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Si mette a studiare le loro strutture diversificate, le larve natanti e gli stadi di sviluppo. Questi crostacei si rivelarono come
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un autentico scrigno di bizzarrie e di diversità; da questo microcosmo di stranezze improbabili Darwin trae il messaggio
che la variazione in natura è permeante, continua e ampiamente sottostimata. Le diversità individuali gli appaiono ora
chiaramente come il combustibile indispensabile del cambiamento, la materia prima di base su cui agisce la selezione
natura. In questo modo Darwin scuote un altro pilastro del pensiero convenzione all’epoca secondo il quale la diversità
andava misurata a livello di tipi di specie o di generi naturali, intesi come modelli ideali, archetipici e sostanzialmente
immutabili. La variazione a livello più basso fra individui era intesa negativamente come la manifestazione imperfetta
dell’essenza più alta della specie; Darwin capisce che la variazione individuale è al contrario, e positivamente, il
presupposto delle trasformazioni delle specie. Per le stesse ragioni si accorge che la distinzione fra specie e varietà
interne alle specie è ambigua: le popolazioni che presentano variazioni locali potrebbero essere l’inizio di un processo di
divergenza che condurrà a una nuova specie. Trovare quindi le linee di demarcazione tra due specie è difficile:
l’uniformismo indotto dalla gradualità di azione della selezione naturale acquisisce un’importanza crescente nella
filosofia darwiniana e diventa una forma di continuismo forte, che non prevede salti né discontinuità, tanto nel tempo
quanto nello spazio.
Ripartì dall’Essay del 1844 e lo divise in capitoli: animali domestici e selezione artificiale, fecondità e sterilità, proprietà
e cause della variazione: lotta per l’esistenza, selezione naturale, principio di divergenza. Lyell lesse sugli Annals and
magazine of Natural History uno strano articolo sulla introduzione di nuove specie scritto da Alfred Russel Wallace un
intraprendente naturalista esploratore, che guadagnava da vivere raccogliendo esemplari rari. Nel testo si parlava di
nascita delle specie, di trasformazione delle razze in specie, di albero genealogico. Wallace scrisse una sintesi delle sue
idee sulla differenziazione delle specie e per Darwin fu un duro colpo. I timori di Lyell si erano avverati: nelle venti
cartelle di Wallace c’era un modello di evoluzione quasi identico al suo. In Wallace il tono è più gladiatorio, gli inadatti
sono eliminati direttamente dall’ambiente e meno dalla competizione con altri individui. Darwin è avvilito dall’idea che
ora qualcuno possa pensare che l’uscita della sua opera sia stata accelerata per rivendicare la priorità su Wallace. Lyell
escogita una saggia soluzione, facendo in modo che i due annuncino congiuntamente le loro scoperte. Il 1858 è la prima
apparizione pubblica della teoria dell’evoluzione per selezione naturale e porta la firma congiunta di Darwin e di Wallace.
IV. Origine delle specie
Come abbiamo visto Darwin non usa mai argomenti di esclusività, preferendo affidare le sue spiegazioni a una miscela di
schemi plurali e valutando poi caso per caso la frequenza relativa di un pattern esplicativo rispetto a un altro. L’origine
trabocca di descrizioni di finissimi adattamenti e co-adattamenti fra gli organismi. Il mondo naturale ne è pieno, poiché il
processo di selezione è in grado di agire sulle più minute sfumature di differenze nelle strutture e nei comportamenti:
l’impronta di un arte analoga a quella degli allevatori. Il concetto pre-evoluzionistico di ad-attamento nascondeva
un’insidia teorica, che preoccupava Darwin a tal punto da aggiungere l’equivalenti di quasi due interi capitoli solo per
questa funzione. Restava il problema che il concetto di adattamento era scivoloso e ambiguo, poiché sembrava designare
sia il processo di graduale accomodamento alle circostanze ambientali per opera della selezione naturale sia il prodotto
provvisorio di tale processo, cioè il singolo tratto adattivo. Inoltre, un’accezione troppo stringente di adattamento
progressivo rischiava di porre in contraddizione due principi: da una parte, la continuità graduale del cambiamento,
dall’altra, la presenza costante e necessaria di una ragione funzionale per ciascuna struttura di fase in fase che sia visibile
dalla selezione e offra un vantaggio, per quanto infinitesimale. Nel capitolo Difficoltà alla teoria, Darwin inserisce un
intero paragrafo sugli organi di estrema perfezione e complessità, nel quale ammette onestamente il problema, per poi
tornarci nel capitolo settimo. Dopo aver ammonito che il detto vox populi vox dei non si applica alla scienza, che è spesso
controintuitiva, sostiene che il processo di selezione procede nella costruzione dell’organo attraverso una lunga serie di
trasformazioni continue, di variazioni ereditarie e di stadi intermedi di evoluzione, ciascuno dei quali utile a chi lo
possiede. Quel che conta è che vi sia una continuità nel successo riproduttivo differenziale, cioè nell’azione della
selezione naturale sulle popolazioni di organismi, e non tanto una continuità nella funzione assunta dal singolo organo.
L’abbozzo di un’ala potrebbe benissimo aver svolto una funzione diversa da quella del volo ed essere quindi preadattata,
e non direttamente adattata, al volo. L’utilità attuale di un carattere viene scissa dalla sua origine storica. È possibile
dunque che gli stadi primitivi e intermedi di strutture attuali non avessero la funzione che poi assumeranno. Questa
seconda soluzione viene seguita da un corollario: se le funzioni cambiano, significa che nell’evoluzione non è scontato
che vi sia una stabile corrispondenza uno a uno fra una struttura e una funzione. Una singola funzione potrà essere svolta
da più organi, di modo che uno di questi possa essere cooptato e specializzato per nuovi utilizzi senza la fitness
complessiva dell’organismo ne risenta. Torna quindi la dicotomia fra unità di tipo (cioè il segno della discendenza
inscritto nelle strutture profonde dei viventi) e condizioni di esistenza esterne, che attraverso la selezione naturale
plasmano gli adattamenti funzionali.
Quella sella complessità degli organi come gli occhi non è la sola predizione rischiosa in cui si cimentò Darwin, come
quando predisse che sarebbe stato scoperto un proto-uccello e nel 1863 fu annunciato il rinvenimento dell’Archaepteryx,
o come quando inferì l’esistenza di una falena mai osservata prima in Madagascar a partire dallo studio della morfologia
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di un’orchidea custodita a Londra. Nell’Origine sembra quasi nutrire un sentimento di comprensione indulgente nei
confronti di coloro che faticano a capire la sua spiegazione antifinalistica. Sa che la sfida al senso comune e ai nostri
vincoli cognitivi profondi è ardua, quasi che ragione e immaginazione entrassero in conflitto ad ogni passaggio. Darwin
sa che la forza del suo ragionamento risiede nella potenza chiarificatrice del meccanismo scoperto e nella convergenza di
induzioni eterogenee, le quali concordano nel suggerire che lo schema più parsimonioso e attendibile per capire la
fenomenologia naturale è la discendenza con modificazioni. Il suo pluralismo non è additivo, poiché le spiegazioni che
avanza non sono né autonome né tutte allo stesso livello; quindi è più corretto sostenere che Darwin ha fondato non una
teoria, ma un programma di ricerca scientifica composta da osservative e da generalizzazioni teoriche. Ma Darwin sa
anche che la sua spiegazione non è in grado di padroneggiare completamente la multiformità dei processi naturali che
pure ha osservato. Sapeva che i primordi della vita in quanto tale sfuggivano alla sua analisi e che sul tema si potevano
avanzare congetture e analogie, benché di gran moda negli anni Settanta dell’Ottocento. L’evoluzione ha a che fare con il
cambiamento, non con i presunti inizi assoluti delle cose. La generazione spontanea non aveva alcuna prova. La vita
doveva essere nata da qualche parte in un tiepido brodo primordiale, non appena le condizioni di raffreddamento della
crosta terrestre lo avevano permesso, ma Darwin oscillò a più riprese fra ipotesi poligeniste (quattro o cinque progenitori
per gli animali, e pochi di meno per le piante) e ipotesi monogeniste più radicali (un solo antenato comune universale,
come prototipo per le forme viventi e possessore primigenio di ciò che tutte hanno in comune, cioè struttura cellulare,
chimica di base, materiale genetico). Dato che la monofilia della vita, che ha avuto tante prove a suo favore, deve oggi
confrontarsi con l’idea di una reticolazione alla base dell’albero della vita, e che il problema di per sé non evoluzionistico
bensì biochimico, le prudenze di Darwin appaiono più che giustificate. Rintuzzò le critiche di chi gli faceva notare
l’assenza di quella estrema gradualità di cambiamento e di successione di forme di transizione che lui ipotizzava,
ricorrendo all’ipotesi ad hoc, già inaugurata nei taccuini, secondo cui la mancanza di gradualità era da imputare
all’imperfezione e alla frammentarietà dei dati geologici. Questa penuria di forme intermedie gli appare come forse la più
evidente e la più seria obiezione che può essere mossa alla sua teoria. Ma non aveva molte alternative al suo tempo per
non considerare l’adagio di Leibniz e di Linneo natura non facit saltum, evocato nel capitolo conclusivo, come una
condizione necessaria affinché il processo di sopravvivenza differenziale conservasse il suo potere si setacciare e
accumulare piccole variazioni. Non gli bastava più la continuità storica del cambiamento evolutivo: si convinse di dover
ipotizzare un gradualismo stretto non più soltanto nelle trasmutazioni tra stadi intermedi a livello di generazioni, ma
anche alla scala massima del tempo geologico; in pratica, un uniforme, lentissimo ritmo di trasformazione a tutti i livelli.
Così trovo ipotesi ad hoc anche per la subitanea comparsa delle prime faune pluricellulari nel Cambriano, sostenendo
che la loro esplosione era solo apparente, un artefatto dovuto alla mancanza di sedimentazione delle parti dure degli
organismi complessi che avevano abitato gli immensi periodi di tempo corrispondenti agli strati geologici precedenti.
Giunse a predire che, nel caso in cui si fosse eventualmente scoperto che l’imperfezione del record fossile pre-cambriano
non esisteva, l’intera sua teoria sarebbe stata confutata. In realtà si sbagliava doppiamente: in primo luogo perché i dati
paleontologici, nonostante i capricci della fossilizzazione, non erano affatto come le poche pagine strappate da un libro,
ma stavano toccando la verità