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LA TEOLOGIA POST-SCOTISTA
Il mutamento del modello di razionalità teologica: il caso della onnipotenza
La teoria della divina onnipotenza è un ottimo terreno sul quale studiare l’evoluzione della
razionalità teologica. Fino ai primi anni del XIV secolo il primo problema dei commentatori del
Lombardo, quando si trovino a discutere di onnipotenza, è costituito dalla definizione della potenza
divina. Qui l’assimilazione del pensiero di Aristotele risulta difficile: il concetto aristotelico di
potenza non è applicabile se non a degli agenti naturali e implica il cambiamento e l’imperfezione.
Per non rinunciare alle basi scientifiche che la metafisica aristotelica dava alla teologia
dell’onnipotenza si preferì tentare di adeguare la classificazione aristotelica alle esigenze
teologiche. Sino alla fine del XIII secolo la maggior parte dei commentatori delle Sentenze
ritengono essenziale confrontare uno schema ricavato da Aristotele con i principi fondamentali della
teologia. Il XVI secolo, da Scoto in poi, di porrà sempre più spesso il problema che in precedenza
era stato sollevato solo dai teologi più reazionari: il problema del metodo e del fondamento
dimostrativo delle analogie tra leggi fisiche e metafisiche e natura divina. Proliferano allora le
questioni sulla dimostrabilità della divina onnipotenza: si cerca una razionalità teologica
indipendente dal carattere scientifico del Filosofo. L’esigenza di dimostrare altrimenti le verità
teologiche porta alcuni teologi a concludere che la teoria aristotelica della dimostrazione non è la
sola possibile. Si tratta di costruire una logica fidei diversa da quella aristotelica, senza però che la
validità della logica naturalis nel suo ambito venga a cadere.
Il tentativo di costruire una teologia scientifica implica l’utilizzazione rigorosa dei termini: non si
può prescindere dall’analisi dell’applicabilità della nozione di “potentia” al linguaggio teologico. In
relazione all’atto, la potenza è in primo luogo imperfetta e in secondo luogo mutevole. La soluzione
che sembra trovarsi in Aristotele stesso non può soddisfare in pieno i teologi cristiano: il Dio “atto
puro” (Metaph. XII) è compatibile con l’idea della eterna perfezione divina, ma non con quella della
sua onnipotenza. Una potenza divina eternamente attualizzata è inconcepibile per chi creda nella
creazione nel tempo ed ex nihilo del mondo. Se la potenza divina è sempre congiunta al proprio
atto, ne viene che la creazione non può che essere coeterna a Dio ed implica che tutte le potenzialità
divine siano eternamente e sempre realizzate, quindi implica la negazione della libertà divina. Se
invece potenza e atto non sono sempre congiunti in Dio si deve concludere che è mutevole e non è
perfetto.
Erveo Natale sosterrà che in Dio, eternamente, la creazione è eterna, mentre ha un inizio nel tempo
quanto alla effettiva produzione degli effetti. Secundum rem, Dio agisce da sempre; secundum
rationem è possibile ricostruire uno scarto logico fra l’intelletto, la volontà e l’esecuzione di ciò che
da Dio è pensato e voluto.
Anche Tommaso di Strasburgo distingue tra lo stato di cose secundum rem e lo stato di cose
secundum rationem: la potenza divina è sempre congiunta all’atto, essendo realiter la stessa cosa
dell’atto, ma respectu rationis si può dire che si unisca a qualcosa cui prima non era congiunta.
In Metaph. IX Aristotele sostiene che l’atto costituisce la perfezione della potenza relativa, cosa che
non può essere valida se riferita a Dio perché significa che nella creazione avrebbe già trovato
completa espressione. Nel De Anima si afferma che le potenze vengono individuate dalle diverse
azioni, ma allora Dio dovrebbe essere molteplice. E si dice che anche che vana è quella potenza che
non si risolve in un atto, e allora Dio non dovrebbe essere onnipotente, visto che non esaurisce la
propria potenza nella creazione.
Il lavoro dei teologi sul concetto di omni-potentia mira anzitutto ad un chiarimento terminologico,
che consenta di rendere compatibili terminologia scritturale e scientifica. Si rende allora necessario
uno sforzo per separare la potenza divina dalla potenza in senso metafisico e fisico, pur mantenendo
l’impostazione generale di Aristotele e la sua teoria della dimostrazione. Le definizioni aristoteliche
vengono corrette e integrate: il concetto metafisico di potentia defectiva serve a superare il
problema di come si faccia a dire onnipotente un Dio che non può fare ciò che le creature possono
fare.
E’ questo processo di raffinamento interno delle definizioni aristoteliche che spingerà Scoto a
tentare di distinguere i due piani. Lo sforzo di trasformare le prove aristoteliche dell’esistenza di un
Dio meccanicistico nelle prove dell’esistenza di un Dio onnipotente, e la conseguente necessità di
adattare alla teologia cristiana uno schema metafisico che le era estraneo, verrà rifiutato anche in
nome della difesa dell’autonomia della teologia.
Naturalmente molti teologi continueranno a tentare l’integrazione di fede e filosofia aristotelica. Ma
l’influenza della nuova teologia si farà sentire. Il tentativo di fondare altrimenti che sulla fede il
concetto di onnipotenza appare ormai difficilmente praticabile, quando Ugolino di Orvieto definirà
l’onnipotenza con una autoreferenza: “Dio può fare tutto e solo quello che non è contraddittorio che
l’onnipotente faccia”.
Nella misura in cui Scoto ha posto a tutti i teologi il problema della ridefinizione del proprio lavoro
e li ha costretti a fare i conti con la utilizzabilità della filosofia, gran parte della teologia del XIV
secolo può essere chiamata “post-scotista”.
Il teologo e la vecchietta
L’atteggiamento delle autorità ecclesiastiche verso Aristotele e l’aristotelismo viene profondamente
modificandosi in senso positivo. Se, da un lato, il cadere della necessità di fornire una base alla fede
ha dato ancor maggiore autonomia al lavoro dei filosofi, dall’altro, la perdita delle certezze basate
sulla integrazione di filosofia e teologia ha spinto i teologi all’esplorazione delle ipotesi più ardite e
sottili. I teologi sentono la necessità di trovare un nuovo metodo di lavoro che possa condurre al
superamento definitivo della teologia aristotelica. Il nuovo atteggiamento della Chiesa verso
l’aristotelismo e la riabilitazione di Tommaso d’Aquino appaiono come evidenti tentativi per
salvare il salvabile.
Giovanni XXII per riunificare la cristianità ha bisogno di una teologia forte, mentre quella post-
scotista è programmaticamente debole.
Robert Graystanes affronta il problema della scientificità della teologia e la nega: la teologia non è
una scienza, ma un habitus a consentire et adherere firmiter. L’obiezione sollevata è che così il
teologo sarebbe deprezzato perché la disposizione a crede è posseduta anche da una qualunque
vecchina. Tale obiezione mira ad accertare quale sia il risultato della fatica del teologo. Molti
teologi hanno risposto che la scienza che spiega le affermazioni scritturali nutre e rafforza la fede.
La risposta di Graystanes è invece diversa e debole: il sapere del teologo è qualitativamente uguale
a quello delle vecchine, ma quantitativamente superiore. L’intelligenza della fede non ne modifica
la qualità.
L’evoluzione dei commenti alle Sentenze
Cambia il metodo di lavoro dei teologi, e questo è evidente nei commenti alle Sentenze di Pietro
Lombardo. Le principali differenze fra i commenti delle Sentenze del XII e del XIV secolo sono
state individuate soprattutto nel crescente peso della filosofia e nella tendenza alla riduzione del
numero delle questioni. I commentari si sviluppano seguendo sempre meno la sistematica
lombardiana e sempre più gli interessi più attuali. Aumenta la lunghezza delle singole questioni, che
diventano spesso dei piccoli trattati.
Il fenomeno della contrazione delle questioni e delle distinzioni tocca naturalmente anche il
dibattito sull’onnipotenza divina: sembra infatti portare con sé uno smembramento delle tematiche
sull’onnipotenza. Esse appaiono dividersi lungo due direzioni: le tematiche più apparentate alla
teodicea verso le questioni morali sulla prescienza e la predestinazione; le tematiche più scientifiche
verso le questioni di angelologia, del rapporto fra Dio e mondo. Altre questioni, come quelle
sull’infinito, si spostano su problemi di teologia quali la carità.
Le questioni che esplicitamente pongono il problema dell’esistenza di una potentia absoluta e di
una ordinata scaturiscono ora dal problema se Dio possa fare un mondo migliore, quando prima
scaturivano più dal problema se Dio agisca de necessitate. Si osserva poi l’emergere di questioni
nuove (se sia dimostrabile l’esistenza di Dio), lo scomparire di questioni più propriamente
teologiche e l’affermarsi di questioni sempre più tecniche e filosofiche sull’infinito. Si riducono o
scompaiono questioni che più immediatamente mirano alla razionalizzazione del discorso teologico.
La novità del XIV secolo non appare tanto l’introduzione di discussioni filosofiche in questo genere
teologico. Il portato della teologia post-scotista, della nuova teologia del 300, sembra semmai la
riduzione del peso di una certa filosofia e di una certa scienza all’interno dei commenti alle
Sentenze, a favore dell’introduzione di quelle subtilitates che, prima di essere discussioni
scientifiche, appaiono al teologo nuovi strumenti analitici elaborati e messi a punto per finalità
prevalentemente teologiche.
Il pluralismo del XIV secolo
L’irruzione di questa nuova filosofia nei commenti alle Sentenze ha come scopo la sostituzione
della vecchia filosofia e mette in luce soprattutto l’esplosione di quel pluralismo metodologico
difeso dagli artistae del XIII secolo e che i nuovi teologi dopo Scoto hanno fatto proprio.
Il mutamento intellettuale si manifesta attraverso la radicalizzazione di certe tendenze, di una
pluralità di problemi e correnti. L’evoluzione interna alla teologia si traduce anche nel ritorno allo
studio e al commento della Bibbia e dei Padri. L’incrinarsi della fiducia nella possibilità di costruire
una teologia scientifica spinge i teologi non solo verso una logica fidei, ma anche verso il recupero
di una esegesi della parola divina maggiormente slegata dal problema della traducibilità in termini
di scienza aristotelica.
Anche la rinascita agostiniana si esprime attraverso il ritorno ai tesi e attraverso l’attività esegetica