’uomo deve collaborare perché gli appartenga. Se nel suo andamento la cosmogonia di Origene si
avvicina a una dottrina gnostica, essa se ne distingue nettamente per l’ottimismo con cui è guardato
l’universo, prodotto della Bontà divina e non di un Demiurgo perverso; anche il corpo dell’uomo,
dal quale ci si deve sempre più allontanare per arrivare a Dio, svolge nello stesso tempo la funzione
positiva di punto d’appoggio