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CAPITOLO VI
Economia e politica economica in età fascista
1) Il neomanchesterismo di Alberto De’ Stefani
Mussolini nominò ministro delle Finanze l’economista Alberto De’ Stefani, che assunse anche il ministero
del Tesoro.
Il fascismo voleva una ristrutturazione economica di stampo liberistico, e gli obiettivi economico/finanziari
del programma destefaniano erano:
1. Colmare il disavanzo del bilancio pubblico;
2. Perseguire un indirizzo economico produttivistico, con più spazio all’imprenditorialità privata,
esportazioni e cambi favorevoli;
3. Rendere disponibile una quota maggiore del risparmio nazionale per investimenti privati per
accrescere produzione e produttività, creando anche nuova occupazione.
L’azione di De’ Stefani ebbe successo, infatti si raggiunge il pareggio di bilancio nell'esercizio 1924-25: lui
mirò a liquidare il carico fiscale straordinario e a consolidare quello ordinario, furono dunque alleggerite le
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imprese e i ceti proprietari contrariamente ai ceti popolari dove crebbero le imposte sui consumi. Furono
poi applicati tagli alla spesa pubblica (militare, amministrazioni postali/ferroviarie) ritenuta improduttiva.
Il quadriennio 1922-25 vide un evidente rilancio dell’economia, grazie alla completa riconversione
industriale, ripresa delle esportazioni e ad un lieve alleggerimento della pressione fiscale. La bilancia dei
pagamenti invece peggiorò, per le crescenti importazioni (soprattutto cerealicole). L’aumentata domanda
di beni d’investimento unita alla liquidità immessa nel sistema per le operazioni di salvataggio, determinò
un aumento della circolazione e quindi l’emergere di tensioni inflazionistiche, aumentando la quota di
cambio della lira. La politica monetaria di De’ Stefani fu insufficiente sotto il profilo monetario e, giungendo
ad un crac borsistico e vari fallimenti d’imprese, il ministro fu sostituito con G. Volpi, conte di Misurata, un
finanziere e investitore veneziano. Con il suo ingresso Mussolini ottenne l'appoggio diretto
dell'establishment industriale.
“battaglia “quota
2) La della lira” e 90”
Nel 1925 la priorità della politica economica era bloccare l’inflazione e stabilizzare il cambio della lira. Volpi
reintrodusse i dazi cerealicoli, al fine di limitare gli esborsi di valuta, sui quali su tornerà a proposito della
"battaglia del grano". Era fondamentale per la stabilizzazione del cambio della lira anche la sistemazione
dei debiti di guerra e la normalizzazione delle relazioni finanziarie con i Paesi creditori: gli USA vincolavano
la soluzione a questo problema l'apertura di linee di credito, che costituivano la precondizione per la stessa
stabilizzazione monetaria e per l'ingresso nel Gold exchange standard.
Nelle trattative sul pagamento del debito di guerra con gli USA, la delegazione italiana sottolineo i sacrifici
economici e umani durante la guerra e la modesta quota di riparazione ottenuta. Il rimborso fu dilazionato
e gli interessi quasi nulli. Gli americani rinunciarono circa all’80% del loro credito. Lo stesso con la Gran
Bretagna, che rinunciò a circa l’85% del credito.
Tali accordi contrassero molto il debito estero italiano, che comunque non bastò ad attenuare le tensioni
inflazionistiche e il ribasso della lira. Fu avviata dunque una politica deflazionistica finalizzata alla
“quota
stabilizzazione monetaria. Mussolini stesso si espresse per la rivalutazione della lira a 90” rispetto
alla sterlina (discorso di Pesaro). Per fare ciò serviva un riordino strutturale dell’economia, risanare la
finanza pubblica e riformare il sistema d’emissione. A tal fine fu attribuito il monopolio dell’emissione alla
Banca d’Italia (che assunse il governo della moneta e del credito, 1926), cui vennero trasferite le riserve
del Banco di Napoli e di Sicilia.
Un altro problema era la crescente massa di titoli del debito pubblico (Bot) emessi per fronteggiare squilibri
di cassa. Le richieste di rimborso costrinsero ad anticipazioni, che gonfiarono la circolazione monetaria. Per
arginare la situazione fu decretata la conversione di 10 miliardi di debito fluttuante (buoni del Tesoro) in
“Littorio”.
cartelle di prestito consolidato, denominato del L’effetto fu una riduzione della circolazione
interna e un miglioramento nella struttura del debito pubblico.
L'insieme di tali misure ridusse la velocità di circolazione, ribasso i prezzi e procedette anche
all’adeguamento del cambio, e con esso si fissò il contenuto aureo della lira e quindi il rapporto di cambio
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con le monete esteri convertibili in oro. La Banca d’Italia doveva detenere riserve in oro e in valuta
convertibile per il 40% della circolazione, ma così la lira entrò nel gold exchange standard.
“Quota 90” fu una rivalutazione della lira, quindi il paese dovette affrontare un impatto deflazionistico,
dando inizio ad anni di recessione con ribasso dei prezzi e dei salari non indolore, e quindi disoccupazione.
La produzione industriale diminuì e la disoccupazione triplicò e la domanda si contrasse. I tagli salariali
abbassavano comunque i costi di produzione e la rivalutazione della lira stimolò il risparmio interno, di cui
beneficiarono le grandi industrie che superarono la crisi con prestiti americani. Per arginare i problemi
legati alla disoccupazione e per sostenere le imprese, lo Stato attraverso una politica protezionistica, passo
da una politica di tipo liberistico ad una di tipo interventista e a sostegno delle imprese.
“battaglia “bonifica
3) La del grano” e la integrale”
Un mutamento nell’assetto proprietario delle campagne era stata l’espansione della proprietà diretto-
coltivatrice. La diffusione della piccola proprietà fu possibile grazie ai risparmi accumulati dai contadini
negli anni di guerra e dalla disponibilità (soprattutto al Nord) a vendere di molti proprietari, che non
ritenevano più remunerativo l’investimento in beni fondiari.
La politica economica però privilegiò l’industria, e i prezzi dei prodotti agricoli si alzarono, su cui influirono
anche i costi delle macchine agricole e dei fertilizzanti. L’effetto più evidente fu il rallentamento del
processo di meccanizzazione e della modernizzazione delle campagne. “battaglia
La politica di sostegno dei prezzi fu uno degli strumenti d’attuazione della del grano”, che
prevedeva un aumento massiccio della produzione cerealicola. Con l’apparato propagandistico, il regime
“battaglia”
sostenne questa con la necessità di ridurre gli esborsi finanziari e con motivazioni di
nazionalismo economico, tra queste l’esigenza di autosufficienza alimentare in caso di guerra. Si intensificò
quindoi l’uso di macchine agricole, fertilizzanti, sementi selezionate.
I risultati furono soddisfacenti, ma tale indirizzo colturale andò a discapito di produzioni tradizionali di
pregio (ortofrutticola). Ai costi connessi con le mancate produzioni alternative, si aggiunsero quelli per il
sostegno sul mercato interno del prezzo del grano. Tutto ciò penalizzo i consumatori, rendendo discutibile
la convenienza di tale politica di indipendenza granaria.
‘29
L’aumento dei raccolti fece diminuire dal le importazioni. Durante il regime ci fu anche l’approvazione
“bonifica
del testo unico sulle bonifiche (1923), con cui nasceva la integrale”. In cui si aggiungevano, oltre
alle solite, opere di sistemazione idraulica, acquedotti, strade abitazioni ecc. Le bonifiche furono rilanciati
“legge
con la Mussolini” che varò finanziamenti, ma quando si rese necessario l’investimento privato, le
imprese che avrebbero beneficiato delle bonifiche si ritirarono.
’30
La crisi degli anni segnò un impoverimento dei piccoli mezzadri, e non pochi contadini (proprietari da
poco) dovettero rivendere. In più la popolazione aumentava, l’immigrazione era bloccata e il regime
scoraggiò l’emigrazione. L’effetto fu un movimento migratorio interno, verso le aree urbane. Le campagne
soffrirono di manodopera eccedente e si formò sottoccupazione. 28
4) Il corporativismo
Il fascismo pose fine al pluralismo sindacale e stroncò le ultime forme di resistenza operaia nelle fabbriche.
Con il patto di Palazzo Vidoni, la Confederazione dei sindacati fascisti e la Confindustria si riconoscevano
rappresentanti esclusive dei lavoratori, esautorando sindacati non fascisti.
Lo Stato, che controllava i sindacati, riconobbe a quelli fascisti il monopolio della rappresentanza professionale
di ogni categoria produttiva (legge Rocco). Scioperi, serrate, lotte di classe non erano più ammissibili. La legge
Rocco consentì alle imprese di controllare rigidamente il costo del lavoro e al regime di manovrare il livello dei
salari in funzione della stabilizzazione monetaria.
Fu emanata la Carta del lavoro (1927), il 'manifesto' dello stato corporativo, riguardante il contratto collettivo
di lavoro, l'assistenza, la previdenza, l'educazione e l'istruzione. La vita economica non era più individualismo
liberale, ma dipendeva dallo Stato totalitario. Le corporazioni (istituite solo nel 1934) erano indicate come
rappresentanza integrale degli interessi della produzione nazionale. A differenza dei sindacati, non avevano
“organi
personalità giuridica, ma erano riconosciute come di Stato”, esercitando funzioni di conciliazione,
coordinamento, organizzazione della produzione, ridimensionate comunque dalla loro pesantezza burocratica
e organizzativa. Ognuna era presieduta dal ministro delle Corporazioni. Le corporazioni furono una delle
modalità in cui si attuò l’intervento statale fascista.
Con una legge del 1939 fu riordinato il Consiglio nazionale delle corporazioni, per renderlo idoneo a
partecipare all’attività legislativa, costituendo (con i membri dei 22 consigli corporativi) insieme agli esponenti
del Consiglio nazionale del Pnf, la Camera dei fasci e delle corporazioni, che subentrò alla Camera dei deputati.
La nuova camera era eletta dall’alto e composta da funzionari fascisti.
’30
Dagli anni il regime accentuò la propria azione sul piano della legislazione previdenziale/assistenziale.
Previdenza: 1933 si riorganizzò l’Inpfs (istituto nazionale fascista della previdenza sociale) per riequilibrare il
potere d’acquisto della classi medio-basse e non perdere consensi, oltre alla lotta contro le malattie sociali si
occupava anche della disoccupazione. Sempre nel 1933 si diede vita all'Inail, nel 1943 all'Inam fino ad arrivare
nel 1978 al Servizio sanitario nazionale.
Assistenza: nel 1925 viene fondata l'Onmi, Opera nazionale maternità e infanzia, strumento