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Una volta rovesciati i regimi dittatoriali dell’Est europeo, la transizione da un sistema socialista,
pianificato e chiuso verso l’esterno, ad un altro capitalista, di mercato ed aperto, fu enormemente
traumatica. In termini di PIL significò quattro anni di contrazione, dal 1990 al 1993. I due primi
anni comportarono cadute di dimensione equivalente a quelle che si erano verificate come
conseguenza delle guerre mondiali e delle disorganizzazioni susseguenti alle sconfitte: un crollo del
18% in due anni. Nel 1992 e nel 1993 la caduta si andò frenando e, nel 1994, si ritornò a tassi
positivi. Che cosa successe in quegli anni? Una vera rivoluzione economica. Le economie si
aprirono al commercio estero di beni e servizi ed ai movimenti di persone e capitali. Questo
cambiamento, che può corrispondere a decenni di tempo per molti Paesi, si verificò quasi
istantaneamente, come un “big bang”. La pianificazione smise di funzionare ed emersero i mercati,
seppure senza controllo alcuno, senza istituzioni arbitrali, senza alcun diritto che tutelasse i
contratti. Questo secondo shock fu un poco, non molto, più lento. Il terzo grande cambiamento fu la
privatizzazione delle proprietà pubbliche. Per l’enorme ripercussione sui conti pubblici e sulle
fortune private, questo fu il passo verso il capitalismo più discusso pubblicamente e che
maggiormente definì le posizioni dei partiti politici emergenti. Dei tre grandi cambiamenti, fu
quello che prese più tempo, e che, in molti casi, non si è completato; ma, anche così, deve
riconoscersi che si realizzò ad una velocità sorprendente, se teniamo conto della sua rilevanza
economica, sociale e storica. In linea generale, i Paesi che decisero di accelerare i cambiamenti sono
riusciti ad abbreviare la sofferenza della fase di transizione e ad entrare in una nuova era di crescita.
Quelli che esitarono nel processo di transizione sono rimasti impantanati tra due sistemi ed hanno
subìto ricadute dolorosissime. La tabella 35 esplica i due modelli.
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Si possono facilmente esaminare le varianti che abbiamo indicato. La transizione di maggiore
successo, forse l’unica di vero successo, è stata quella polacca, che è riuscita a minimizzare le
perdite (in termini di intensità della caduta del PIL ed in termini di durata della stessa) del periodo
di cambiamento del sistema. La Polonia è riuscita a tornare a crescere impetuosamente con il nuovo
sistema ed ha superato i livelli del PIL del 1988, che era stato il massimo durante il regime
socialista. L’ex Cecoslovacchia non è riuscita a tanto. Con la divisione pacifica tra Cechia e
Slovacchia sembrava che la prima avesse tutto da guadagnare. La Cechia completò una transizione
rapida, quasi come quella polacca, ma non riuscì a sostenere un buon ritmo di crescita per anni. Il
risultato è stato che questo Paese ha consumato un primo ciclo di auge e crisi, senza riuscire a
recuperare il massimo produttivo raggiunto sotto il precedente sistema. La Slovacchia, che
incominciò peggio, con un regime politico che sembrava appartenere molto più all’antico regime,
con una scarsa dotazione di infrastrutture, con una popolazione meno istruita e con un peso
opprimente della grande impresa statale, è stata in grado, dopo due anni di prolungamento della sua
transizione, di tornare a crescere con molta vivacità, dal 1994, ed ha ampiamente recuperato il suo
livello antecedente. L’Ungheria transitò tra i due sistemi, a metà strada tra la Cechia e la
Slovacchia, ma non riuscì a far decollare veramente la sua crescita. Mentre questi due Paesi e la
Polonia raggiunsero tassi di crescita superiori al 5% con notevole rapidità, l’Ungheria ha tardato
molto di più ad accelerare la sua crescita. In cambio, ha fornito maggiore solidità alla sua nuova
architettura economica. Tanto l’Ungheria, quanto gli altri Paesi richiamati in precedenza,
costituiscono la parte della transizione al capitalismo ed al mercato che ha avuto buon esito e,
perciò, questi stessi Paesi sono candidati a partecipare al prossimo ampliamento dell’Unione
Europea. Gli altri tre rappresentano transizioni fallite.
In effetti, tanto la Romania quanto la Bulgaria, dopo aver realizzato le loro transizioni ad un ritmo
simile a quello della Slovacchia e dopo aver conseguito tassi di crescita positivi, sono ricaduti nel
marasma economico più acuto e si vedono esposte alla riproposizione integrale dei loro sistemi e
delle loro politiche.
Le molteplici cause di questa situazione sono inevitabilmente legate alle difficoltà di adattamento al
mercato di Paesi molto arretrati, nei quali i principali investimenti realizzati durante l’epoca di
egemonia sovietica sono risultati completamente inutili, se non negativi, in un nuovo contesto di
mercato aperto. Questo successe anche nella RDT, ma l’assorbimento da parte della RFT ha risolto
il problema, attraverso l’immissione di enormi quantità di risorse.
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LEZIONE 24 Modulo 1
Parte VI Il XX secolo
Cap. 2 Le grandi tappe
(continua)
I Paesi balcanici, a differenza dei vicini settentrionali del blocco sovietico, avevano usanze
occidentali (nella politica e nel diritto) più recenti. Il caso estremo (per non menzionare la piccola
Albania) è stato quello dell’ex Yugoslavia. La sua frammentazione, a differenza di quella
cecoslovacca, è stata enormemente traumatica e ha dato luogo a lunghe guerre, devastatrici e molto
spietate, che hanno occupato tutto il decennio e che continuano ad occupare l’avvio di quello
successivo. Le cadute, il crollo del PIL, tra il 1989 ed il 1993, non rispecchiò tanto una transizione
al mercato, quanto, semplicemente, il caos derivante dalla frammentazione violenta dello Stato
yugoslavo, con alcune condizioni di cambiamento del sistema che avrebbero dovuto essere
favorevoli per l’economia yugoslava, che era quella a più alta concentrazione mercantile, all’interno
ed all’esterno, di tutte le economie dell’Est europeo. Quello che avrebbe dovuto essere un punto di
forza, di fronte alle sfide ed alle opportunità della transizione, l’esistenza di numerose imprese
private, la maggiore diffusione di pratiche mercantili occidentali, l’emigrazione verso l’Europa
occidentale, gli incipienti investimenti stranieri, l’apertura al turismo, il commercio estero più
libero, andò completamente in rovina dinanzi allo smembramento manu militari della Repubblica.
La Slovenia, la prima a separarsi, è quella che ha approfittato meglio del decennio; ma non si può
parlare, in assoluto, di un miracolo economico, bensì di una semplice esclusione dallo scenario del
caos, che le ha permesso di salvarsi dal marasma.
L’URSS ha sofferto la più traumatica delle transizioni, che, rispetto ai Paesi dell’Europa orientale,
ebbe inizio prima e durò molto di più. Il governo di Gorbachov introdusse, a partire dal 1985,
riforme nel clima di libertà, nell’informazione (la Glasnost), nella vita politica, ma poco o nulla
nell’economia. Infatti, Gorbachov non toccò il sistema della pianificazione. Solo dopo il colpo di
Stato fallito dell’agosto del 1991 e la successiva liquidazione dell’URSS, cominciò una transizione
economica, che si è realizzata in un clima di confusione, senza orientamenti, né ordine e neppure
concertazione. Il commercio estero fu liberalizzato istantaneamente, mentre la maggioranza dei
mercati interni continuava ad essere controllata dall’ufficio di pianificazione, dando luogo al crollo
della capacità di riscossione dello Stato ed alla dissoluzione di tutti i meccanismi di monopolio del
potere caratteristici di uno Stato. Dal 1990 al 1998 si può parlare di un disastro economico, peggiore
di quello di qualunque altro Paese del blocco sovietico. Del crollo si può solo graduare l’intensità
(si veda la tabella 36).
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Le repubbliche dell’Uzbekistan, dell’Estonia e della Bielorussia sono riuscite a superare le difficoltà
economiche e a realizzare qualcosa di simile ad una transizione verso un nuovo sistema economico.
Hanno avuto più successo dei Paesi balcanici; gli altri Paesi si trovano in condizioni peggiori. La
RDT è un caso singolare. La più prospera delle economie dell’Est europeo ha goduto della fortuna
di essere assorbita dalla RFT, attraverso il processo di unificazione politica ed economica, una vera
fusione di Stati , che si mise immediatamente in moto dopo la caduta del muro di Berlino e che fu
sancito legalmente dopo un anno (nell’ottobre del 1990). Per la RFT, incassare l’impatto
dell’integrazione della RDT all’interno dei suoi confini e nei suoi bilanci fu una sfida di grandi
proporzioni. La RDT rappresentava la quarta parte della popolazione della RFT (sedici milioni di
abitanti), alla quale occorreva assicurare diritti economici, infrastrutture ed opportunità equivalenti
a quelli vigenti nella RFT. Tutto ciò richiese cospicui investimenti, che la nuova Germania unificata
realizzò indebitandosi. Così come fece Reagan per finanziare il suo programma di riarmo, il
cancelliere Kohl approfittò della centralità del marco e dell’economia tedesca in Europa: gli bastò
che la Bundesbank innalzasse i tassi di interesse per attrarre fondi da tutto il mondo e, in modo
particolare, da tutta l’Europa. Il problema del finanziamento della ricostruzione dell’ex-RDT risultò
così disseminato in tutti i Paesi dell’Unione Europea. Siccome, in virtù degli accordi che avevano
dato luogo al Sistema Monetario Europeo, le distinte valute dovevano mantenersi in una ristretta
banda di fluttuazione, le banche centrali difesero la parità delle loro valute dentro lo SME, per
quanto fu possibile, ma la tendenza alla rivalutazione del marco tedesco fu inarrestabile e finì per
provocare, nel settembre del 1992, una crisi cambiaria di grandi proporzioni. La lira sterlina e la lira
italiana abbandonarono il meccanismo dei tassi di cambio dello SME e, in seguito, per evitare che la
valuta spagnola, l’irlandese e la portoghese seguissero la stessa strada, si trovò l’accordo per
ampliare le bande di fluttuazione dal più/meno 2,5%, al più/meno 15%, facilitando così svalutazioni
di grandi proporzioni, di fatto, legalizzando quelle che si stavano verificando. L’instabilità durerà
per tutto il 1993. Gli impegni per l’integrazione monetaria, presi nel 1991 con il Trattato di
Maastricht, che costituiva l’Unione Europea, si interrompono davanti all’assenza di coordinamento
e di cooperazione tra gli Stati. Il cedimento dell’economia che, nell’insieme dell’Europa
occidentale, cade in termini assoluti, come prima era successo