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Estratto del documento

Truffaut è quello commerciale che stava avendo una notevole diffusione, contro il

quale lottavano gli esponenti della Novelle Vague. Secondo un altro di loro infatti,

Bazin, il cinema non deve più dimostrare, ma unicamente mostrare, proprio come

aveva fatto il Neorealismo in Italia. Per fare questo è necessario riprendere in mano

l’idea di autore come base fondamentale per la produzione della pellicola, forte del

proprio stile e dell’uso consapevole degli strumenti, quali in particolare il piano-

sequenza e la profondità di campo. Il copione di ferro del cinema americano è bandito,

per presentarne uno più snello e leggero, perché il film si deve creare al momento

delle riprese. L’illusione di realtà è bandita: l’autore vuole prima di tutto che lo

spettatore si cosciente di essere al cinema, perché il cinema parla di esso stesso. Il

rapporto complesso con il passato e la tradizione del cinema classico sta al centro di

tutta la nuova concezione del cinema proposto dalla Novelle Vague, che, come diceva

Godard, non fa altro che rappresentare la realtà vista attraverso la finzione. Spesso

sarà presente la mescolanza di fiction e di documentario, girando in esterni reali, con

ripresa diretta del sonoro, ed interni reali con oggetti personali di regista o attore.

Allora non si parlerà più di divi, ma di donne e uomini comuni, spesso di carattere

autobiografico. I tre più grandi interpreti del movimento sono tre: Truffaut, Godard e

Resnais.

Truffaut presenta dei tipi di film che vedono al centro non la storia, ma l’atto del

raccontare. La narrazione infatti è come uno specchio rotto, ogni frammento vi è una

piccola parte di verità, ma mai tutta assieme, e infatti è discontinua, va a sbalzi e

singhiozzi e la velocità è totalmente arbitraria,a volte le scene si allungano a

dismisura, a volte si interrompono troppo presto. I personaggi non sono da meno e

infatti rimangono sempre misteriosi e i loro gesti incomprensibili. Il suo primo film è “I

quattrocento colpi” del 1959, di carattere autobiografico, al festival di Cannes

ricevette il plauso della critica, aggiudicandosi il premio per la miglior regia. Il tutto

venne realizzato paradossalmente con un budget molto basso, tant’è che Truffaut fu

costretto ad utilizzare a furgoncini e macchine per le scene in movimento, come quella

finale, in cui il giovane protagonista, Antoine, corre in spiaggia una volta evaso dal

riformatorio. La storia infatti ruota attorno a un ragazzo lasciato solo dalla famiglia,

privo di amore e affetto, e ci sembra che l’unico che lo guardi con rispetto e cura sia la

cinepresa, che cerca di capire la sua disperazione muta e incapace di esprimersi

all’esterno, che porterà in ragazzo a continue fughe in solitudine. Massiccia è quindi la

presenza di long-takes e piani-sequenza. La pellicola fa parte di una serie chiamata “Le

avventure di Antoine Doniel”.

Godard mostra palesemente al suo pubblico come dal primato dell’azione si sia passati

al primato dell’osservazione, in cui appunto il filo narrativo viene spesso abbandonato

in svariate digressioni e deviazioni. Godard diceva infatti che non si tratta più di

mostrare le azioni al cinema, ma ciò che sta fra le azioni: i silenzi, le attese, le tensioni

fra personaggi, le cose non fatte e le parole non dette. Credeva in un cinema

completamente distaccato da quello americano, basato sulla messinscena

consenziente della realtà, ovvero di voler offrire allo spettatore una finzione sullo

schermo che è conscia di essere finzione, in un cinema che è soprattutto meta-

cinema. Per infrangere lo stile del montaggio narrativo e in visibile hollywoodiano,

Godard utilizza raccordi sbagliati, jump-cuts, scene rallentate o tagliate prima del

finirsi dell’azione. Quello che vuol fare Godard precisamente però non è rifiutare a piè

pari il cinema classico, ma de-costruirlo, smontarlo e mostrare allo spettatore come

funzioni questo tipo di cinema. Per farlo parte da uno dei generi classici più in voga, il

poliziesco, con la pellicola “Fino all’ultimo respiro” del 1960. Particolare è la scena in

cui il protagonista, un ladro di automobili, uccide un poliziotto: l’omicidio, evento-

chiave di tutta la narrazione, non viene nemmeno mostrato allo spettatore, ma

sostituito da uno sparo in lontananza e la scena successiva del protagonista in fuga

per i campi. Lo stesso protagonista è sceso dal piedistallo su cui si ergevano gli eroi

del cinema: è un antieroe, un inetto, un incapace, tradito dalla donna che ama e senza

valore anche nel momento della morte, in cui lo troviamo a fare boccacce all’amata.

Resnais proviene dal campo documentaristico e realizza, secondo questi stile, tre

pellicole fondamentali: “Guernica”, “Nuit et Bruillard” e “Hiroshima mon amour” del

1959. Quest’ultimo è senz’altro il suo più grande capolavoro, incentrato sulla tragedia

dell’agosto 1945 in Giappone. La storia è presentata sotto una prospettiva temporale

particolare, in quanto si staglia su diversi piani temporali non in successioni

cronologica, tramite immagini in parte di finzione, in parte di natura documentaristica.

A dirigerci verso le immagini saranno le voci dei due protagonisti, amanti per una

notte, che rivivranno in un dialogo costante le loro vicende durante gli anni della

guerra.

10) Il rinascimento cinematografico italiano

In Italia l’eredità del Neorealismo va in due direzioni: da una parte nasce la commedia

all’italiana, dall’altra nasce un cinema d’autore del tutto nuovo, che vede i suoi primi

esponenti nei miti di Rossellini, Fellini, Visconti e Antonioni. In Italia si sta vivendo il

cosiddetto “boom economico” e questo porta alla nascita di un nuovo pubblico,

acculturato e affamato di novità, attenti alle problematiche sociali. Si ha quindi un vero

e proprio rinascimento del cinema, che diventa ora l’arte più importante nel Bel Paese,

che esporterà il cinema di maggior qualità del momento. A differenza della Francia,

l’Italia non aveva un passato cinematografico alle spalle da poter contestare e si

focalizza quindi solo sull’introduzione di nuovi modelli stilistici e contenutistici: si parla

della vita di tutti i giorni, legata al nuovo stato di benessere e al consumismo, ma si va

a perdere quel sentimento di coesione e spirito di gruppo del neorealismo per passare

a individualismo e spesso competizione; nello stile la macchina da presa inizia ad

assumere un rapporto sempre più intimistico, profondo ed empatico e aumentano

riprese all’aria aperta e in luoghi reali secondo l’estetica del reale. Gli autori più

importanti di questo periodo sono certamente Fellini e Antonioni.

Fellini lavora inizialmente come disegnatore satirico ed è quindi fin da subito vicino

all’arte come strumento di distorsione delle forme per sottolineare la mostruosità del

quotidiano. Il suo più grande capolavoro infatti, “La dolce vita” del 1960, mette in

scena con straordinaria potenza tutto lo stupido e vuoto mondo del cinema, l’ozio

dell’aristocrazia, le feste insulse, l’ignoranza dei ricchi e la vana raffinatezza degli

intellettuali, il tutto descritto secondo i canoni di un mondo infernale. La storia si

divide in sette grandi stazioni, che rappresentano sette diverse serate svolte sulla

“Hollywood sul Tevere” in cui il protagonista, Marcello, giornalista, che diventerà la

guida, assieme al suo compagno di avventure Paparazzo, per noi spettatori all’interno

di questo viaggio diretto verso lo sfarzo e la sua vacuità. Approfittando del basso

costo, le case di produzione hollywoodiane infatti realizzarono a Roma, negli studi di

Cinecittà, diversi film colossali in costume e da questo nasce un nuovo tipo di

professione: il paparazzo, fotografi disposti a tutti per catturare delle immagini dei

divi trasferitisi nella città eterna. E’ lo stesso inizio del film che ci induce a pensare ad

un mondo corrotto ed infernale: un elicottero trasporta una grande statua di Cristo

sopra i tetti di Roma, in un’amara parodia del ritorno di Dio in un mondo che non lo

riconosce più, perché ha posto come propri idoli la ricchezza e la lussuria. L’occhio

tenero e amaro di Fellini è però particolare, perché non perdona nessuno, ma allo

stesso tempo non condanna nemmeno mostrando personaggi a tutto tondo, nelle loro

grandezze come nelle loro miserie.

Antonioni sviluppa quello che è possibile chiamare “il cinema come sguardo”. Da lui

nasce un modo assolutamente nuovo di guardare e di filmare i luoghi e le persone, un

pensiero per immagini. Per lui l’atto di fare cinema e l’atto di guardare sono

sostanzialmente la stessa cosa. Egli inizia come critico cinematografico a Ferrara, per

poi successivamente diventare regista. Anche lui, similmente a Fellini, decide di

rappresentare la vita quotidiana della borghesia, una borghesia che vive spesso

nell’agio e nell’ozio. E’ il caso di uno dei suoi capolavori “L’avventura” del 1960, che

racconta una gita in barca di un gruppo di amici, che culmina nella sparizione di una di

loro, Anna. Inizia la ricerca da parte del gruppo, ma Anna non verrà mai ritrovata:

durante il resto del film, piano piano smetteranno di cercarla chi per rassegnazione,

chi per perdita di interesse. Il vero protagonista della vicenda però non è un essere

umano: è lo spazio. Il film è costellato di piani-sequenze e long-takes in cui l’occhio

della cinepresa non è tanto interessato alle azioni dei personaggi, ma questi sfuggono

all’occhio della cinepresa come a quello dello spettatore, per concentrarsi sui tempi

morti e lunghi, per riflettere e dubitare. L’occhio che persiste a guardare la storia come

da lontano, quasi come una spia, senza entrare davvero nella storia, dà infatti un

senso di ambiguità e angoscia, proprio le sensazioni che Antonioni vuole lasciare al

lettore, per mostrare come lo spettatore non sai più al centro del mondo e non vi è

nessuna promessa di chiarimento. In “Blow-up” addirittura gli stessi protagonisti si

accorgono di non essere altro che comparse nella storia di qualcun altro.

11) La nascita e la diffusione del cinema moderno

Con l’avvento del cinema moderno si adempie in maniera integrale la rivoluzione

inaugurata dal Neorealismo, per cui il cinema abbandona la sua illusione di realtà

basata sulla continuità illusoria del montaggio. Se il cinema classico degli anni ’30

aveva ereditato la sua forma narrativa dalla letteratura ottocentesca, il cinema

moderno si ispira

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Publisher
A.A. 2018-2019
28 pagine
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SSD Scienze antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche L-ART/06 Cinema, fotografia e televisione

I contenuti di questa pagina costituiscono rielaborazioni personali del Publisher stegosaurros di informazioni apprese con la frequenza delle lezioni di Storia e critica del cinema e studio autonomo di eventuali libri di riferimento in preparazione dell'esame finale o della tesi. Non devono intendersi come materiale ufficiale dell'università Università degli Studi di Firenze o del prof Pierotti Federico.